Alla tenera età di 45 anni, vengo ancora ogni tanto chiamato “giovane compositore”. Sarà la vita che si allunga, sarà l’età pensionabile che si allontana… (anche i nostri governanti sono abbondantemente over 70).
Ma cos’è, veramente, la maturità in un certo campo? Si tratta di quello stato che si raggiunge quando hai avuto le opportunità che ti hanno permesso di confrontarti con tutti i problemi fondamentali della professione (questa mi pare una buona definizione).
I teatri e le società dei concerti sono in crisi (non solo in Italia), e i modelli economici su cui si basavano stanno subendo un tracollo che aprirà scenari inediti, mentre i dischi stanno esalando gli ultimi respiri, in favore di una fruizione sempre più online, priva a tutt’oggi di una regolamentazione convincente (ammesso che sia mai possibile arrivarci).
Ma a parte il nefasto influsso delle congiunture economiche e l’avvento delle nuove tecnologie, è in atto (e già da tempo) un cambiamento radicale nella cultura: la musica di tradizione colta ha perso il suo appeal e non sembra più detenere quel primato culturale a lei tradizionalmente accordato (come spiega molto bene Alex Ross in Il resto è rumore, insieme a tante altre cose interessanti): la pratica musicale è quasi del tutto musealizzata e sono lontani i tempi in cui i giornali informavano quotidianamente della temperatura corporea del genio morente (come nel caso di Mahler), mentre ai funerali di oggi si canta Bella ciao al posto di qualche immortale melodia dell’autore scomparso (come ho sentito raccontare a proposito di Luciano Berio).
E dunque stiamo perdendo le occasioni che prevedono una contemplazione del flusso musicale senza scopo diverso dall’abbandonarsi all’ascolto stesso, il quale, attraverso la musica, diventa ascolto di se stessi nel profondo (stiamo parlando di una forma di meditazione, di cui tutti abbiamo comunque un gran bisogno – come interpretare altrimenti le ciarlatanerie mistico-spiritualeggianti-newage oggi di così gran moda?).
Per conto mio, nel campo musicale, una grande colpa ce l’hanno molti compositori delle generazioni a noi subito precedenti. In sintesi estrema: Schönberg ha creato un sistema che ha spacciato per storicamente necessario (mentre poteva valere come forma di protesta, ed era solo farina del suo sacco), e tutti quanti dietro a costruire sistemi vieppiù cervellotici e lontani dal sentire musicale comune, con il sostegno di grandi pensatori e della critica più accreditata; secondo questi schemi i vari Shostakovič, Prokof’ev o Britten (tanto per fare qualche esempio tra i massimi) sarebbero praticamente quasi degli abusivi che hanno continuato a fare musica secondo gli aborriti schemi tradizionali di melodia-armonia-ritmo, evidentemente riferibili essenzialmente alla tramontata era borghese, e quindi, in ultima analisi, arretrati, superati, diseducativi per il popolo, quando non proprio fascisti, e via blaterando… (peccato soltanto che questa forma di “abusivismo” sia la sola in grado di conquistatare una certa quota di repertorio esecutivo, mentre quasi tutta l’altra produzione ne è rimasta sostanzialmente tagliata fuori: le contraddizioni del mondo contemporaneo!).
Alla fine bisogna ammettere che l’immaginario collettivo ha fatto propria l’immagine del compositore un po’ disadattato (se non pazzoide), chiuso nell’ermetismo esoterico della propria cerchia, l’unica in grado di comprenderlo. Egli scrive cose strane e incomprensibili, ma soprattutto inutili. Difficile, a questo punto, spiegare a un bondi qualunque (che stanga i teatri d’opera con devastanti tagli del FUS) e a un brunetta qualsiasi (che parla di “culturame” come fosse l’immondizia di Napoli) quanto torto hanno. E lo hanno, ovviamente.
Dunque, quali opportunità oggi per i compositori di musica contemporanea? Poche, pochissime: le espettative devono essere tenute basse, e soprattutto chi è più giovane e non riesce a entrare in un establishment estremamente selettivo (ma non meritocratico), deve dimenticarsi la possibilità di acquisire quell’esperienza che, come spiegavo prima, produce maturità, e rassegnarsi a rimanere giovane forse sino alla morte. Come Max Tivoli.