di Federico Biscione
No niente sondaggio, state tranquilli, anche perché per me la risposta è chiara. Questo post nasce dalla recente lettura di un interessante articolo di Marco Gatto comparso in “Alias” (l’inserto domenicale del quotidiano “il manifesto”) il 29 settembre scorso in forma di recensione sul recente Shostakovich – Continuità nella musica, responsabilità nella tirannide (Zecchini editore) di Piero Rattalino.
Come scrive Gatto, sui rapporti intercorsi tra il compositore ed il regime sovietico la critica ha avuto la tendenza a dividersi tra “chi ha voluto dipingere il compositore come un fiero avversario delle politiche culturali totalitarie, e dunque come un martire della tirannia, e chi ha inteso farne un musicista completamente asservito alle logiche di potere, in tutto e per tutto organico allo stalinismo“, questione di difficile risoluzione se “manca una considerazione critica della musica di Shostakovich“; prosegue Gatto affermando che “attraversarla interamente significa ridisegnare i contorni del Novecento musicale e ristabilire i rapporti tra elaborazione artistica e risposta sociale“.
Secondo Gatto la “ricerca musicale [di Shostakovich] fu sempre contraddistinta da una vocazione sociale, persino servile nei confronti di un ideale umanistico in cui il comunismo trovava asilo quale manifestazione politica più alta del cammino emancipativo di un popolo. E la conferma viene proprio dalla poetica musicale di Shostakovich, che elegge il rapporto con la tradizione come segno vivo della continuità storica e della responsabilità artistica nei confronti del pubblico, verso il quale, da compositore «civile», egli si riteneva garante di un indirizzo musicale istruttivo. Risiede in questa prospettiva umanistica l’eccentricità di Shostakovich rispetto a tanti compositori del Novecento e la sua lontananza da forme di radicalismo avanguardista“.
L’articolo prosegue rilevando la stridente contraddizione insita nel fatto che “si è a lungo ritenuto l’oltranzismo linguistico di marca postweberniana un marchio registrato (e un titolo di vanto) della sinistra culturale, da difendere all’eccesso, anche quando incomprensibilmente distante da un pubblico di per sé lontano dalle speculazioni musicali colte“.
E qui non può non venire in mente Luigi Nono, compositore italiano linguisticamente appartenente a un’avanguardia estrema, celebrato autore di musica quasi esclusivamente ispirata da motivi politici e nominato membro del comitato centrale del P.C.I. nei congressi del 1979, 1983 e 1986: la resistenza che la sua produzione incontrava presso il pubblico (fosse esso formato da “compagni” o meno) è ben nota, e si ha una testimonianza di un certo dibattito su ciò, almeno a sinistra, persino in una canzone di Claudio Lolli (Anna di Francia), che contiene dei veri propri insulti al compositore veneziano (anche se non possiamo stabilire se quelle parole rappresentassero il pensiero dell’autore, o riportassero invece soltanto l’opinione di qualcuno).
Rileva Gatto che con questa impostazione ideologica “spesso spalleggiata da un apparato politico ed extramusicale che andrebbe, gramscianamente, tenuto presente e studiato meglio“, […] “una intera tradizione musicale è stata condannata al silenzio e alla mancata considerazione storiografica, […] una tradizione che ha fatto della continuità e del rapporto con la Storia la sua ragione di poetica, senza pretendere rotture epistemologiche col passato o rifondazioni linguistiche“.
Sui rapporti tra l’autore della sinfonia Leningrado e il regime troviamo una analisi simile, pur se necessariamente stringata, anche nel Dizionario del comunismo nel XX secolo (Einaudi) dove alla voce “Shostakovich” (di Francesco Salvi) si legge che costui fu “un artista intimamente libero, e fortemente legato agli ideali della Rivoluzione d’ottobre“, e al quale, proprio in virtù di un’intima e incrollabile fedeltà a quegli ideali, “restarono le strade del compromesso, della resistenza passiva, del mascheramento“.
Infine mi piace riportare la chiusa dell’articolo di Gatto, contenente una plausibile risposta al sondaggio proposto, per celia, nel titolo di questo post: “la sua musica [di Shostakovich] resta uno degli esempi più alti dell’arte sonora novecentesca, avvinghiata com’è al tempo in cui è sorta, eppure capace di proiettarsi universalmente oltre, verso un ideale estetico di comunità di certo senza paragoni nel radicalismo linguistico del secolo scorso, che, anzi, al confronto potrebbe dialetticamente rovesciarsi in una forma di gretto conservatorismo“.
Una voce “Luigi Nono”, nel Dizionario del comunismo citato, manca.