A quell’epoca, siamo nei primi anni Sessanta, iniziavo la mia carriera di critico televisivo per un grande quotidiano. Ero giovanissimo, un po’ timido e ancora molto gratificato dal ruolo. La Rai aveva nominato un intelligente e moderno capo dell’ufficio stampa, il quale aprì le porte dell’Azienda e dei programmi ai critici e alla stampa. Quel capo dell’Ufficio Stampa si chiamava Paolo di Valmarana e farà una grande carriera come dirigente della televisione e, soprattutto, come promotore e protettore del cinema italiano di qualità.
Insomma, Valmarana aveva deciso di mostrare in anteprima i programmi alla stampa in maniera da permettere ai poveri critici, costretti a seguire con assiduità giornaliera i programmi della televisione, di dare un giudizio più meditato e più comodo.
Io, fino a quel momento, avevo fatto il Vice di un titolare di rubrica che non scriveva quasi mai perché in tutt’altre faccende affaccendato, suscitando le ire del Capo Servizio che era stufo di avere tutti i giorni in pagina i pezzi che riguardavano la televisione – e che allora erano molto letti perché i programmi della televisione facevano, come si suol dire, notizia – firmati “Vice”. Per cui, quando arrivò l’invito della televisione mi chiamò e mi promosse quasi manu militari, titolare di rubrica. “Vai in Rai, a Via Teulada, a vedere questo sceneggiato” mi disse “e scrivimi un bel pezzo che firmerai con il tuo nome e cognome”.
Il programma del mio debutto di critico titolare era proprio il Maigret di Gino Cervi.
Gino Cervi arrivò verso la fine della proiezione, accompagnato dal regista Mario Landi (i più giovani lo confonderanno probabilmente con Gino, grande coreografo affermatosi anche come regista) e dal delegato alla produzione ed anche cosceneggiatore Andrea Camilleri (sì, proprio lui, il padre di Montalbano). Cervi si mise seduto discretamente in fondo alla saletta e aspettò che si accendessero le luci.
Lo osservai nella penombra e notai che aveva ripreso le sue connotazioni abituali: ora non aveva più i baffi di Maigret e i suoi capelli erano tornati al colore naturale, un bellissimo bianco argenteo, dono della vecchiaia.
Lo sceneggiato finì con la bella canzone di Luigi Tenco che passò mentre scorrevano i titoli di testa.
“Un giorno dopo l’altro/la vita passa e va…” erano le parole non banali che facevano da supporto ad una musica struggente. Ma era la voce di Tenco che colpiva. Mi pare che fosse la prima volta che, per la sigla, si ricorreva alla canzone di un cantautore. Io, come molti giovani di quegli anni, conoscevo e apprezzavo Luigi Tenco, anche se la televisione ci aveva dato poche occasioni per conoscerlo. Forse una soltanto: il Canzoniere minimo, dove Giorgio Gaber mischiava i generi e faceva conoscere la buona musica, gli autori e gli interpreti più dotati, quasi tutti fuori dal giro, come lo era Luigi Tenco, anche se ora faceva parte della scuderia della potente RCA.
Quando si accesero le luci, io ebbi voglia di applaudire, come si fa a teatro e come non si usa fare al cinema (tranne rarissime eccezioni) anche se qualche volta verrebbe la voglia. Mi trattenni perché i miei colleghi anziani rimasero composti e tutti presi dalla severità del ruolo. Non ci fu una conferenza stampa vera e propria come quelle che si fanno oggi, con gli addetti ai lavori (attori, registi, autori e dirigenti) schierati che rispondono alle domande di cronisti frettolosi che devono portare il pezzo al giornale, mentre i critici televisivi militanti sono oramai una razza estinta. Ad attirare la nostra attenzione fu soprattutto Gino Cervi, che in quel momento godeva di grandissima popolarità, grazie anche al personaggio di Peppone, sindaco comunista rivale di Don Camillo, i personaggi nati dalla fantasia di Giovannino Guareschi. Ci avvicinammo rispettosamente e i colleghi anziani gli posero qualche domanda rispettosa a cui Cervi rispose con molta cortesia ma anche con la sua proverbiale simpatia.
Io avevo notato in un angolo della sala, ancora seduto e quasi nascosto, un giovanotto. Lo guardai meglio e mi sembrò di riconoscere proprio Luigi Tenco. Lo vide anche Cervi che bisbigliò qualcosa all’orecchio del regista Mario Landi, il quale interruppe la sua chiacchierata per chiamare il giovanotto: “Luigi, cosa fai, vieni qui…” Il giovanotto si alzò quasi di malavoglia e venne vicino a noi. Fu Cervi a presentarlo: “Avete sentito che belle canzoni scrive questo ragazzo?” disse. I miei colleghi autorevoli gli dettero un’occhiata di sfuggita e ripresero il loro ragionamento. Uno di loro (oggi si direbbe un dietrologo…) sibilò a un altro collega: “un favore alla casa discografica…” L’altro rispose: “che c’entrano le canzoni con uno sceneggiato?”
Io non ero affatto d’accordo con gli autorevoli colleghi ma mi sentivo troppo neofita, quasi abusivo, per esprimere il mio dissenso. La voglia di dire che la canzone di Tenco, dopo la recitazione di Gino Cervi, mi era sembrata la cosa più interessante, era forte ma me la tenni per me.
Di quel mio debutto come critico televisivo mi rimasero quella faccia schiva e ombrosa di Luigi Tenco e la cordialità con cui Gino Cervi lo aveva presentato, con un atto di generosità (e anche di attenzione verso i giovani) piuttosto raro.
Pochi anni dopo, Tenco porrà fine ai suoi giorni in un albergo di Sanremo, mentre Gino Cervi vivrà ancora molti anni di trionfi, anche in televisione con il suo personaggio dell’ispettore Maigret.