Berengo Gardin, il comunista che rubava i baci

Foto a disposizione dei futuri archeologi del paesaggio urbano. Gli scatti di Gianni Berengo Gardin in mostra a Genova [Claudio Marradi]

Berengo Gardin, il comunista che rubava i baci
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31 Maggio 2014 - 12.18


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da Genova
Claudio Marradi

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Gianni Bernego Gardin, fotografo e comunista. E pare strano associare una connotazione politica così marcata a un artista conosciuto al grande pubblico per la sua celebre serie dei “baci”. Ma è lui stesso a dichiararsi così, commentando in prima persona le foto esposte nella mostra antologica a cura di Denis Curti “Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo”, che rimane aperta fino all’8 giugno nel Sottoporticato di Palazzo Ducale a Genova.

Ancora pochi giorni, quindi, per conoscere il lavoro di un maestro della fotografia umanista italiana che ha attraversato in profondità la storia recente del nostro paese. Oltre duecento scatti, in buona parte inediti e visibili per la prima volta, in rigorosa pellicola bianco e nero «perché – con le sue stesse parole – il colore distrae il fotografo e chi guarda».

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Molte delle foto sono infatti storie raccontate dalla viva voce dell’autore nei capitoli dell’audio guida che accompagna il visitatore lungo un percorso temporale che parte dal 1954 per arrivare al 2002. Proprio come la sezione dei baci, che Berengo Gardin aveva pensato, fuori da ogni intenzione di romanticismo, come fotografie di denuncia di ritorno da un viaggio a Parigi. Dove con sua grande meraviglia vide, come dice lui stesso, «coppie che si abbandonavano a effusioni in pubblico e fu uno shock, dato che nel 1954 in Italia era proibito baciarsi per strada». Poi di baci ne vennero tanti altri: in spiaggia, nelle stazioni ferroviarie, per strada, sotto i portici di Piazza San Marco a Venezia… Baci rubati, quelli di Berengo Gardin, che rifugge l’allestimento scenico di tanti suoi colleghi, anche fotoreporter: «4 o 5 le foto “costruite” in tutta la carriera, un peccato veniale» ammette lui stesso. E’ il risvolto di tenerezza di un fotografo che nei suoi reportage aveva ritratto in primo luogo cose assai poco frivole.

Come la sezione “Morire di classe”, uno sguardo senza reticenze sulla realtà di sofferenza degli istituti psichiatrici prima della riforma Basaglia. Oppure il lavoro, nella sezione dedicata al porto di Genova, alle sue storie e ai suoi protagonisti. Come i “camalli” (così si chiamano da sempre gli scaricatori delle navi in dialetto genovese) ritratti orgogliosamente in posa arrampicati su una gru ottocentesca, cimelio che fa bella mostra di sé nell’immagine guida della mostra e nell’area del Porto Antico, ai cui lavori di recupero nel 1988 Berengo Gardin ha dedicato un intero reportage che è solo un tassello del ritratto del capoluogo ligure. E allora ecco le navi ormeggiate, le architetture dei palazzi storici, le strade e i mestieri della città vecchia, le botteghe ormai scomparse o trasformate in monumenti tutelati.

Una documentazione fotografica a beneficio dei futuri archeologi del paesaggio urbano, come lo scatto che ritrae un gruppo di bambini che salta la corda in una piazzetta di Venezia, altra città d’elezione del fotografo ligure. «Oggi quella foto non potrebbe essere più fatta – spiega – perché ormai la piazza è tutta occupata dai tavolini dei bar e di bambini che giocano non ce ne sono più».

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Ma anche un patrimonio di storie che sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo italiano, capaci di misurare in un solo sguardo tutta la distanza consumata tra il tempo in cui furono “scritte” e l’oggi. “Dolcini ai poverini” e “Sampagne al popolo”, recitano in una foto degli anni Ottanta due scritte sulla serranda di un caffè storico frequentato dalla buona borghesia genovese.

Una maniera irriverente di declinare una questione delle redistribuzione della ricchezza che era ancora agenda politica e senso comune in un tempo in cui il futuro di questo paese e dell’intero Vecchio Continente appariva più sereno di quel mare agitato dal vento, sotto un cielo in cui si rincorrono nuvole cupe e squarci di sole, di uno scatto del 1993. Su una spiaggia della Normandia una coppia a bordo di un’auto decapottabile sembra aspettare, nella fragile protezione di quel guscio di lamiera scoperchiato, la tempesta che sta arrivando.

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