Tutto il resto è noia, 40 anni di un capolavoro

È il brano che ha segnato la svolta della carriera di Califano, scomparso quattro anni fa. Il racconto malinconico di un amore diventato routine. Un capolavoro della nostra musica

Franco Califano
Franco Califano
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Francesco Troncarelli Modifica articolo

30 Marzo 2017 - 11.55


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Quattro anni fa se ne andava Franco Califano, uno dei più grandi autori della nostra musica, un artista unico che ha regalato emozioni a non finire a intere generazioni e che per il suo spirito libero e controcorrente non è stato mai adeguatamente considerato dalla critica e dai media. Messo all’angolo in vita, dimenticato in fretta da morto.     

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Poeta, anticonformista, ribelle, artista maudid, protagonista di storie di cronaca nera e cronaca rosa, attore di cinema e di fotoromanzi, idolo di una certa Roma ai confini della legalità e al tempo stesso di tanta gente di ogni ceto sociale innamorata della sua musica, Franco Califano resta comunque un grande chansonnier, un cantautore immenso e un autore prolifico e sempre di qualità.

Un uomo dalle spalle larghe e dalla creatività innata, con la capacità di raccontare il vissuto quotidiano della gente, fosse di borgata come in quel brano portato al successo da Edoardo Vianello e Wilma Goich in coppia, o fosse dei quartieri alti della città, l’una e l’altra alle prese con i problemi che da sempre tormentano le rispettive esistenze. La vita, l’amore, l’amicizia. Non a caso qualcuno molto acutamente l’ha definito il Prevert di Trastevere.

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Autore di alcune pagine intense della musica leggera italiana come “La musica è finita”  “Una ragione di più”, “Minuetto”, “Un grande amore e niente più”, “E la chiamano estate”, Califano non aveva ancora trovato il modo di farsi apprezzare appieno anche come interprete. Dopo alcuni tentativi rimasti nel limbo l’occasione gli capita nel ’77, quando incide “Tutto il resto è noia” che diventerà uno dei capolavori assoluti della musica italiana.

Una canzone dal sapore amaro ma irresistibile che dipinge su musiche di Frank Del Giudice, il malessere esistenziale di una passione che si spegne piano piano nella routine, che il Califfo scrisse quarant’anni fa ma che per le dinamiche e le situazioni del rapporto di coppia che racconta, è sempre attuale.

Pubblicato nel 1976 ed inserito nel suo quarto album (33 giri etichetta Ricordi) sulla cui copertina c’è un bambino dal cognome che rimanda ad echi di malavita, ovvero l’allora piccolo Eros Turatello, figlio del boss milanese Francis suo amico, “Tutto il resto è noia” è considerato dalla rivista Rolling Stone, uno fra i cento dischi italiani più belli di sempre ed è per lui, quello che gli americani chiamano “signature song”, il brano cioè con cui si identifica subito un cantante.

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Sicuramente è la canzone che gli ha regalato una nuova credibilità artistica, dopo le vicissitudini giudiziarie che avevano movimentato in negativo la sua esistenza e lo avevano allontanato dalla ribalta. Un brano che segna il riscatto come artista e per taluni che snobisticamente lo avevano emarginato anche come uomo, rilanciandolo a pieno titolo e senza falsi moralismi, come cantautore con la “c” maiuscola.

Califano che andava a letto cinque minuti dopo degli altri per avere cinque minuti in più da raccontare, nato per sbaglio a Tripoli da genitori campani, ma romano d’adozione, con quella inconfondibile voce roca e quello sguardo sornione da bel tenebroso, aveva sul braccio tatuato “tutto il resto è noia”, la frase di questa canzone che gli ha dato la notorietà e la fama imperitura e che avrebbe voluto come suo epitaffio. E aveva ragione. Nel riascoltarla con malinconia nell’anniversario della sua scomparsa, ci si accorge come il mondo dello spettacolo sia maledettamente noioso senza uno artista come lui.

 

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