Il critico Filippo La Porta con un gruppo di colleghi ha messo in cantiere un’indagine sullo stato di salute della narrativa nel Belpaese. Ecco che cosa emerge, fra l’effetto realtà di Saviano, la studiata assenza di Ferrante, romanzi furbastri e mid cult, ma anche una nuova, profonda, esigenza di sfide alte e di letteratura di qualità. La Porta ne discute il 15 marzo alle 18 ai Frigoriferi Milanesi con Luca Mastrantonio e Francesco Longo.
Canone 2030, edito da Damiani, prefigura uno scenario aperto, in cui il canone occidentale in letteratura abbatte i confini, diversamente da quel che accade in politica oggi dove l’Europa appare piuttosto come una fortezza chiusa, arroccata, che fa finta di non vedere le proprie responsabilità rispetto a chi bussa alle porte. La letteratura vede più in profondità di quanto non riescano fare oggi la cronaca e la politica?
Sì, quello che viene fuori dal libro è un canone aperto, plurale, variegato – proprio perché esistono ormai tanti canoni quante sono le microcomunità disperse nel corposo sociale – ma, a dir la verità, mi sorprende come nessuno dei 12 autori abbia citato un solo scrittore migrante. E mi sorprende dato che la letteratura italofona degli immigrati è diventata in Italia negli ultimi vent’anni da documento di denuncia e protesta (spesso confinato in un ghetto culturale) a un capitolo anche stilisticamente interessante e vitale delle patrie lettere: dall’albanese Ornela Vorpsi all’algerino Amara Lakhous, dall’italo-somala Cristina Ali Farah all’italo-etiope Gabriella Ghermandi e a tanti altri.
A fronte di una grande vivacità della nuova letteratura italiana contaminata e riattivata dal contributo di chi viene da fuori, il volume Canone 2030- con i saggi di Massimo Arcangeli, Paolo di Paolo e Luca Mastrantonio- stigmatizza un mainstream italiano di successo che gioca facile sui luoghi comuni, che approfitta della superficialità dell’opinione pubblica, che non fa nessuna ricerca. Come leggi questa discrasia?
Sì, il mainstream narrativo – Ferrante (che esordì con un romanzo straordinario), lo stesso Lagioia (che pure ha una indubbia intelligenza antropologica), Piccolo, Mazzantini, ecc. – sembra obbedire a un midcult insieme colto e pop, fatto di pseudo raffinatezza e banalizzazione dei conflitti, di temi anche rilevanti che però finiscono nella soap o nel cabaret.
Luca Mastrantonio mette alla sbarra uno dei paladini di una certa sinistra salottiera: Roberto Saviano, che con il succeso di Gomorra forse non ha cambiato la società, ma ha reso se stesso un’icona, un’installazione, una rarità sottovuoto da ammirare. C’è un’affinità fra questa operazione e quello che sta avvenendo nel mondo delle artistar alla Damien Hirst che vendono se stessi come brand?
Saviano come brand e icona pop? Forse la definizione è ingenerosa. Al contrario di Hirst, Saviano infatti rischia la vita ogni giorno. Saviano ha scritto un libro come Gomorra, che ha rilanciato il reportage narrativo in Italia (dove pure dai tempi di Matilde Serao vanta un pedigree di tutto rispetto), capace di spettacolarizzare la cronaca attraverso l’uso di retoriche narrative, e però scritto in una lingua abbastanza piatta, giornalistica. Poi Fazio e la TV lo hanno trasformato in star mediatica che sentenzia su ogni cosa, a volte senza alcuna competenza, e che ha fatto conoscere la Zsymborska al grande pubblico attraverso l’unico verso brutto che ha scritto!
Va di moda parlare di fake news, ma esiste oggi anche un processo di falsificazione dell’arte in relazione a un mercato che sforna prodotti accattivanti, fintamente impegnati, per chi non si vuol fare troppe domande?
Una falsa notizia si può smascherare, ma un falso romanzo o una falsa poesia? Chi potrebbe farlo? A nessuno viene riconosciuta una autorità intellettuale del genere. Forse una volta c’erano critici autorevoli e indiscussi, come Debenedetti, Solmi, Pampaloni, ma oggi anche un diciottenne può sbeffeggiare in Rete un probo e maturo studioso. O meglio: può contestarlo attraverso argomenti. Oggi l’unica autorità riconosciuta è quella della argomentazione e persuasione, che certamente configurano un tipo di razionalità, diversa da quella scientifica. Uno può anche dire che, ad esempio, quelle di Baricco sono ngegnose simulazioni di romanzi e non veramente romanzi, ma poi dovrà argomentare il più possibile e con precisione un giudizio del genere per non finire nell’arbitrio.
Esiste, ha ancora senso, parlare oggi di una funzione critica e di ricerca della letteratura?
La letteratura è forse l’ultimo spazio dell’individuo (il cinema e la TV – che pure non disdegno affatto – si rivolgono alla massa, non all’individuo), della sua autonomia, della sua estraneità al potere. Ha bisogno di solitudine e silenzio, di attenzione e concentrazione. E anche se i romanzi attuali sono deludenti o furbastri o puro marketing la funzione conoscitiva e utopica della letteratura resta un potenziale direi “sovversivo” mai veramente esaurito, e a disposizione di lettori amorevoli. E oggi forse si ritrova più nei libri al confine tra i generi, o magari in alcune pagine di romanzi ambiziosi e frananti: in Arminio, Pascale, Morelli, Vasta e poi in Moresco, Siti, Carraro, Albinati, Doninelli, Veronesi, Montesano.
Ha collaborato Simona Maggiorelli