“La voce di Rosa, il suo canto strozzato, drammatico, angosciato, pareva che venisse dalla terra arsa della Sicilia. Ho avuto l’impressione di averla conosciuta sempre, di averla vista nascere e sentita per tutta la vita: bambina, scalza, povera, donna, madre, perché Rosa è un personaggio favoloso, direi un dramma, un romanzo, un film senza volto”. Con queste parole Ignazio Buttitta, il grande poeta dialettale siciliano, descrisse la musica, la voce, il personaggio Rosa Balistreri, l’indomita cantastorie di Licata che oggi, 21 marzo 2018, avrebbe compiuto 91 anni.
Anticonformista ed emancipata, Rosa ha recuperato testi arcaici della tradizione popolare siciliana, reinterpretandoli, toccando temi scottanti con estremo coraggio per l’epoca che, tutt’oggi, sono di estrema attualità: gli intrecci tra Mafia e Chiesa, la solitudine e il dolore dei carcerati, la violenza sulle donne e il femminicidio, la nostalgia del migrante,l’esaltazione del brigante rivoluzionario e mai delinquente, le donne-madri, il razzismo della classe borghese, la ferocia del caporalato, cantando con tormentosa nenia il duro lavoro di contadini, minatori e jurnatari, ovvero i lavoratori a giornata. Un dolore nato dalla sua arida, ma diletta terra di cui ha esaltato anche la speranza e la voglia di riscatto: nell’amore per le piccole gioie, nelle tradizioni primigenie (anche religiose) più genuine della Sicilia, nella certezza di una giustizia sociale, nel rispetto per il lavoro e per i lavoratori.
“Nata il ventuno a primavera” – giusto per citare i versi di un’altra grande signora della cultura italiana, Alda Merini, venuta al mondo nell’equinozio di primavera – da un famiglia poverissima Marina di Licata, Rosa Balistreri porta nella sua arte il dramma di una vita difficile: dolore personale che diventa nei suoi testi storia universale di chi ha subito soprusi.
Per conoscere a fondo l’opera di Rosa Balistreri, bisogna scavare tra le pagine della sua biografia (dal matrimonio infelice con Gioacchino Torregrossa, che la portano a scontare alcuni mesi di prigione per tentato omicidio; alla drammatica morte della sorella; ai lavori più umili per mantenere la figlia): vicende che, tra i vicoli maleodoranti e nelle squallide taverne, si è formata l’artista Balistreri che ha messo a nudo, con estrema sincerità, gli orrori della società nobilitando, con inconfondibile amaro strazio della sua immortale voce, la vita degli ultimi.
Di lei diceva: “Si può fare politica e protestare in mille modi, io canto. Ma non sono una cantante… sono diversa, diciamo che sono un’attivista che fa comizi con la chitarra”. Un’attivista, dunque. Scomoda, soprattutto. Donna da ammirare, ma anche da tenere a lontana, perché le tematiche spinose e la crudezza del linguaggio utilizzato, no!, non possono piacere alle orecchie di chi vive ai piani alti della società.
Sono i brani che parlano per Rosa – accusata ingiustamente dalla critica del suo tempo di essere troppo “antica”, forse non ha cogliendone appieno la grandezza e la modernità – e che andrebbero (ri)scoperti: ma probabilmente “Mafia e Parrini”, “Terra ca nun senti”, “I Pirati a Palermu”, “Buttana di to ma’” (per fare qualche esempio) sono ancora argomenti spigolosi che, sì!, è meglio lasciare in un angolino per dar spazio ad innocue canzonette, accomunate tutte dallo stesso giro armonico di do. Rosa, invece, come i grandi poeti, è andata oltre: ha raccontato l’umanità nel suo infinito presente. E per anni – voglio sperare inconsciamente – è stata spinta verso l’oblio, ma qualcosa sta cambiando e le sue verità scomode stanno prepotentemente ritornando a nuova luce. E noi abbiamo un compito importante, un compito che la stessa Rosa ha deciso di affidarci nel suo testamento musicale “Quannu moru”: “Quannu iu moru, cantati li me canti/ ‘un li scurdati cantatili pi l’antri/quannu iu moru pinzatimi ogni tantu/ ca pi sta terra ‘ncruci murivu senza vuci/ ca pi sta terra ‘ncruci io moru senza vuci”.