Il Vaticano e la famiglia queer
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Il Vaticano e la famiglia queer



Il pensiero cattolico ha saputo voltare le spalle (non tutto, ma quello conciliare certamente) all’integralismo assolutista. E’ una grande conquista. E quindi…

Il Vaticano e la famiglia queer
Michela Murgia
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

4 Maggio 2024 - 14.45


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C’è una frase che Carl Gustav Jung elevò a suo motto. Risale ai tempi degli antichi, ed è di Terenzio, il grande commediagrafo romano ma forse non casualmente di etnia berbera, nato circa due secoli prima dell’inizio dell’era cristiana: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. La traduzione è abbastanza semplice: “sono un uomo, nulla di umano mi è estraneo”. 

La vedo spesso scritta a caratteri enormi su un palazzo poco distante da quello dove abito. E’ una frase che ci apre all’altro, che non ci è estraneo, ma prossimo. Illustrando il lavoro dell’antropologo e classicista Maurizio Bettini, che va proprio in questa direzione, Adriano Sofri sul Foglio ha così riassunto il racconto in cui Terenzio la colloca: “ Il vecchio Menedemo si tormenta faticando dall’alba al tramonto alla propria terra. Il vecchio Cremete non se ne capacita, vorrebbe convincerlo a parlarne, come si fa fra vicini, e a prenderla più lievemente. Menedemo lo liquida: non hai di meglio da fare che impicciarti dei fatti altrui? Il benintenzionato Cremete si sente dare dell’indiscreto: uno che non si fa i fatti suoi”.

Ed è qui che replica con la celebre frase qui citata e che ci spinge a forzare quella barriera che ci separa da tanti “altri”. Faccio un esempio: nonostante la sua spinta universalista la storia della sinistra, almeno in Italia ma non credo solo da noi, è una storia di fratture, di scissioni, di scontri violenti, per l’indisponibilità congenita del dogmatismo ideologico verso l’altro. Si può stare solo con i propri, neanche con chi ci somiglia, anzi quella somiglianza alle volte è più pericolosa della diversità. 

La frase di Terenzio mi appare proprio compatibile con lo spirito dell’enciclica “Fratelli tutti”, che vede nelle nostre diversità una ricchezza di cui prendersi cura, lontana dal pensiero rigido, che non può contemplare aperture. In certo senso, ritengo che per possa essere proprio il razionalismo a portarci  lontano da Terenzio: se ogni domanda ha una risposta giusta, se ogni risposta giusta è conoscibile e se ogni risposta giusta oltre che conoscibile deve essere compatibile con le altre, è chiaro che il rischio è di arrivare all’assoluto, per cui solo una risposta, certamente conoscibile e compatibile con le altre è quella giusta, sempre e per tutti. 

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Proseguo facendo un esempio: c’è un solo modo di intendere il romanticismo? E’ stato l’amore per le nostre antiche tradizioni? Non è stato l’amore per le gesta eroiche del singolo? Pongo questa domanda per porne un’altra: davvero possiamo pensare che come Newton ha trovato legge universali così anche noi possiamo trovare leggi universali per le scienze sociali?  E davvero possiamo dirci sicuri che l’illuminismo fu un blocco omogeneo? Voltaire non pensava che l’uomo per via della sua natura malvagia avesse bisogno di regole ferree? E Rousseau (il primo Rousseau) non era invece convinto che l’uomo fosse per natura di indole buono? Prendendo una strada che appare sicura ci si può trovare in fossi impensabili: non è l’illuminismo, con il suo evoluzionismo, che aperto la strada (anche) a quelle dolorose ricerche dell’anello mancante tra l’uomo e la scimmia? 

Il pensiero cattolico ha saputo voltare le spalle (non tutto, ma quello conciliare certamente) all’integralismo assolutista. E’ una grande conquista, come quella che ha condotto il  Pci a voltare voltare le spalle alla Mosca sovietica (che poi era la Terza Roma imperiale della Terza Internazionale), un fatto oggettivo, verificatosi prima con Berlinguer, poi con Occhetto. Sono processi, ci vuole tempo per archiviare certi integralismi indisponibili a capire punta di vista diversi dal nostro. E’ come se fossero percorsi ad ostacoli. Se ne supera uno, poi ne compare un altro. L’uno cammina infatti, come la storia. 

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Per questo mi sono incantato leggendo l’intervista di padre Antonio Spadaro al Venerdì di Repubblica nel cui sottotitolo gli si attribuiscono queste parole: “Nulla di ciò che umano spaventa”, neppure il gender, né la sua famiglia queer. 

Interessante, soprattutto con i tempi che corrono. Ma è merito di Spadaro o demerito dei dogmatismo tradizionalista? Afferma padre Spadaro, sottosegretario del Dicastero per la Cultura e l’educazione cattolica in Vaticano: “Se questo termine ambiguo non si prestasse a fraintendimenti, potrei dire che anche la mia famiglia, come quella di Michela (Murgia) è una famiglia queer. Io vivo nella comunità di Civiltà Cattolica. Dai pasti alla preghiera, la mia vita è condivisa. Si svolge insieme a quella di altre persone. E’ aperta alla molteplicità dei rapporti, alla compartecipazione. Mentre era la famiglia borghese mononucleare, composta esclusivamente da madre, padre e figli, ciò che Michela Murgia voleva superare. Anche io però invito a uscire dalla famiglia chiusa in una bolla, rigida. Sono siciliano, Michela Murgia era sarda. Entrambi abbiamo sperimentato la famiglia allargata. Quella in cui si viveva con gli zii, i nonni, i cugini, senza che i ruoli fossero stabiliti in partenza. A volte era un padre il riferimento. A volte una nonna. Credo sia questa la matrice della famiglia queer di cui parlava Michela Murgia, allo stesso tempo antica e modernissima”. 

Spadaro riprende un pensiero diffuso e scientificamente consolidato. Su Domani, già il 6 luglio 2023, Mariano Croce ha scritto un articolo di grande interesse al riguardo, che comincia così: “ Negli studi sulla parentela – uno degli assi portanti dell’antropologia sociale – già all’inizio del Novecento studiose e studiosi occidentali dovettero constatare che la coppia monogamica era merce assai rara sul mercato della socialità umana”. Alla base della famiglia come oggi la intendiamo, più che la Chiesa il suo studio indica gli illuministi (quell’idea borghese cui Spadaro accenna?): “ A ben guardare, anche nelle nostre latitudini la famiglia monogamica è tutt’altro che risalente, figlia com’è delle riforme illuministiche di fine Settecento e dei codici civili di inizio e pieno Ottocento. In passato, specie nella Roma antica e nel primo medioevo, i modi di fare famiglia erano molti, e non tutti erano legati al fatto biologico della procreazione”. E infatti può aggiungere: “ È in ragione di ciò che alcuni storici, come ad esempio Hans Hummer, sconsigliano di utilizzare termini quali “parentela” e “famiglia” quando si guarda a periodi che precedono l’evo moderno, dato che in essi l’organizzazione della vita intima e di quella domestica non si fondava certo su quella unità ai nostri occhi naturale (ma tutt’altro che tale) che è la coppia monogamica”.

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Michela Murgia stessa disse in un’intervista alla Stampa parole assai chiare al riguardo: «Una famiglia queer non significa orge e stravizi sessuali. Ma responsabilità reciproca». Dopo aver rivelato di essere malata di cancro e di aver comprato una casa con dieci letti «dove la mia famiglia queer può vivere insieme», Michela Murgia ha chiarito sui social quanto aveva solo accennato nell’intervista ad Aldo Cazzullo del “Corriere della Sera”, che le chiedeva cosa intendesse per «queer family». Per la scrittrice la traduzione è «nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla».

Le parole di padre Spadaro per me aprono un mondo, quella vaticano, al mondo e di questo ritengo indispensabile dargli atto, perché tutti, “innovatori” e tradizionalisti abbiamo bisogno. Per dire qualcosa di mio di questa discussione sulla “famiglia” mi viene in mente solo una frase di Paul Valery: “Non è possibile ubriacarsi, non è possibile saziare la propria sete con le etichette delle bottiglie”. 

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