Giuseppe Pinelli, anarchico, la diciottesima vittima di piazza Fontana

La notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli detto Pino (una ex staffetta partigiana) precipita dal quarto piano della Questura milanese nel cortile sottostante.

Giuseppe Pinelli
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Giovanni Giovannetti Modifica articolo

14 Dicembre 2020 - 17.56


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La notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli detto Pino (una ex staffetta partigiana) precipita dal quarto piano della Questura milanese nel cortile sottostante. Cinquantuno anni dopo la verità giudiziaria è ancora ferma al «malore attivo» della sentenza vergata nel 1975 dal giudice Gerardo D’Ambrosio. Secondo l’ex generale dei Servizi Gianadelio Maletti (oggi latitante in Sudafrica), ««Pinelli si rifiutava di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedere sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade» (lo scrivono Alberto Nerazzini e Andrea Sceresini sul “Fatto Quotidiano” dell’11 dicembre scorso). Tutto questo a Maletti l’avrebbero riferito il maggiore dei carabinieri Giorgio Burlando, responsabile del centro di controspionaggio di Milano e il colonnello Antonio Viezzer, capo della segreteria del “reparto D” del Sid. Ma soprattutto, scrivono Nerazzini e Sceresini, lo ammette l’ex capo del Servizio segreto militare generale Vito Miceli.
L’anarchico Pinelli è dunque la diciottesima vittima della strage di piazza Fontana a Milano: strage di Stato, così come la morte di Pinelli, provocata da funzionari di quello Stato che tuttora, ha scritto Davide Conti, «ha scelto di rappresentare quegli anni attraverso una narrazione auto-assolutoria» (“il manifesto”, 12 dicembre 2020).
Nonostante anni di indagini, nove processi e montagne di materiale probatorio, la strage di piazza Fontana rimane tuttora senza colpevoli. Siamo dunque senza una verità giudiziaria esaustiva sulla pagina più buia della recente storia repubblicana.
Correva l’anno…
Negli anni Novanta sono in tanti ormai a fare spallucce, ma non Guido Salvini. Il giudice milanese ha sul tavolo documenti e testimonianze che dimostrano le responsabilità dei Servizi segreti degli Stati uniti nella strategia o tattica della tensione. E il Partito democratico della sinistra (Pds, erede del Pci) al governo si mostra distratto. E forse con imbarazzo ma senza tanti giri di parole, Salvini includerà lo stesso capo della procura milanese (e futuro senatore Pds) Gerardo D’Ambrosio tra coloro che, trent’anni dopo i fatti, avrebbero mostrato scarsa attenzione per l’apertura di nuove indagini su destra eversiva e stragi di Stato: «Quando ho riaperto il caso», dice Salvini, da lui «non ho avuto il minimo aiuto. Si percepiva anzi il poco interesse e quasi il fastidio di D’Ambrosio».
Ben strano comportamento, anche perché, nell’indagare tra i primi su piazza Fontana, a D’Ambrosio va quanto meno riconosciuto il merito, condiviso con i Pm Emilio Alessandrini e Luigi Fiasconaro, d’aver intrapreso la strada giusta: quella per Padova e Treviso che porterà a Freda e Ventura, nonostante i depistaggi (là fino a dove si era peraltro già spinto il commissario di polizia padovano Pasquale Juliano, subito fermato dai chiacchierati superiori Saverio Molino e Elvio Catenacci). E sono ancora le indagini del giudice istruttore D’Ambrosio e dei pm Alessandrini e Fiasconaro, proprio su Catenacci e sui tanti scheletri nell’armadio della Divisione affari riservati, a consigliare la rimozione di Federico D’Amato, ciò che avverrà due giorni dopo la strage di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974): una rimozione peraltro solo apparente, poiché D’Amato continuerà a gestire i rapporti con la Nato e a partecipare alle riunioni del Comitato di pianificazione clandestina (Cpc) presso il Comando europeo di Stay Behind a Bruxelles.
Dal 1971 al 1975, lo si è visto, D’Ambrosio ha poi condotto la seconda istruttoria sulla morte violenta dell’anarchico Pino Pinelli, accusato della strage di piazza Fontana. Per la morte dell’anarchico, D’Ambrosio accuserà Calabresi di omicidio volontario (il commissario verrà prosciolto nel 1975 a fine istruttoria) e Allegra del suo fermo illegale (condannato, scatterà l’amnistia). In conclusione dell’inchiesta, D’Ambrosio attribuirà la morte di Pinelli a una improvvisa vertigine e alla conseguente perdita dell’equilibrio.


Catene e catenacci


Morte accidentale? Morte procurata prima della caduta? Oggi sappiamo che in quelle ore cruciali alcuni alti funzionari della famigerata Divisione affari riservati erano accorsi segretamente da Roma a Milano per gestire e orientare le indagini, dando ordini, raccogliendo “indiscrezioni” e dettando relazioni che verranno fatte firmare ai dirigenti della questura milanese. Questi alti funzionari sono Ermanno Alduzzi, Silvano Russomanno, Alberto D’Agostino, Guglielmo Carlucci e Elvio Catenacci. Toh! Catenacci, l’uomo di fiducia del ministro Restivo, il reclutatore dell’ordinovista Delfo Zorzi al servizio della Divisione affari riservati, quel solerte inquisitore del commissario Juliano dopo che, sulla cellula veneta di Ordine nuovo, Juliano aveva colto nel segno venendo da Catenacci sospeso dal servizio (con l’informatore del Sid Ventura, beffardo, a ironizzare che il suo gruppo «era saldamente protetto da catene e catenacci…»).
La presenza a Milano dell’intero nucleo operativo del Servizio segreto civile (accompagnati da una decina di tirapiedi) emerge anche dalle indagini di Carlo Mastelloni su Argo 16 (l’aereo di Gladio e dei Servizi caduto “accidentalmente” nel novembre 1973 a Porto Marghera). Carlucci a Mastelloni il 15 maggio 1997: «confermo che al Pinelli durante il fermo fu contestata una falsa confessione di Valpreda. Così si usava, allora eravamo i padroni delle indagini». E ancora: «Noi facevamo firmare all’Ufficio politico tutti i rapporti di Polizia giudiziaria frutto delle nostre indagini: è stato sempre il nostro costume, dovevamo rimanere “riservati”». Nel frattempo il futuro vicecapo del Sisde Russomanno (un ex nazista) si vede di continuo con agenti dei Servizi americani, che incontra presso il consolato milanese (in particolare vede il fiduciario dei Servizi americani Carlo Rocchi, che in quel consolato ha l’ufficio e la reperibilità telefonica); e dal 12 al 19 novembre lo stesso D’Amato è a Milano per una intera settimana.
Sono loro gli architetti della perdurante sòla anarchica su bombe e stragi. Ed è lecito supporre che più d’uno tra questi funzionari degli Affari riservati possa aver avuto parte attiva nella morte di Pinelli e in questa fase della strategia della de-stabilizzazione, inaugurata con le bombe del 12 dicembre 1969.
Anche se ogni colpa è fatta ricadere sugli anarchici, molti in Questura sanno della matrice di destra di quelle bombe e degli attentati preparatori che le precedono: bombe alla Fiera di Milano e all’Ufficio cambi della Stazione centrale il 25 aprile 1969 (una ventina di feriti); attentati a lapidi di partigiani, a sedi del Pci e ad altri circoli della sinistra; bombe molotov contro l’ex albergo Commercio occupato di piazza Fontana, preso d’assalto la notte fra l’11 e il 12 aprile. Senza tralasciare, limitandoci a Milano, le bombe fatte esplodere sopra alcuni treni la notte tra l’8 e 9 agosto di quell’anno, tutte di mano nazifascista; tutte attribuite agli anarchici.


Macelleria messicana


Nel suo libro Prima di piazza Fontana Paolo Morando apre squarci di verità sui mesi oscuri che precedono l’attentato, costellati dalle prove generali del botto dicembrino, e punta l’indice sull’operato della Questura milanese e degli Affari riservati, intenti a pilotare indagini manchevoli e a senso unico; indagini intossicate da testimoni che in realtà sono informatori di polizia.
E va detto che le “confessioni” dei presunti colpevoli anarchici sono raccolte dopo averli sottoposti a sevizie. Davanti ai giudici ovviamente i seviziatori negheranno, ma sentite cosa dice Paolo Braschi, uno degli anarchici poi a processo: «gli schiaffi e i pugni me li dava Panessa [il brigadiere Vito Panessa]. Calabresi controllava che io non reagissi […] Calabresi venne in carcere e mi avvertì che se avessi parlato dei maltrattamenti mi avrebbe imputato anche di calunnia». E Paolo Faccioli, altro accusato: «il dottor Zagari [il vice dirigente dell’Ufficio politico della Questura milanese Beniamino Zagari], Panessa e Calabresi mi hanno impedito di dormire, mi hanno tenuto in piedi per ore e ore, mi hanno dato da mangiare solo il terzo giorno. Ma sono stati i pugni e gli schiaffi e a farmi ammettere cose che non avevo mai fatto».
Caso vuole che Panessa e Calabresi siano tra coloro che nel dicembre 1969, per tre giorni, trattengono illegalmente Pino Pinelli in Questura (il suo fermo di polizia, mai confermato da un magistrato, era ampiamente scaduto); e sono due dei numerosi sbirri che Pinelli ha intorno quando, la notte tra il 15 e il 16 dicembre, il ferroviere anarchico ci lascia le penne. Cinquant’anni dopo Panessa dirà a Sceresini che, in fondo, «Pinelli Se l’era cercata».
Tutto questo dare addosso agli anarchici sembra avere un solo scopo: incastrare l’ormai irreperibile Giangiacomo Feltrinelli, anche lui a processo nel 1971 con la moglie, la modella Sibilla Melega, per le bombe milanesi di aprile (ma solo per falsa testimonianza) e spacciato per il “grande vecchio” un po’ di tutti: anarchici, guevaristi, filocinesi… Ce n’è anche per la moglie Sibilla: Calabresi e questurini la ritengono sospettabile di un mancato attentato, il 30 agosto 1968, alla Rinascente in piazza Duomo a Milano. Il motivo? L’esplosivo era contenuto in una scatola per scarpe da signora, assieme ad altri gingilli femminili: un pennello per le ciglia, una reticella per le compere, una scarpa con il tacco a spillo. E tanto è bastato per sospettare dell’attentato la signora.
Di quanto l’editore fosse inviso a Questura e Affari riservati reca poi eloquente testimonianza un ripugnante libello del 1971, Feltrinelli: il guerrigliero impotente, uscito anche in edicola, allusivo sin dal titolo. Ebbene, si scoprirà, scrive Morando, che questo libro-spazzatura è farina del sacco di Federico Umberto D’Amato, che lo ha commissionato a un anonimo cabarettista della destra romana.
Spazzatura sull’editore ne hanno gettata tanta, e pure sui malcapitati anarchici a processo nel marzo-maggio 1971. Come la falsa accusa di omosessualità rivolta a Piero Della Savia e a Paolo Braschi dalla fonte di polizia Rosemma Zublema, una psicopatica. Un’accusa sulla quale il settimanale fascista “lo Specchio”, ovvero il referente editoriale dei Servizi, non mancherà di ricamare. Caso vuole che sullo “Specchio” scriva anche tale Adriano Corso, e cioè l’amico di Franco Freda e agente coperto Zeta dei Servizi Guido Giannettini. Sì, proprio lui. E Freda è colui che ha collocato le bombe milanesi del 25 aprile 1969 alla Fiera di Milano e all’Ufficio cambi della Stazione centrale, la bomba padovana al rettorato dell’Università dieci giorni prima e alcune di quelle deflagrate sui treni quattro mesi dopo. Per tacere di piazza Fontana.
Burattini e burattinai
Su questi attentati tornerà più avanti nel tempo l’ordinovista padovano Gianni Casalini. Questo neofascista era la “fonte Turco” dei Servizi, arruolato nel 1972. Ma nel 1975, il capo del controspionaggio militare Gian Adelio Maletti scarica l’informatore, dopo le sue prime scarne ammissioni sulle imprese dei bombaroli (non solo al Sid ma anche ai giudici), scarne e comunque sufficienti a confermare il coinvolgimento dell’ambiente ordinovista veneto negli attentati nonché – orrore – dello stesso Sid.
E siamo al settembre 2008: di fronte al magistrato milanese Guido Salvini finalmente Casalini, ormai vecchio, «si vuol scaricare la coscienza» (sono parole di Maletti), accollandosi fra l’altro la paternità materiale, assieme all’ordinovista padovano Ivano Toniolo, di due dei dieci attentati ai treni dell’agosto 1969 (dodici feriti).
Dunque gli anarchici nulla c’entrano. E a conclusione del processo milanese per le bombe del 25 aprile il pm Antonino Scopelliti non può che chiedere l’assoluzione degli anarchici e degli altri esponenti della sinistra milanese artatamente coinvolti, ritenendoli del tutto estranei all’episodio, sbugiardando così l’incredibile istruttoria del consigliere Antonio Amati (orientata da chi?) e le finte indagini della Questura.
Che sia Federico D’Amato (di concerto con Pino Rauti) la «mente organizzativa al di sopra della nostra» di cui ha parlato il terrorista nero Carlo Maria Maggi? Per Carlo Digilio detto “Zio Otto” – l’infiltrato degli americani in Ordine nuovo (o l’infiltrato di Ordine nuovo negli americani: invertendo l’ordine dei fattori…) che prepara l’esplosivo per piazza Fontana, arrivato da una base americana in Germania – il depistaggio sugli anarchici fu «una mossa strategica studiata dai Servizi segreti al momento in cui era stata concepita l’intera operazione». E forse non sbaglia Peter Thompkins nell’indicare in D’Amato il regista principale dell’operazione milanese. Di certo il giorno dopo la strage «il dottor Russomanno Silvano è giunto a Milano ove prese in pratica “la situazione in mano” unitamente al dottor Allegra»: lo ha tardivamente ammesso l’8 gennaio 1998 il funzionario di Polizia Antonio Pagnozzi al Pm milanese Maria Grazia Pradella (che nel 1995 assieme al collega Massimo Meroni ha avviato nuove indagini). Ma già la vecchia istruttoria di D’Ambrosio «lascia tranquillamente ritenere», scrive lo stesso magistrato, «che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli».
L’indagine non è gestita dai giudici. Analizzando quelle carte, D’Ambrosio riscontra l’assoluta assenza di metodologia e professionalità, tanto da affermare che «in quel processo non ci si poteva fidare della polizia» (le indagini saranno da lui affidate in prevalenza alla Guardia di finanza).
Chi gestisce allora questi interrogatori nell’ufficio di Calabresi tra il 12 e il 15 dicembre 1969? Il commissario? oppure Russomanno e accoliti, i reali padroni delle indagini. Calabresi era a loro gerarchicamente e psicologicamente subalterno; è stato forse indotto ad assumersi oneri non suoi?
Attaccato da sinistra, in particolare da Lotta continua, il commissario verrà rubricato in comodo capro espiatorio proprio da questi colleghi romani, dal questore milanese Marcello Guida e dal capo dell’ufficio politico della questura Antonino Allegra. E stando alla “fonte Dario” (l’informatore della Divisione affari riservati Luciano Menegatti, un ex dirigente sindacale di Ferrara espulso dal Pci), ormai «il Calabresi aveva con Allegra e Guida rapporti tesissimi, praticamente li ricattava».
Su che verte questo ricatto? Sulla matrice fascista degli attentati, risaputa dai questurini? La verità sulla morte di Pinelli? Come si è visto, il commissario sta indagando su un rilevante traffico internazionale d’armi ed esplosivi tra un circolo neonazista di Monaco in Germania e gli Ustaša croati, armamenti che passano per un centro di smistamento presso Trieste. E forse il commissario ha intuito ciò che unisce il traffico d’armi ai fascisti, agli apparati dello Stato e ai Servizi segreti americani.

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