Scenari per la pace tra Israele e Gaza: speranze e sfide future
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Scenari per la pace tra Israele e Gaza: speranze e sfide future

Da pochi giorni il Gabinetto di guerra in Israele non c’è più, come annunciato dal premier Benjamin Netanyahu dopo che il centrista Benny Gantz se n’è andato sbattendo la porta di fronte alla mancanza di un orizzonte politico e strategico.

Scenari per la pace tra Israele e Gaza: speranze e sfide future
Una bambina a Gaza
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21 Giugno 2024 - 11.02


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di Antonio Salvati

Da pochi giorni il Gabinetto di guerra in Israele non c’è più, come annunciato dal premier Benjamin Netanyahu dopo che il centrista Benny Gantz se n’è andato sbattendo la porta di fronte alla mancanza di un orizzonte politico e strategico. Com’è noto, l’organismo fu creato ad ottobre per dirigere la “guerra lunga e difficile” su Gaza. Alcuni osservatori affermano che adesso potrebbero delinearsi nuovi scenari politici e militari, sempre in attesa dell’esito delle elezioni presidenziali negli USA che si terranno il prossimo 5 novembre. Dopo oltre sei mesi dall’inizio del conflitto segnato dalla morte di migliaia di civili colpisce la mancanza di una strategia di lungo termine in ognuno degli antagonisti.

Mentre scriviamo le questioni più urgenti riguardano gli interventi umanitari finalizzati ad aiutare la popolazione di Gaza, fra cui molti civili, oppressi dallo stesso regime di Hamas, costretti ad abbandonare le case. Obbligati a dirigersi e affollarsi nel Sud della Striscia di Gaza, per poi essere spinti dall’orrore della guerra a ritornare verso il Centro e il Nord, dove i territori sono devastati e molte abitazioni inabitabili. Nello stesso tempo proseguono gli sforzi per la difficile trattativa per il cease-fire e la liberazione dei 133 israeliani ancora prigionieri a Gaza in una condizione tragicamente incerta. Infatti, 34 di loro sono riconosciuti ormai non più vivi da Israele. Altri, sulla base di testimonianze non completamente attendibili, sarebbero morti.

I fatti tragici del 7 ottobre, l’obbrobrio di Hamas, hanno provocato un forte impatto sulla psicologia degli israeliani. Ha sviluppato in parti consistenti dell’opinione pubblica un forte anelito all’annientamento del nemico. La sproporzionata risposta delle forze militari israeliane è vista come legittima e necessaria a restaurare una “deterrenza” perduta sui confini del Paese e al suo interno. Giustificata per prevenire il ripetersi di orrori dello stesso genere. Senza dubbio, il regime dispotico e militarizzato di Hamas ha gravi responsabilità. Parallelamente, il governo israeliano avrebbe potuto fare e forse ancora potrebbe con un futuro governo, per mettere in piedi un nuovo governo palestinese, formato da una possibile leadership locale o con il ritorno a Gaza dell’Autorità palestinese, attraverso la realizzazione di un’ampia opera di ricostruzione finanziata dalla comunità internazionale. 

Non pochi hanno raccontato dell’alleanza diabolica costituitasi nei fatti in passato fra Hamas e Netanyahu, che da diversi anni ha promosso e perseguito la strategia che mira a separare Gaza e Cisgiordania, Hamas e Autorità palestinese, al fine di scongiurare un negoziato di pace che preveda la fine dell’occupazione e la nascita di uno Stato palestinese. L’obiettivo era quello di contenere Hamas, ma senza rovesciarne il regime. Tutto ciò favorendo l’afflusso di fondi finanziari, soprattutto provenienti dal Qatar, in cambio di tranquillità. L’apparato militare estesamente schierato in Cisgiordania a protezione delle colonie e del processo di annessione de facto di parti rilevanti di quel territorio aveva conseguentemente costretto l’esercito a ridurre in maniera rilevante le difese a nord con Hezbollah e a sud con Hamas.

Dopo diversi mesi di conflitto in Israele cresce la convinzione che la sicurezza di Israele non può contare esclusivamente sulla forza leggendaria dell’esercito israeliano, la mitica Tsahal. Per quanto possano avere un effetto deterrente nel breve periodo, le azioni militari hanno provocato un impressionante numero di vittime civili, che contribuiranno a rafforzare nelle giovani generazioni che popolano Gaza e la West Bank la fascinazione per il fanatismo fondamentalista, tramite un meccanismo perverso di imitazione più volte verificatosi nella storia. In questi mesi è cresciuto l’isolamento internazionale di Israele accusata di eccesso di violenza contro i civili nell’esercizio del diritto di autodifesa, previsto da diverse Convenzioni internazionali come quelle di Ginevra del 1949. Quando termineranno le operazioni militari occorrerà affrontare la questione del governo della Striscia. Da escludere l’ipotesi di una rioccupazione, neppure per un periodo limitato, come accadde dopo la guerra del 1967 e lo sgombero nel 2005. Poco probabile il coinvolgimento “salvifico” di paesi arabi come Egitto, Emirati e Arabia Saudita, a cui chiedere di amministrare due milioni di persone affrancando così Israele da dilemmi e ostacoli. Un’ipotesi possibile è quella di un periodo interinale gestito da una forza internazionale di interposizione, con l’auspicio nel frattempo della nascita di una nuova leadership palestinese in loco, in contrapposizione a Hamas e estranea alla sua ideologia islamista. C’è chi auspica il ritorno di Gaza sotto il controllo dell’Autorità palestinese di Ramallah che – com’è noto – ne fu esclusa violentemente nel 2007 dopo un violento confronto con Hamas. Un iter difficile considerando il forte discredito nei confronti dell’Autorità palestinese, radicato nell’opinione pubblica, accusata di autocrazia, corruzione e connivenza con Israele occupante. Si tratterebbe di una soluzione possibile e decisamente ragionevole nel lungo termine, prevista del resto dagli stessi Accordi di Oslo del 1993 che prevedevano prefiguravano un legame fisico e politico fra Gaza e Cisgiordania per un futuro Stato di Palestina autonomo. Intanto, in questi mesi molti Paesi del mondo hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, tra i quali numerosi dell’Est europeo, accentuando l’isolamento diplomatico di Israele, anche nell’Occidente più benevolo. Aumenta la perdita del credito di simpatia che Israele aveva accumulato nei decenni passati, a causa della sua politica di occupazione e dell’insofferenza diffusa per il modo in cui i governi Netanyahu (da febbraio 2009 a oggi) si pongono in politica estera ma anche interna. Governi dominati da partiti e movimenti sciovinisti e integralisti che soventemente reagiscono scompostamente agli organismi internazionali come l’Onu e diverse sue agenzie.

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Essere cittadini dello “Stato ebraico” non significa più di per sé una garanzia di sicurezza per i suoi abitanti, il diritto a esistere in pace e pienamente integrato nel Medio Oriente, né la rimozione di una condizione ebraica di perenne precarietà. In altri termini, il 7 ottobre è come se avesse messo in discussione i due elementi chiave della Storia e della coscienza di sé del Paese come la fiducia nella forza delle armi, del proprio apparato difensivo, dell’intelligence e quella nelle sue ragioni ideali riconosciute dall’opinione pubblica del mondo. Sta venendo meno, oltretutto, l’assioma consolidato che la forza di deterrenza di Israele da una parte e l’assodata prudenza strategica dell’Iran avrebbero evitato un’estensione del conflitto al Nord di Israele con le milizie Hezbollah in Libano e quelle sciite legate all’Iran in Siria, Iraq e Yemen. Appare, inoltre, sciogliere la questione relativa ai territori occupati dopo la vittoria di Israele del 1967, contro la coalizione panaraba di Egitto, Siria e Giordania. In pochi anni gli insediamenti sono aumentati sensibilmente passando da poche decine a oltre duecento, per via dell’interpretazione un’ottica teologica di alcuni ambienti israeliani, secondo la quale si sta realizzando la Eretz israel, la Terra d’Israele. Gli insediamenti divennero per i governi di destra una missione nazionale. Oggi sono più di 630 mila gli israeliani (su un totale che si avvicina ai dieci milioni) che risiedono negli insediamenti della Cisgiordania e che con le loro pressioni tengono sotto scacco i diversi governi israeliani. Non sono comunque pochi gli israeliani convinti quanto sia illusoria l’opinione che il conflitto si possa risolvere senza porre fine all’occupazione e alla convinzione di potere reprimere le aspirazioni palestinesi a uno Stato degno di questo nome. In realtà, in Israele esistono profonde divisioni, seppur gli israeliani sono assai uniti e profondamente legati all’identità religiosa e storica ebraica. Non tutti gli israeliani – di cui poco più del 73 per cento sono ebrei, poco più del 21 per cento sono arabi (musulmani e cristiani) e i restanti sono classificati come “altri” (categoria che comprende per esempio i cristiani non arabi) – sono convinti che i palestinesi siano tutti come Hamas e che un loro Stato lungo i circa 600 km del confine orientale di Israele sia un pericolo esiziale.

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Con questi scenari difficile individuare delle soluzioni per il cessate il fuoco e l’inizio di trattative per la realizzazione di un accordo di pace stabile. Soprattutto se restano gli odierni governanti, sia in Israele che a Gaza. Serve evidentemente un ampio ed autorevole coinvolgimento internazionale. Molti paesi arabi negli ultimi decenni hanno brillato per la loro assenza e il loro disinteresse per la questione palestinese. Si potrebbe iniziare con l’impegno delle parti a rigettare la disumanizzazione del “nemico”, riconoscendo – pur con fatica – le ragioni dell’altro.

Concretamente la soluzione “due Stati per due popoli” è stata l’unica sulla quale si è cercato di costruire un processo di pace. La soluzione prevede la fondazione di uno Stato palestinese nei territori di Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Le sua realizzazione è assai complicata, in quanto Israele dovrebbe cedere i territori occupati nel 1967 e i palestinesi dovrebbero rinunciare definitivamente a quelli che hanno perso nel 1948. Negli anni ’90 le due parti hanno raggiunto alcuni accordi parziali, ma il processo di pace è fallito senza che lo Stato palestinese sia stato costituito. Anche a causa dell’incomprensibile rigidità di Arafat sulla questione del ritorno dei profughi palestinesi espulsi nel 1948. Altre due questioni essenziali sono quella dello status di Gerusalemme (entrambi i contendenti la rivendicano come capitale; dividere la città è molto difficile, perché entrambi vogliono il controllo sui luoghi sacri che contiene) e quella dei confini e de gli insediamenti israeliani (assai improbabile oggi ripristinare perfettamente i confini del 1967 perché al loro interno sono stati costruiti molti insediamenti israeliani). Teniamo conto che i palestinesi sono stati per anni illusi di ottenere uno stato indipendente e lungo tempo sono sempre più isolati e internazionalmente percepiti come un manipolo di terroristi La soluzione a uno Stato non è mai stata oggetto di trattative diplomatiche, ma è stata proposta da alcuni esponenti politici e intellettuali autorevoli israeliani. Questa ipotesi è da diversi ambienti considerata impraticabile per varie ragioni. Innanzitutto, perché gli ebrei diventerebbero minoritari: nell’ipotetico Stato unico, la popolazione araba (inclusi gli arabo-israeliani, cioè i discendenti dei palestinesi restati in Israele nel 1948), sarebbe al momento equivalente a quella ebraica, ma, avendo un tasso di crescita maggiore, diventerebbe presto maggioranza. Così Israele non sarebbe più uno Stato degli ebrei e pochi israeliani sarebbero disposti ad accettarlo. L’ipotesi uno stato per due popoli – nessuna delle due parti ha avuto un’opzione militare praticabile contro l’altra, per questo ragionevolmente si arrivò agli Accordi di Oslo del 1993, che hanno tentato così palesemente di realizzare ciò che la guerra non era riuscita a fare – è stata avanzata nel 1999 dall’intellettuale palestinese Edward Said che immaginava uno stato federale, dove i diritti di cittadinanza prevalgono su quelli nazionali. Progetto oggettivamente tropo ambizioso che richiederebbe di «ammorbidire, diminuire e infine rinunciare allo status speciale di un popolo a scapito dell’altro. La Legge del Ritorno per gli ebrei e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi devono essere considerati e rifinite insieme». Uno stato comune dove prevalgono le identità civiche e trasversali di ebrei e palestinesi richiederebbe un reciproco sforzo identitario a sostegno del nuovo equilibrio demografico: la rinuncia ad essere uno stato fondato esclusivamente sull’identità ebraica da un lato, e, dall’altro, rinunciare all’idea che la libertà palestinese possa avvenire solo al prezzo di esodi e politiche che ripristino la demografia di cent’anni fa. Alcuni israeliani proposero l’ipotesi – apprezzata anche dai partiti nazionalisti – del ritorno di parti della Cisgiordania alla Giordania, che l’ha controllata fino al 1967, e contestualmente l’annessione israeliana del resto del territorio. L’opzione non considera la Striscia di Gaza, che dovrebbe diventare uno Stato a sé stante o essere annessa all’Egitto. L’opzione giordana non incontra il parere favorevole dei palestinesi che puntano ad avere un proprio Stato. Una cosa è certa: nessuno pensa invece ad annettere Gaza, abitata da una popolazione numerosa e ostile a Israele. Infine, ogni annessione non negoziata non comporterebbe la fine del conflitto. Anzi, lo renderebbe più duro, non condiviso dalle diplomazie e con eventuali ripercussioni internazionali imprevedibili.

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Tenuto quanto fin qua elencato, resta la priorità di porre fine alle ostilità e far incontrare le parti. Indiscrezioni autorevoli ci dicono che i contatti – favoriti dai qatarini – non sono stati mai interrotti. La soluzione non è mai improvvisa e meccanica. Mario Giro ha scritto che questo nostro tempo è abitato da “trame di guerra”, ma anche da “intrecci di pace”, per cui «la guerra non è mai ineluttabile, ma è sempre una scelta politica dei leader, che può essere invertita». Già ascoltare il grido di pace molto forte che proviene sia dalla popolazione israeliana che dai palestinesi di Gaza – sottolinea Andrea Riccardi – mette in movimento le persone e le coscienze, fa maturare idee, sentimenti e speranze. «Non siamo consegnati a un destino ignoto, su cui non si può esercitare nessuna influenza. Si può ascoltare, comprendere, discutere: i processi messi in moto, talvolta, travolgono le resistenze e mettono in atto movimenti che vanno ben aldilà dei singoli. C’è anche una forza della ragionevolezza della pace, risposta all’anelito di tanti: molte volte è un’energia sottovalutata». La storia non è uno spartito già scritto. La storia è piena di sorprese. E la più grande sorpresa è la pace, come dimostrarono i citati accordi di pace del 1993 giunti inaspettatamente. Il XXI secolo non può e non deve essere destinato alla guerra. In un tempo in cui è stata riabilitata la guerra non bisogna rinunciare a indicare la pace – come fa quotidianamente Papa Francesco – come scelta lungimirante. La guerra sfigura il volto dell’umanità. Ne sanno qualcosa i parenti degli ostaggi israeliani e i palestinesi di Gaza.

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