Torna Iannacone e la tv è un cuore che pulsa

Iannacone non si ferma alla pelle, ci prende per mano e ci fa entrare nelle pieghe. Pieghe che spesso sono anche piaghe.

Iannacone
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

11 Maggio 2020 - 09.22


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A ben pensarci il razzismo, quello che pretende di dividere per colore, serve solo a identificare i cretini. Il male del nostro tempo, del nostro Paese è male antico, resistente: l’ingiustizia sociale che fa i ricchi sempre più ricchi e la povertà un abisso. Ogni cosa nasce e finisce lì.

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E’ bastato mettersi al fianco di Domenico Iannacone ieri sera, su Rai3, salire sull’auto di “Che ci faccio io qui”, riprendere con Domenico il racconto diverso che Iannacone sa fare del nostro Paese. Iannacone non si ferma alla pelle, ci prende per mano e ci fa entrare nelle pieghe. Pieghe che spesso sono anche piaghe. Il primo tratto del viaggio è al Sud, che dell’ingiustizia sociale, come dire, è cattedrale. Nella prima serata Iannacone ci ha portato in baracche e catapecchie dirottate dove il colore della pelle è elemento secondario.

Sotto il “non tetto” delle une e delle altre, centrale è quell’umanità che risponde alla domanda che Domenico Iannacone si è posto all’inizio di questo nuovo viaggio, quando ancora l’Italia non era alle prese con l’inimmaginabile emergenza che stiamo vivendo: “Ci siamo curati di quel che accadeva attorno a noi?” La risposta è facile, no. Non ce ne siamo curati, non se ne è curato il sistema Paese affidando ai tanti “Bartolo” il compito di salvarci l’anima e di testimoniare il bene prezioso che neanche la cattiveria diffusa è riuscita a sconfiggere, la solidarietà.

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Nel tratto di strada fatto domenica sera Bartolo è l’uomo che ogni giorno, tutti i santi giorni dell’anno, riempie la sua miracolosa vecchia auto di beni di necessità per dividerli tra bianchi e neri. I neri di giorno non li trova a casa, sono nei campi a raccogliere ortaggi e frutta per la nostra tavola. Quelli che “se servono agli imprenditori, ben vengano”, come ha avuto modo di dire Sallusti. Bartolo lascia quel che porta in dono su una sedia, all’ingresso: “Vedi quella sedia – ci dice, col suo forte accento calabrese che è musica per le nostre orecchie – vedi quella sedia ora piena delle cose che abbiamo portato? Per loro è mangiare ma anche un segno importante, il segno che non sono soli, che qualcuno li pensa e vuole loro bene”.

I ragazzi africani violentemente separati dai loro amori, dalla compagna, dai figli; loro torneranno a sera con un pugnetto di euro, paga assai più magra della paghetta dei nostri figli più piccoli. L’inferno di giorno, nei campi, l’inferno di notte. Manca tutto. “Se uno non vede non crede”. Si, vero, ma c’è anche chi vede e continua a credere che tutto questo non debba creare scandalo, non debba far alzare un urlo devastante al cielo. Dalla baracca di chi è scappato dall’Africa a chi è italiano e si ritrova non primo, ma ultimo con gli ultimi di un altro colore. Uomini, donne, bambini, galline e un paio di cagnolini, insieme, sotto un altro “non tetto”. Storia di povertà che scivola inesorabilmente in una povertà più profonda.

E se le lacrime hanno un valore, valgono quelle di una ragazza che piange senza pudore chiedendo una casa vera, una vita vera. Ultime immagini, quelle della povertà che sa essere ricca, dividere il boccone con due cagnolini che scodinzolano per salutare Domenico e Bartolo che vanno via. Ci vediamo domenica.

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