DALL’UGUAGLIANZA ORIGINARIA AI PRIMI CALCOLI MATEMATICI Un’idea primitiva di uguaglianza dovette certamente svilupparsi già nella preistoria, se è vero che il genere Homo – e in particolare la specie Homo sapiens, alla quale apparteniamo – si affermò per la sua capacità non solo di immaginare cose inesistenti, ma anche di condividere invenzioni e scoperte con gli altri individui del gruppo. Possiamo immaginarci gli uomini di ritorno da una spedizione di caccia portare alla caverna il risultato delle fatiche e dei pericoli affrontati, le donne forse tralasciare altre incombenze per cuocere la carne al fuoco da poco addomesticato, poi ciascuno ricevere la sua spettanza di cibo; nelle difficili condizioni ambientali in cui si trovavano a vivere, ci sembra evidente che un gruppo non poteva reggersi che sulla base di una sostanziale uguaglianza tra i suoi membri, uguaglianza che non impediva, e anzi coesisteva con una diversa distribuzione dei compiti. Ma la rappresentazione più suggestiva che ci è stata lasciata dai nostri antichi progenitori sono forse quei segni, nelle pitture rupestri, di quelle mani accostate e sovrapposte, sommatesi presumibilmente nel corso di innumerevoli generazioni, tutte diverse eppure tutte uguali. Questa uguaglianza, che al di là delle differenze concrete tra gli individui potremmo definire “qualitativa”, è quella stessa che l’essere umano, appena nato, cerca spontaneamente nel rapporto immediato con un suo simile. Quando poi, mutate le condizioni e le capacità sociali e tecniche degli umani, si passò dalla raccolta del cibo e dalla caccia alla produzione dei mezzi di sussistenza basata sulla pastorizia e sull’agricoltura, il concetto di uguaglianza dovette assumere, insieme a quello di misura, un significato più rigoroso. Divenne allora necessario contare gli armenti e misurare le estensioni di terreno da coltivare e i raccolti ottenuti. Insieme agli strumenti materiali dovettero svilupparsi anche quelli concettuali, e infatti Egiziani e Babilonesi sono comunemente ritenuti gli inventori delle prime tecniche di calcolo, tanto che pare già conoscessero modi per risolvere le equazioni di primo e di secondo grado. È stato infatti ritrovato su una tavoletta babilonese, risalente al II millennio a.e.v. (Ante Era Vulgaris), il calcolo del valore della radice quadrata di 2, cioè la misura della diagonale di un quadrato di lato 1, un numero irrazionale – ovvero non ottenibile dalla divisione tra due numeri interi – la cui scoperta parve successivamente ai pitagorici (nel VI sec a.e.v.) tanto sconvolgente da indurli a tenerla segreta. Per le necessità di una società già complessa e strutturata, il calcolo era anche utilizzato per osservare e prevedere il moto degli astri e, di lì, per misurare il tempo. Non a caso, risalgono a quell’epoca i primi calendari noti.
A ben riflettere, sia il contare che il misurare hanno un presupposto comune, che sta nell’uguaglianza, vuoi tra gli elementi da sottoporre a conteggio, vuoi delle repliche di un’unità di misura per ottenere la grandezza da misurare. Eppure l’esplicitazione grafica oggi a tutti nota, mediante la doppia barretta orizzontale (il segno =), non compare che relativamente tardi nella Storia, solo verso la metà del XVI secolo, come vedremo di qui a poco. Nell’antichità infatti non esisteva neppure una vera e propria scrittura matematica, e nonostante le molte conoscenze sviluppate, accumulate e trasmesse da una civiltà all’altra, per diversi millenni enunciati e dimostrazioni venivano espressi in un linguaggio descrittivo, vale a dire discorsivo-verbale. Per farci un’idea di ciò che questo potesse comportare, e per valutare l’enorme vantaggio di utilizzare una notazione compatta, consideriamo una semplice formula (si tratta dell’equazione che ha per soluzione la cosiddetta “sezione aurea”), un’equazione che oggi scriveremmo come segue:
x² = x + 1
Discorsivamente, essa doveva essere espressa in una forma che avrebbe avuto un aspetto simile alla seguente (e possiamo anche tentare di immaginarcela in greco, in latino, oppure in arabo):
«Un numero sconosciuto moltiplicato per se stesso è uguale allo stesso numero al quale viene aggiunta un’unità» [1]
UNO STRUMENTO PER CALCOLARE: L’ABACO Fin dalle più antiche società urbane, per sopperire alla evidente inadeguatezza del linguaggio comune – si parla infatti di “esposizione retorica” – erano stati introdotti appositi strumenti che facilitassero le operazioni di calcolo. L’abaco, secondo Erodoto (484-425 a.e.v.), era già conosciuto e utilizzato dagli antichi Egizi; era stato poi adottato dai Greci e si era quindi diffuso in tutta l’Europa, passando attraverso forme e principi di funzionamento differenti, ma rimanendo in uso fino agli albori del XVIII sec. In Estremo Oriente, i primi abachi cinesi, che utilizzavano come calcoli bastoncini di bambù, risalgono al VI secolo a.e.v. Nella sua forma più comune, un abaco era costituito da alcune guide parallele (fili, scanalature, ecc.) lungo le quali potevano essere disposte o spostate delle pietruzze (dette in latino “calculi”, nome dal quale è derivato il termine moderno per il far di conto) o altri oggetti mobili equivalenti, ognuno dei quali rappresentava un’unità. Maneggiando l’abaco in modo opportuno, era possibile eseguire le operazioni aritmetiche fondamentali (addizione e sottrazione, moltiplicazione e divisione), e un operatore esperto era in grado di ottenere il risultato con sorprendente rapidità. In particolare, nel tardo Medioevo comparve un abaco a linee orizzontali che rappresentavano successive potenze di 10. Già intorno all’anno 1000 il dotto Gerbert d’Aurillac – che prima di esser eletto papa col nome di Silvestro II aveva approfondito i suoi studi a Barcellona ed era in tal modo entrato in contatto con la cultura islamica – utilizzava un abaco basato su un rudimentale sistema posizionale.
L’INVENZIONE DELLA SCRITTURA MATEMATICA Il primo a fare qualche tentativo in direzione di una notazione matematica più semplice e funzionale fu il matematico ellenistico Diofanto di Alessandria (III-IV sec e.v., autore di un trattato, Arithmetica, in tredici volumi). Egli utilizzò alcuni simboli dell’alfabeto greco per rappresentare gli operatori aritmetici più comuni: ad esempio sostituendo l’espressione (sono eguali) con il simbolo ‘i’ (iota), oppure indicando l’incognita col simbolo ‘z’ (zeta) – l’incognita al quadrato era invece indicata col simbolo ‘dy’ (per ‘dynamis’, quadrato) – tuttavia di questa innovazione egli stesso non fece sempre un’applicazione sistematica e rigorosa, ed inoltre non si disponeva ancora, a quell’epoca, nell’intero Occidente, di una scrittura per i numeri che fosse indipendente dalle lettere dell’alfabeto. Un nuovo modo per rappresentare i numeri e per facilitare nel contempo l’esecuzione dei calcoli pare fosse stato introdotto dagli indiani, i quali avevano probabilmente combinato l’antichissima tradizione babilonese (che utilizzava una numerazione a base sessagesimale) con nuove tecniche di calcolo (a base decimale) introdotte dai contabili cinesi all’epoca della dinastia Han (206 a.e.v.-220 e.v.). I matematici indiani adattarono dapprima i segni usati in sanscrito per rappresentare i numeri da 1 a 9, associandoli a decine, centinaia, migliaia, ecc. (ma in ordine decrescente, come facciamo anche noi oggi nel parlare); in seguito, eliminarono l’indicazione esplicita per le decine, centinaia, migliaia ecc., e per agevolare i conti presero l’abitudine di incolonnare le cifre a seconda del loro valore, ponendo le unità all’estrema destra, le decine alla loro sinistra, e così via. In questo modo passarono, quasi inconsapevolmente, dalla rappresentazione “discorsiva” a quella “posizionale”, e si imbatterono nella necessità, per evitare di lasciare posizioni vuote (come p.es. nello scrivere il numero 105), di introdurre un nuovo simbolo a rappresentare l’assenza di un determinato valore posizionale: dapprima con un puntino e in seguito con un cerchietto [2] indicarono così quello che oggi – dall’arabo ‘sifr’ (nulla), passando per la traslitterazione latina “zephirum” – chiamiamo zero. [3] Qualche secolo più tardi, l’innovazione rivoluzionaria – l’introduzione, a partire dal nuovo segno, di un vero e proprio “nuovo numero” che potesse indicare non la presenza ma l’assenza di qualcosa – fu fatta propria dai matematici arabi e consentì loro di andare oltre l’aritmetica per approdare all’algebra. [4]
Le nuove tecniche di calcolo sviluppate e diffuse per secoli nell’ambito della cultura islamica furono portate in Europa dal matematico Leonardo da Pisa (o Pisano) detto il Fibonacci (1170-1240 circa), che le aveva apprese – insieme all’arabo – durante una serie di viaggi iniziati in Nord Africa al seguito del padre, un ricco mercante di Pisa, ma proseguiti poi anche in proprio, con il proposito di approfondire gli studi, giungendo fino a Costantinopoli. Nel 1202 pubblicò un trattato in quindici capitoli intitolato Liber abbaci – di cui ci è pervenuta solo la 2ª edizione, del 1228 – nel quale aggiunse alle notazioni e alle tecniche di calcolo apprese dagli indiani e dagli arabi alcune sue originali elaborazioni. Ancora legata al suo nome è la sequenza di numeri nota appunto come “successione di Fibonacci”:
1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89 …
In essa ciascun termine, a parte i primi due, è calcolato sommando i due che lo precedono. Come egli stesso dimostrò, una particolarità di questa successione è che il rapporto fra termini successivi aumenta progressivamente per poi tendere molto rapidamente a un numero irrazionale noto fin dall’antichità come “rapporto aureo” o “sezione aurea” [5]:
(1+√5)/2
ovvero, espresso in forma decimale approssimata: 1,61803…
Uno dei meriti del Pisano fu, congiuntamente all’introduzione del nuovo sistema di numerazione basato sulle cifre arabe (e, prima ancora, indiane) [6], quello di aver codificato le 4 operazioni aritmetiche fondamentali, quali tuttora in pratica le utilizziamo (le riportiamo qui con i simboli moderni) [7]:
+ addizione
– sottrazione
x moltiplicazione
/ divisione
Occorre tuttavia notare che la scrittura basata sulle cifre arabo-indiane fu osteggiata ancora per diverso tempo – per esempio nel 1280 un editto della città di Firenze ne proibì l’uso ai suoi banchieri – e che la barra per la divisione (introdotta, pare, proprio dal Pisano) dovette attendere fino al XVI secolo prima di venire accettata e utilizzata dalla maggioranza degli studiosi.
La fama di Fibonacci fu comunque tale da indurre l’imperatore Federico II a riceverlo a corte, e ad accordargli un vitalizio che gli permettesse di dedicarsi agli studi matematici per il resto della vita [cfr. Pietro Greco, La scienza e l’Europa. Dalle origini al XIII secolo, L’Asino d’oro, 2014, p. XXIV].
Nel XVI sec., il noto algebrista francese François Viète (1540-1603) utilizzava diffusamente i simboli “tedeschi” (+ e -) per l’addizione e per la sottrazione, e propose una prima convenzione per distinguere nelle equazioni i parametri noti dalle incognite (egli usava le consonanti per i primi e le vocali per le seconde, mentre al giorno d’oggi utilizziamo rispettivamente le prime lettere dell’alfabeto: a, b, c… e le ultime: x, y, z); indicava inoltre già la divisione mediante la linea di frazione (notazione, come detto sopra, introdotta da Fibonacci), e tuttavia per la moltiplicazione usava ancora il termine latino “in”, e per l’uguaglianza un’abbreviazione del termine latino “aequalis”. Analogamente, per le potenze di un’incognita A, Viète utilizzava ancora termini latini: “A quadratus” per la seconda potenza e “A cubus” per la terza potenza. Per questi motivi, la scrittura matematica in uso a quei tempi viene definita “sincopata” (ovvero abbreviata), piuttosto che “simbolica”.
Nello stesso periodo, l’astronomo italiano Giovanni Antonio Magini (1555-1617), amico di Johannes Kepler, adotta la virgola per separare la parte intera da quella decimale di un numero frazionario (per lo stesso scopo, Viète usava una barra verticale).
La prima equazione conosciuta, nella quale viene usato il simbolo = (uguale) come lo utilizziamo al giorno d’oggi, risale al 1557, ed è opera dell’astronomo e matematico gallese Robert Recorde, che la utilizzò nello scrivere l’equazione:
14x + 15 = 71
Secondo quanto affermato da lui medesimo: «… per evitare la noiosa ripetizione di queste parole: “è uguale a”, userò un paio di linee parallele della stessa lunghezza, perché non ci sono due cose uguali tra loro più di due rette parallele».
L’adozione di una scrittura matematica semplice e condivisa da tutti dovette però superare notevoli resistenze, in un periodo in cui gli studiosi si sentivano in forte concorrenza l’uno con l’altro e tendevano a tenere nascoste a lungo le loro scoperte. Ad esempio, il matematico italiano Niccolò Fontana (1499-1557), detto Tartaglia per una sua difficoltà nell’articolare le parole, causata da una grave ferita subita quand’era ragazzo, presenta la soluzione di un’equazione di terzo grado in forma metaforica, esponendola sotto forma di componimento poetico. [8]
ACCEZIONI DIVERSE DELL’UGUALE Nonostante, come abbiamo visto, la sua gestazione storica sia stata tanto laboriosa, il segno = (uguale) è oggi ampiamente diffuso e inteso da tutti, tanto da venir utilizzato non di rado come abbreviazione del termine “uguale” nella scrittura dei messaggi elettronici (sms, chat, email e quant’altro). Ma qual è esattamente il suo significato? A nostro avviso, l’apparente semplicità del segno cela in verità una molteplicità di utilizzi diversi. Ne illustriamo alcuni che riteniamo significativi:
A = AIn questo caso, che viene comunemente detto “identità”, l’uguaglianza esprime un pensiero banale, che in un certo senso potremmo anche dire fuorviante o errato, secondo il quale qualsiasi oggetto sarebbe “uguale” a se stesso; errato in primo luogo nel senso che – ci si passi l’ossimoro – è chiaro che solo oggetti “diversi”, cioè “distinti”, possono essere “uguali”; in secondo luogo perché può veicolare l’idea (ed è accaduto nella storia) che qualsiasi cosa rappresenti A, essa non possa cambiare, dovendo sempre essere uguale a se stessa.
(A + B)² = A² + 2AB + B² Anche questa è considerata un’identità, nel senso che l’uguaglianza è valida qualsiasi valore assumano A e B, e tuttavia lo “sviluppo del quadrato di un binomio” ci dice qualcosa di diverso: il segno di uguale sta a indicare la possibilità di sostituire l’espressione che lo precede con quella che lo segue, o viceversa, perché le due sono equivalenti; si tratta quindi di un’indicazione essenzialmente operativa.
A² + B² = C² Si può esprimere in questo modo, in forma aritmetica, il “teorema di Pitagora” (attribuito a Pitagora sebbene fosse già noto ai babilonesi, nell’antica Cina e in India), laddove si indichino con A e B i due cateti di un triangolo rettangolo e con C la sua ipotenusa; si può anche intendere come equazione che lega i tre numeri A B e C, in quanto l’uguaglianza non è sempre valida, ma lo è per terne di valori particolari; con la restrizione che i tre numeri siano interi e positivi (detti anche “numeri naturali”), si ottiene la definizione di “terna pitagorica”; ad esempio, 3, 4, 5 costituiscono una terna pitagorica in quanto 3² + 4² = 5².
Ax² + Bx + C = 0
È la forma generale di un’equazione di 2° grado (in una sola variabile x), in cui A B e C rappresentano costanti note, mentre x è un’incognita; l’uguaglianza non si può ritenere vera in generale (tranne che in casi banali, come quello in cui le tre costanti valgano 0), ma può esserlo per valori particolari di x che vengono detti soluzioni (oppure radici) dell’equazione; in questo caso è possibile scoprire se esistono soluzioni e quali siano.
π = 3,14159…
È l’assegnazione di un valore numerico (in questo caso, approssimato) a una costante (quella qui presentata è pi greco, ovvero il rapporto tra la lunghezza del cerchio e quella del diametro corrispondente); l’uguaglianza non è esatta (si dice che è approssimata), ma è comunque sufficiente all’esecuzione della maggior parte dei calcoli pratici.
F = ma
Questa è l’espressione della nota 2ª legge della dinamica di Newton: la forza che agisce su un corpo determina l’accelerazione con un fattore di proporzionalità costante che è la massa; essa può essere intesa in due modi differenti: sia come, appunto, legge che determina il movimento dei corpi (dinamica) nello spazio, e permette quindi di calcolarne l’evoluzione nel tempo, sia come definizione (dinamica) del concetto di forza.
E = mc²
La nota formula di Einstein stabilisce la relazione tra l’energia totale di un corpo e la sua massa relativistica: la costante c² è la velocità della luce (nel vuoto) al quadrato, mentre la massa in questo caso non è più un parametro costante, ma dipende dalla velocità del corpo (aumenta con l’aumentare della velocità); anche questa formula può essere intesa in modo duplice: da una parte, intendendola sincronicamente, cioè allo stesso tempo, come definizione di massa relativistica; dall’altra, potremmo dire diacronicamente, come possibilità di trasformare massa in energia e viceversa; che è quanto accade spontaneamente nella fissione nucleare di elementi radioattivi e quanto può essere realizzato artificialmente nelle reazioni nucleari.
if a = 2 then…
In molti linguaggi di programmazione, lo stesso segno può essere usato sia come operatore di assegnazione di un valore ad una variabile, sia come operatore logico di confronto (in questo caso, può assumere due soli valori: vero e falso), e in questa seconda accezione, congiuntamente all’istruzione if (se) permette di eseguire istruzioni condizionali, ovvero solo nel caso in cui (then = allora) si verifichino determinate condizioni; la stessa valenza di operatore logico è utilizzata anche nella logica formale.
MISURE, ERRORI, APPROSSIMAZIONI A parte le differenti accezioni del segno uguale, occorre anche aggiungere che l’uguaglianza (ci riferiamo adesso in particolare a quella “quantitativa”) può essere veramente esatta solo finché ci si mantiene nell’ambito strettamente matematico. Quando invece ci si dedica allo studio del mondo naturale, non si può prescindere dal prendere in considerazione i fatti sperimentali, e nella maggior parte dei casi questi implicano e comprendono operazioni di misura.
Essenzialmente, misurare vuol dire associare a una grandezza fisica un valore numerico ottenuto mediante il confronto tra la grandezza in questione e una unità di misura, che deve essere dello stesso tipo, utilizzando i sensi fisici (di norma si ricorre soprattutto alla vista, ritenuta il meno soggettivo e il più preciso dei sensi umani), e in genere con l’ausilio di qualche strumento più o meno sofisticato.
Per una serie di motivi, questo procedimento non può mai dare come risultato un valore preciso, ma risulta inevitabilmente affetto da una certa indeterminazione, per cui si parlerà piuttosto di un intervallo di valori, e si dirà che la misura è più o meno buona a seconda che tale intervallo sia più o meno ridotto.
I fattori in grado di alterare – anche in condizioni normali [9] – il risultato di una misura possono appartenere ai tipi seguenti:
Errori sistematici: sono quegli errori che influenzano la misura sempre nello stesso modo, dovuti a condizioni che si discostano inevitabilmente da quelle ideali; per esempio: voglio misurare la velocità della luce nel vuoto, però non dispongo di un ambiente in cui posso creare e mantenere il vuoto assoluto, comunque posso avvicinarmi a quelle condizioni realizzando un vuoto molto spinto. Questo tipo di errori può, in linea di principio, essere studiato e valutato, ed eventualmente condurre ad una correzione del risultato finale della misura.
Errori casuali (o statistici): anche ripetendo la misura un certo numero di volte nelle medesime condizioni (purché utilizzi uno strumento abbastanza sensibile) tendo ad ottenere risultati leggermente diversi, a causa di una moltitudine di disturbi minimi che sfuggono al controllo dello sperimentatore (piccole variazioni di temperatura, vibrazioni, rumore ambientale ecc.). Questo tipo di errori è irriducibile, ma mostra una distribuzione statistica caratteristica, detta “a campana” [10], che consente comunque di individuare un valore medio e una dispersione attorno a tale valore. È allora l’abilità dello sperimentatore [11] che gli consente di porsi nelle condizioni ottimali per ridurre al minimo l’incertezza della misura, ma a causa della irriducibile presenza degli “errori sperimentali”, il risultato di una misura fisica sarà sempre e comunque un risultato “approssimato”. Occorre anche dire che in pratica il grado di approssimazione può essere incredibilmente buono; riportiamo a titolo di esempio i valori stabiliti per la velocità della luce nel vuoto, per la carica elettrica dell’elettrone e per la costante di Planck (che determina le “dimensioni” dei quanti di energia):
c = 299 792,458 km/s
e = -1,602 176 53(14) x 10e-19 C
h = 6,626 269 57(29) x 10e-34 J·s
GRADI DIVERSI DELL’UGUALE Anche senza voler considerare errori e approssimazioni dovute ai procedimenti di misura, ben di rado l’uguaglianza può considerarsi assoluta. Affermare che due o più oggetti sono uguali – ma potremmo anche pensare a due o più persone – significa dire che ciò che li differenzia e li rende individualmente riconoscibili è irrilevante. Occorre tuttavia considerare che l’irrilevanza dipende dal contesto, ovvero dall’ambito in cui li si considera.
– Particelle identiche Nel caso di oggetti che siano effettivamente indistinguibili, si può usare il termine “identico”, ed in effetti esso viene usato dai fisici per evidenziare che a livello subatomico le particelle dello stesso tipo non sono riconoscibili l’una dall’altra, semplicemente perché non è possibile “segnarle” o “marcarle” per poterne seguire le traiettorie individuali. Questa circostanza ha conseguenze tutt’altro che irrilevanti, in quanto si viene a scoprire che sotto questo aspetto le particelle elementari possono appartenere soltanto a due tipi: alcune possono essere scambiate tra di loro lasciando perfettamente inalterato lo stato del sistema al quale appartengono (queste vengono dette bosoni), altre invece, se scambiate, producono un cambiamento di segno dello stato del sistema (e queste vengono dette fermioni) [12]. Una delle conseguenze è che le particelle del primo tipo possono trovarsi contemporaneamente nello stesso stato quantico: è il caso del laser, in cui moltissimi fotoni identici vengono “condensati” e viaggiano insieme in un unico “pacchetto”; mentre invece quelle del secondo tipo non possono: per esempio gli elettroni di un atomo devono andare ad occupare orbite diverse, il che causa le diverse proprietà chimiche degli elementi.
– Figure simili Nel caso invece in cui si intende valorizzare, al di là degli aspetti in comune, le differenze, viene usato di preferenza il concetto di “simile”: tali infatti vengono definite due figure geometriche (per esempio due triangoli) se possiedono la stessa forma (stesse proporzioni tra le parti, stessi angoli) ma diverse dimensioni, orientazioni o posizioni. Per “similitudine” si intende anche una figura retorica, analoga alla metafora ma in genere più esplicita di questa, in cui si comparano due oggetti, azioni, fenomeni, sensazioni, pensieri ecc. allo scopo di evidenziarne i tratti comuni; “simili” vengono detti inoltre, per estensione, tutti gli esseri umani, al di là delle differenze fisiche o culturali.
L’UGUALE E I SUOI OPPOSTI Come abbiamo rilevato fin dall’apertura, parlando della preistoria e del rapporto interumano, il concetto di “uguale” si trova inevitabilmente a dover coesistere con il suo opposto, quello che potremmo dire il “diverso”. In effetti, l’uguaglianza tra persone o cose è una proprietà che trae il suo significato proprio dall’eventualità che quell’uguaglianza possa non sussistere: gli “uguali” si contrappongono sempre ai “diversi”. E d’altra parte, persino tra “uguali” finiscono per crearsi delle “differenze”: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri», è la celebre citazione da George Orwell, La fattoria degli animali (Animal Farm, 1947). Analoga considerazione si può fare anche nell’ambito della più rigorosa formulazione scientifica. Ma notiamo anzitutto che – per lo meno nella lingua italiana – gli opposti di “uguale” sono più d’uno (ne riportiamo tra virgolette alcune definizioni ricavate da un dizionario):
Disuguale: «Che non presenta identità con altra persona o cosa» Il suffisso dis-, utilizzato per rovesciare il significato del termine uguale, evidenzia l’aspettativa di una uguaglianza come valore positivo, aspettativa che viene disattesa, e contribuisce quindi a dare al termine una valenza negativa, come del resto avviene anche nel sostantivo derivato disuguaglianza, spesso associato al concetto di discriminazione: disuguaglianza economica, disuguaglianza sociale.
Differente: «Che in tutto o in parte si distingue da un altro termine con cui viene implicitamente o esplicitamente raffrontato» Che il sostantivo corrispondente, differenza, venga utilizzato per indicare una operazione matematica (il risultato di una sottrazione) sembra dare al termine un’accezione prevalentemente quantitativa.
Diverso: «Che si presenta con un’identità, una natura nettamente distinta rispetto ad altre persone o cose; insolito, terribile; con riferimento a persona: che si discosta dalla media» Il riferimento ai concetti di identità e di natura sembra conferire al termine un’accezione prevalentemente qualitativa, anche se – come risulta evidente – non sempre positiva. Possiamo rilevare come nella prima definizione di “disuguale” e in quella finale di “diverso”, il termine “identità” venga adoperato in due accezioni completamente diverse e quasi verrebbe da dire opposte: nella prima significa identità come possibilità di coincidere in tutti gli aspetti (come nel caso di figure geometriche che possono essere sovrapposte e vengono a coincidere in tutti i loro punti); nell’altra, invece, “identità” denota la qualità di chi è in grado di distinguersi da ogni altro suo “simile”.
L’UGUALE NELLA STORIA A partire da una concezione intuitiva dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani, concezione che ciascuno di noi ha alla nascita, ma che poi in molti casi si finisce per smarrire, il pensiero filosofico ha cercato di darne una definizione rigorosa, che potesse costituire la base sulla quale affermare e garantire diritti sociali e politici comuni a tutti gli individui:
«L’aggettivo “uguale” (o eguale), nel linguaggio filosofico e politico prima che in quello giuridico, sta a indicare che due entità distinte fra loro presentano caratteristiche coincidenti per un aspetto. L’uguaglianza si distingue pertanto dalla identità, che postula la totale e assoluta coincidenza, in ogni aspetto, fra due distinte entità. Cruciale, nel discorso sull’uguaglianza, è sempre stato definire fra chi essa operi e per quale aspetto». [M. Olivetti, “Uguaglianza”, in Dizionario dei diritti umani, UTET, 2007]
[u]L’uguaglianza nel mondo antico[/u] – Particolare rilievo assume l’idea di uguaglianza nel mondo delle città-stato dell’antica Grecia, ritenute, in contrapposizione con le civiltà precedenti, rette da dinastie di faraoni e re, la culla della moderna democrazia. La loro uguaglianza tuttavia era fondata sul logos, e dava quindi origine non a un diritto universale, ma a un privilegio di cui godevano soltanto alcuni, in contrapposizione ad altri che ne erano invece esclusi: «L’uguaglianza è una fra le idee generali che percorrono tutta la storia del pensiero occidentale… Le radici ultime di essa vengono per lo più rintracciate nella “isonomia” dei greci, in quanto uguaglianza fra i soli membri di una comunità politica – i cittadini – con esclusione degli altri (stranieri, meteci, schiavi, donne ecc.). La storia dell’uguaglianza è dunque anche la storia dell’esclusione di taluni soggetti dalla qualifica di uguali». [M. Olivetti, cit.] È forse il caso di ricordare che in quelle società, fortemente patriarcali, la disuguaglianza della donna era ritenuta incolmabile, mentre era invece ritenuta temporanea quella del fanciullo (maschio), la cui “promozione” allo status di uomo adulto (e quindi, come diremmo oggi, di “cittadino”) richiedeva il passaggio attraverso un’esperienza pedagogica che includeva necessariamente il rapporto (non solo psichico, ma anche fisico, vale a dire omosessuale) con un precettore: «Le relazioni sessuali tra adulti maschi ed adolescenti avvenivano all’interno di un’esperienza pedagogica attraverso la quale l’adulto trasmetteva al fanciullo le virtù del cittadino». [Mariopaolo Dario, Unioni incivili: la Chiesa cattolica e la cultura della pedofilia, in [url”Cronache laiche”]http://cronachelaiche.globalist.it/[/url]]
[i]L’uguaglianza nel monoteismo[/i] – Con il diffondersi delle religioni monoteiste, e soprattutto con il riconoscimento di quella cristiana da parte dell’impero romano (ad opera dell’imperatore Costantino I, all’inizio del IV sec.), si passa dall’uguaglianza tra i membri di una comunità sociale e politica, fondata sulla condivisione della ragione e sulla padronanza del medesimo linguaggio, a quella tra fratelli in una stessa fede: «È corrente l’affermazione per cui si deve – quasi contemporaneamente – al pensiero stoico e al cristianesimo l’affermazione dell’uguaglianza fra tutti gli esseri umani: nel primo in virtù della pari razionalità di tutti i membri del genere umano, nel secondo in ragione della loro natura di imago Dei, di prodotto massimo della creazione (il cristianesimo riprende peraltro spunti già rintracciabili nell’antico Testamento: per esempio Levitico, 24,22). In entrambi i casi la nozione di uguaglianza presuppone la dignità, e la uguale dignità, di ogni persona». [M. Olivetti, cit.] A dire il vero, a noi pare piuttosto difficile sostenere la compatibilità “dell’uguaglianza fra tutti gli esseri umani” e della “uguale dignità, di ogni persona” con l’esistenza di una casta sacerdotale fortemente gerarchizzata e l’accesso alla quale è rimasto riservato per secoli pervicacemente ai maschi. Come se non fosse già evidente, la conferma proviene direttamente dalle parole del suo capo, il gesuita papa Francesco: «Un bambino battezzato non è lo stesso che un bambino non battezzato». [13]
[i]L’uguaglianza nel mondo moderno[/i] – Quando, con l’avvento dell’Illuminismo, in Europa s’indebolisce l’egemonia della dottrina cattolica, comincia a farsi strada una concezione diversa di uguaglianza, più universale nel senso che accomuna – almeno idealmente – tutti i popoli della terra e tutti gli esseri umani senza distinzione: «… la centralità dell’uguaglianza come principio regolatore dell’organizzazione e delle funzioni dello stato contemporaneo si deve soprattutto all’eredità della rivoluzione francese, che nella triade liberté, égalité, fraternité ha consacrato il principio in esame fra i valori fondanti dell’organizzazione politica (Illuminismo)». [M. Olivetti, cit.] In effetti, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, emanata il 26 agosto del 1789, ovvero in pieno periodo rivoluzionario, dopo un preambolo che ne espone contesto, propositi e necessità, elenca in 17 articoli una serie di “diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo”. [14] Il primo dei 17 articoli recita: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune». L’affermazione e l’applicazione in concreto del principio secondo il quale uguali diritti debbono essere garantiti a tutti gli esseri umani hanno però richiesto diversi secoli – e non pare siano ancora né complete né tantomeno consolidate. La schiavitù, per esempio, fu abolita negli Stati Uniti d’America soltanto nel 1865 (a livello federale, malgrado singoli stati avessero iniziato a farlo già a partire dal 1777), e in Brasile avvenne lo stesso solamente nel 1888. Ancora al giorno d’oggi si stima che vi siano nel mondo diverse decine di milioni di esseri umani ridotti in varie forme di schiavitù [15]. Globalizzazione dei mercati e crisi economica giustificano lo sfruttamento e il continuo deterioramento delle condizioni di vita di enormi masse di lavoratori – anche in paesi caratterizzati da economie avanzate – e la terrificante frequenza dei cosiddetti “femminicidi”, documentata quasi quotidianamente dai media, testimonia l’incapacità da parte della cultura dominante di diffondere e sostenere, nonostante le molte campagne di informazione e le dichiarazioni di intenti, l’uguaglianza e la pari dignità di tutti gli esseri umani. Dopo la fine della 2ª Guerra Mondiale, il 24 ottobre del 1945, venne fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), una organizzazione intergovernativa a carattere internazionale, con lo scopo di “mantenere la pace e la sicurezza internazionale” e di “promuovere la soluzione delle controversie internazionali e risolvere pacificamente le situazioni che potrebbero portare ad una rottura della pace” (sono i primi due punti del suo statuto). La Dichiarazione universale dei diritti umani, un documento sui diritti individuali da essa promosso ed approvato perché avesse applicazione in tutti gli stati membri, venne firmato a Parigi il 10 dicembre del 1948. Essa recepisce ed estende, esponendoli in un preambolo e 30 articoli, quei diritti individuali già sanciti dalla Dichiarazione dei Diritti del 1789, articolandoli in diritti civili e politici, economici, sociali e culturali. [16] Per quanto riguarda l’uguaglianza, riportiamo qui l’art. 1, che fa proprie le tre parole d’ordine della rivoluzione francese: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Nella sua formulazione è chiara la derivazione dai principi dell’illuminismo: tutti gli esseri umani godrebbero di uguali diritti in quanto “dotati di ragione e di coscienza”, e il passo avanti fatto in più di duemila anni risulta, a voler essere generosi, soltanto un mezzo passo: il neonato e il bambino prima dell’età della ragione non sono dunque esseri umani uguali agli altri, e non godono degli stessi diritti? Non sarà un caso che, anche nei Paesi che hanno per primi aderito e sostenuto la Dichiarazione Universale, non si riesca a sradicare la sconcertante piaga della pedofilia? [Cfr. Federico Tulli, Chiesa e pedofilia, il caso italiano, L’Asino d’oro edizioni, 2014]
L’UGUALE NELLA REALTÀ UMANA Oggi, però, esiste la possibilità di andare alla ricerca di un approccio diverso, più rigorosamente scientifico, che partendo dallo studio della realtà umana, permetta di dare all’uguaglianza e ai diritti umani basi veramente universali. Alla teoria della nascita di Massimo Fagioli (Istinto di morte e conoscenza, L’Asino d’oro edizioni, 1972, 2010) abbiamo già fatto riferimento in uno scritto precedente su [url”Babylon Post“]http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=111042&typeb=0&Il-vuoto-il-nulla-teorico-e-poi-quel-silenzio-della-nascita-umana[/url] (Il vuoto, il nulla teorico e poi quel silenzio della nascita umana); le implicazioni di questa teoria per la comprensione e la concettualizzazione dei rapporti sociali risultano evidenti dalle parole stesse dell’autore: «Innanzitutto dico la grande parola uguaglianza, che non significa uguaglianza nei vestiti, ma è un termine che va elaborato perché gli esseri umani adulti vanno considerati, nei rapporti sociali differenti l’uno dall’altro, perché l’individuo gode del concetto di libertà. Ma la verità più profonda è che gli esseri umani sono tutti uguali perché nella creazione della vita, che la realtà biologica sviluppa nel rapporto con la luce, si creano la vitalità e la pulsione che fuse insieme fanno la fantasia di sparizione». [Massimo Fagioli, in: Elisabetta Amalfitano, Le gambe della sinistra, L’Asino d’oro Edizioni, 2014] È dunque la dinamica della nascita, dinamica necessariamente comune a tutti gli esseri umani, che stabilisce l’uguaglianza tra di essi, “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” [così recita l’art. 2 della Dichiarazione Universale cit.]. Volendo essere schematici, possiamo rappresentarci la dinamica della nascita nella forma seguente (cfr. Left 2011, art. del 24.6.2011, L’Asino d’oro edizioni, 2014):
energia + materia = pensiero
In questa espressione, ovviamente non possiamo attribuire al segno uguale (=) una valenza quantitativa, non essendo il pensiero – il continuo movimento della mente – di per sé misurabile, ma dobbiamo considerare ciò che sta alla destra dell’uguale come il risultato di una dinamica, qualcosa che si aggiunge a ciò che sta a sinistra e che aggiungendovisi lo trasforma: l’effetto della fantasia di sparizione è infatti quello di far sparire la realtà puramente biologica del feto, e di far comparire al suo posto – creare, potremmo dire – la realtà umana del neonato. Durante i primi mesi di vita, mentre con l’allattamento si fortifica e cresce la realtà del corpo, il bambino arricchisce e sviluppa, nel rapporto affettivo con l’adulto – in genere, ma non necessariamente, la madre – anche quella sua identità iniziale della nascita, fino a poter raggiungere, con lo svezzamento, una autonomia sia fisica sia mentale: potrà infatti fare a meno dell’altro tanto per soddisfare i propri bisogni fisici quanto per esplorare il mondo e mettere alla prova le proprie capacità. In questo progredire verso la realtà dell’adulto, lo stesso Fagioli evidenzia alcune tappe fondamentali. Fin dal periodo dell’allattamento, man mano che la visione inizialmente nebulosa acquista maggiore definizione, il volto dell’altro – l’essere umano che lo accudisce – viene ad assumere un particolare significato. Ricordando che il volto è una caratteristica esclusivamente umana, potremmo affermare che esso viene a rappresentare la realtà interna (pensiero, immagini e affetti) del bambino, e al tempo stesso assume una valenza per così dire universale, perché il bambino “sa” che l’altro col quale è in rapporto è come lui, che ha la stessa realtà interna (è la base di quel che viene detto “empatia”). Poi giungerà il momento in cui, scorgendosi per la prima volta allo specchio, il bambino si riconoscerà, riconoscerà cioè il proprio volto, corpo e movimento come distinti da quelli altrui, e tuttavia questo riconoscere se stesso fra gli altri non metterà ancora in crisi quella prima naturale convinzione di una sostanziale uguaglianza tra tutti i suoi simili. Sarà solo dopo lo svezzamento, raggiunta ormai la certezza della propria autonomia e della propria identità sia fisica che mentale, e dopo aver dimenticato per sempre quel mondo di sensazioni emozioni immagini in cui si erano svolti i primi mesi di vita, che al vedere un essere umano fisicamente diverso (la bambina per il bambino, il bambino per la bambina) quell’originaria idea di uguaglianza entrerà in crisi. La diversità evidente nel corpo dell’altro rievocherà una corrispondente diversità nella mente, e l’altro diverso da sé andrà a rappresentare quel primo anno di vita altrimenti irrimediabilmente perduto alla coscienza. Per recuperarlo sarà allora necessario, quando la maturazione del corpo lo consentirà, ovvero alla pubertà, abbandonare quel tanto di narcisismo raggiunto allo svezzamento e lasciar riemergere il desiderio, per ricercare e sviluppare la propria specifica identità sessuale nel rapporto fisico e psichico con l’altro diverso da sé, e tanto più si riuscirà a realizzarla quanto più si permetterà all’altro di realizzare liberamente la propria. È in quest’ultimo passo che falliscono – e non possono che fallire – le concezioni dell’uguaglianza basate sul pensiero razionale o sulla credenza religiosa. Nessuna delle due infatti può conciliare l’uguaglianza di tutti gli esseri umani con le differenze, in particolare con quella tra uomo e donna, quindi entrambe inevitabilmente finiscono per considerare uno dei due (ovviamente la donna, e con essa il bambino) un essere inferiore. E poiché entrambe – ragione e religione – ritengono la scissione dell’essere umano (tra mente e corpo, tra spirito e materia, ma anche tra veglia e sonno) originaria e ineliminabile, la realizzazione dell’identità umana passa di necessità attraverso l’annullamento o la demonizzazione dell’irrazionale; il desiderio non può che portare morte e distruzione, e il diverso va quindi controllato e tenuto a bada, non importa se con la dottrina, con la prevaricazione o con la violenza fisica.
Possiamo concludere quindi che allo stato attuale la Teoria della nascita è l’unica che consente di conciliare il principio universale dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani con quello dell’assoluta libertà individuale, libertà che è la necessaria premessa perché ogni singolo individuo possa realizzare la propria identità: umana, professionale, sociale e sessuale. «… rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» [dalla Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 3]. La libertà intesa in questo senso non è quella di sopraffare o prevaricare l’altro, non termina – così come sostenevano gli illuministi – là dove comincia la libertà dell’altro, essa implica al contrario la necessità del rapporto e del confronto con l’altro, uguale ma diverso da sé, perché il suo fine è la realizzazione dell’identità umana.
Edoardo B. Drummond
___
NOTE
[b][1][/b] Per l’evoluzione storica delle notazioni matematiche, cfr. [url”Wikipedia”]http://it.wikipedia.org/wiki/Panoramica_storica_delle_notazioni_matematiche[/url]Per approfondire la storia dell’algebra, cfr. p.es. [url”Didasfera”]http://didasfera.it/kids/?unita=3350<[/url]
[b][2][/b] La prima testimonianza dello zero “posizionale”, perlomeno nel contesto culturale del continente euro-asiatico, pare sia stata trovata in una iscrizione incisa su una lapide ad Angkor, antica capitale del regno Khmer, e datata 683 e.v. Cfr. Laura Anello, Una lapide a Angkor dimostra che lo zero è nato in Oriente, La Stampa 25.11.14. Indipendentemente, lo zero era già stato introdotto nel “conto lungo” dei Maya, che risalirebbe alla fine del I sec. a.e.v. Cfr. Antonio Aimi, Maya batte Khmer zero a zero, La Stampa 17.12.14.
[b][3][/b] Dall’arabo ‘sifr’ proviene anche il termine odierno “cifra”, nella doppia accezione dei caratteri speciali utilizzati per rappresentare i numeri, e di “codice” (p.es. nell’espressione “messaggio cifrato”); per le origini della “numerazione posizionale” e per l’introduzione dello “zero” cfr. p.es. il sito dell'[url”UniMilano”]http://crema.di.unimi.it/~citrini/Tesi/r9/home.html[/url]
[b][4][/b] Il termine “algebra” che noi oggi utilizziamo risale all’abbreviazione di un’opera del matematico persiano Muhammad ibn Musa al-Kwarizmi (780 circa – 850 circa) intitolata: Al-Kitab al-mukhtasar fi hisab al-jabr wa’l-muqabala (Compendio sul Calcolo per Completamento e Bilanciamento), dove “completamento” e “bilanciamento” stanno a indicare i metodi di risoluzione delle equazioni spostando i termini da un lato all’altro del segno uguale. Al nome dell’autore al-Kwarizmi dobbiamo peraltro anche il termine “algoritmo”.
[b][5][/b] La “sezione aurea” era detta anche “costante di Fidia” per il suo frequente utilizzo nell’ambito delle arti figurative; il procedimento di costruzione del rettangolo aureo mediante riga e compasso venne dimostrato dal matematico greco Euclide (367-283 a.e.v.) nella proposizione 2.11 degli Elementi, un trattato di geometria in 13 libri.
[b][6][/b] L’uso delle cifre arabe non era in realtà del tutto ignoto in Occidente: già il monaco Gerbert d’Aurillac (poi papa dal 999 al 1003 col nome di Silvestro II) ne aveva proposto l’utilizzo in alcuni conventi nei quali si scrivevano opere di carattere scientifico, ma il metodo era rimasto del tutto sconosciuto nel mondo esterno; un esempio più tardo, già all’epoca di Fibonacci, si trova nelle scritture notarili di Notar Raniero, perugino.
[b][7][/b] In realtà, i segni + e – per addizione e sottrazione, introdotti in Germania nel XV secolo, vennero adottati in Francia nel 1550, e portati in Italia dal gesuita tedesco Christophorus Clavius (1538-1612), studioso di matematica e astronomia, che nel 1560 si trasferì a Roma, dove venne nominato Primo Matematico nella Commissione pontificia per la riforma del calendario.
[b][8][/b] Precisamente in terzine di endecasillabi; cfr. [url”Wiki”]http://it.wikipedia.org/wiki/Panoramica_storica_delle_notazioni_matematiche[/url]
[b][9][/b] Escludiamo qui naturalmente errori grossolani dovuti a malfunzionamenti delle apparecchiature che non vengano rilevati oppure ad errori umani (o persino a comportamenti fraudolenti) che possono sempre aver luogo, ma che la comunità scientifica è in grado di individuare e correggere al suo interno.
[b][10][/b] Detta anche distribuzione “gaussiana” dal nome del matematico tedesco Carl Friedrich Gauss (1777-1855) che ne studiò le proprietà intorno al 1820.
[b][11][/b] Dipende anche, com’è ovvio, dalla disponibilità dei mezzi di cui lo sperimentatore può disporre, sia sotto l’aspetto dello sviluppo tecnologico, sia sotto l’aspetto economico: molte discipline scientifiche richiedono ormai apparecchiature estremamente complesse e costose.
[b][12][/b] Le due dizioni fanno riferimento alle statistiche – il modo in cui si distribuiscono statisticamente molecole o particelle sui vari stati di energia disponibili – elaborate rispettivamente dal fisico indiano Satyendra Nath Bose (1894-1974) insieme ad Albert Einstein (1879-1955) per la statistica di Bose-Einstein, e da Enrico Fermi (1901-1954) e Paul Dirac (1902-1984) per la statistica di Fermi-Dirac.
[b][13][/b] [url”Tempi”]http://www.tempi.it/papa-francesco-un-bambino-battezzato-non-e-lo-stesso-che-un-bambino-non-battezzato#.UuAMrWsuJdA[/url], Un bambino battezzato non è lo stesso che un bambino non battezzato, 8 gennaio 2014
[b][14][/b] Il testo venne redatto da una speciale Commissione di cinque membri designata dall’Assemblea nazionale costituente, con il compito di stilare una Dichiarazione da inserire nella futura costituzione, nell’ottica del passaggio dalla monarchia assoluta dell’Ancien régime ad una monarchia costituzionale. Tale Dichiarazione ha ispirato in seguito numerose carte costituzionali e gran parte del suo contenuto è poi confluito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Per il testo integrale, cfr. p.es. il sito [url”UniTorino”]http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia1789.htm[/url]
[b][15][/b] Sarebbero 35 milioni e 800mila secondo The Global Slavery Index, cit. in Left n.47/2014, del 6.12.2014.
[b][16][/b] Per il testo completo della Dichiarazione Universale del 1948, cfr. il sito dell'[url”Onu”]http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Pages/Language.aspx?LangID=itn[/url]