25 novembre. Appena fuori Porta del Popolo, sulla Via Flaminia c’è lo splendido (e sconosciuto ai più) Museo Andersen. Al primo piano, grande appartamento in cui abitava Hendrik Andersen, scultore norvegese della prima metà del novecento (niente a che fare con Hans Christian, quello delle favole), il quale, una volta scoperta Roma, come succedeva a molti scandinavi, ci aveva messo su casa e non se n’era più andato.
Al terreno due enormi studi, uno per lavorare, l’altro per esporre le opere: gessi e bronzi monumentali, con marcata preferenza per nerboruti maschioni, turgide poppe, vittorie e cavalli impennati, che l’artista non volle mai esporre ufficialmente, né, ricco, si curò di vedere.
Questo è il luogo. Come si può dedurre dalle foto, notevolissimo. Il fatto, invece trascurabilissimo, che ci ha portato lì è stato “Souffle”, un’imbarazzante manifestazione organizzata dall’Institut francais Italia per onorare lo scultore.
Sulla prevedibile ripetizione degli arpeggi riverberati di una chitarra elettrica, la coreografa Elsa Decaudin, per una ventina di minuti e fra la costernazione del pubblico, è andata in giro per lo studio muovendo in su e in giù le braccia e la testa ne più ne meno di come tante volte abbiamo visto fare a un pollo nei cartoni animati. Tutto qui.
La motivazione della danza era ridare, con il suo movimento, il soffio vitale alle opere. Teniamo viva la pietosa speranza che l’artista non si sia resa conto di quello che faceva, altrimenti c’era da chiamare la neuro.
Ma, come abbiamo detto altre volte, la benedizione e anche la maledizione di Roma è che qualunque schifezza venga presentata in uno dei tanti magnifici luoghi della città, come schifezza la si dimentica subito, mentre invece il bel posto resta impresso nella memoria. Così finisce che la voglia di migliorare non fa un passo avanti.
Ma almeno l’occhio, e anche lo spirito dello spettatore, sono appagati e contenti.
Il giorno dopo siamo dovuti andare all’ospedale. Niente di grave; solo un opportuno periodico controllo.
E siccome siamo a Roma, passando da un reparto all’altro, in giro per il vastissimo complesso del S. Giovanni, capita, come niente, di trovarsi davanti al portico della villa di Domizia Lucilla, la madre di Marco Aurelio, sullo sfondo di una vasca di marmo che ornava il giardino della immensa domus dei Valerii, distrutta nel sacco di Alarico, o ancora, in un cortiletto oggi pieno di motorini ma anche di capitelli delle terme della Villa dei Laterani.
E gli occhi cadono sugli archi dell’acquedotto neroniano incorporati nella vecchia casetta dei guardiani. Finite le analisi, il giro lo possiamo chiudere con un bel caffè al bar, anche lui con il suo sontuoso cornicione romano che corre sopra tutto il bancone.
Diventa inevitabile, di fronte a questa onnipresenza della grande storia, che ognuno di noi, spesso più preoccupato per un suo foruncolo che per il destino del mondo, sia costretta a ridimensionare, magari di poco, la propria piccola vicenda di malato.
Tanto per chiudere alla romana: venerdì 25 alle 19, essendoci incautamente fidati del programma ufficiale del Roma Europa Festival, ci troviamo con un gruppo di appassionati di musica contemporanea a Villa Medici per l’annunciato concerto di Alvin Curran.
L’edificio, evidentemente considerato un possibile obiettivo di attentati, è pesantemente presidiato da soldati armati fino ai denti, con tanto di metal detector all’ingresso. Il funzionario perplesso e un po’ sospettoso non sa niente del concerto, ma ci fa entrare lo stesso. Nel salone grande c’è preparato un buffet da acquolina in bocca.
Falso allarme. In breve si scopre che la data sul libretto è sbagliata e il buffet non è destinato a noi, che alla fine ce ne dobbiamo andare a bocca asciutta.
Ma il bello, anzi il romano del fatto è stata l’evoluzione del trattamento nei nostri confronti da parte del personale e dei soldati che, marziali e rigidi all’inizio, si sono rapidamente ammorbiditi, tanto da abbassare i fuciloni d’assalto e partecipare al nostro sconcerto, cercando di capire dov’era l’errore e cosa potevano fare per aiutarci a risolvere la questione.
Poco c’è mancato, visto che ormai si era fatta quasi l’ora di cena, che ci offrissero di dividere il rancio con loro.
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