di Gabriella Piccinni
La storia degli oggetti e degli spazi di vita è tutt’altro che banale. Lo sanno bene gli urbanisti, gli architetti, gli arredatori, i designers e anche gli amministratori pubblici e tutti coloro cui è affidata la cura dell’arredo urbano e il rispetto delle norme per l’occupazione di suolo pubblico. Anche una semplice panchina, una balaustra, un percorso diverso, una tettoia, un tavolino, una pedana, una loggia, un lampione, una fontana possano fare la differenza, determinando alla fine anche il livello della qualità della vita dei cittadini.
In tempi di pandemia è venuto alla ribalta, o forse semplicemente tornato di attualità, il tema dell’occupazione delle strade delle città da parte delle attività economiche più varie. Hanno contribuito a cambiare le cose il rinnovato bisogno di socialità della gente in crisi di astinenza e la ricerca di nuovi spazi all’aperto per favorire il rilancio delle attività di ristorazione.
Da un capo all’altro d’Italia si levano e si contrappongono le voci di chi chiede che i vincoli relativi all’occupazione di suolo pubblico rimangano meno stringenti anche dopo la fine dell’emergenza e quelle di chi è invece allarmato proprio perché le nostre belle città d’arte rischiano di trasformarsi in un ristorante continuo, con soluzioni che non sembrano al momento all’altezza di quel passato, anche esteticamente parlando. Contribuiscono ad accrescere la sensazione di affollamento le file di persone che si determinano all’esterno di alcuni negozi o servizi pubblici, ove non esista una sala di attesa adeguata al distanziamento richiesto per contrastare la diffusione del virus.
Naturalmente, andando indietro di neanche troppo tempo, le nostre città conservano memoria anche fotografica delle tante caffetterie all’aperto amate agli artisti tra Otto e Novecento, dei tanti calzolai che nell’Italia anteguerra sedevano al deschetto in strada per buona parte della giornata, dei giochi di bambini disegnati per terra con il gessetto e delle partitelle a pallone nei sagrarti delle chiese e nelle piazze, e in molti ci ricordiamo bene di quando sedersi a terra o sulle scale di una chiesa con un panino non era considerato un attentato al decoro urbano. Ci chiediamo allora perché avvertiamo questo modo di vita molto proiettato all’aperto tanto lontano dal nostro sentire, e non sappiamo bene se avevamo ragione ieri l’altro, se l’avevamo ieri, se l’abbiamo oggi quando sembra che di nuovo tutto si ribalti. Il problema è grande e non può trovare spazio adeguato nelle poche righe di questa rubrica che non è nata per dare risposte ma solo per cercare in un passato più lontano qualche spunto di riflessione sul presente.
La città medievale italiana era una sorta di una grande bottega, dove anche chi lavorava all’interno proiettava la sua attività nello spazio esterno, vivendo in osmosi con la strada. L’affaccio della bottega era quasi sempre sbarrato da un banco di legno sporgente sul suolo pubblico, talvolta diviso in due parti per consentire l’accesso. Lavorava su una sedia all’aperto il sarto, dove la luce naturale aiutava il suo lavoro minuto e faceva risparmiare le candele; occupavano suolo pubblico il deschetto del calzolaio che fungeva anche da mostra dei prodotti finiti e il banco di vendita del commerciante di stoffe o del pizzicagnolo che intercettavano meglio i clienti. Ne abbiamo molte testimonianze iconografiche dal Due al Quattrocento.
Eppure già allora questa vita in strada comportava problemi e provocava tensioni. C’erano cittadini che protestavano. Chi era contro si appellava alle esigenze del decoro e chiedeva almeno che le attività più fastidiose o meno “onorevoli” fossero allontanate dalle zone centrali. Chi era a favore protestava contro le proteste, rivendicando le necessità dell’artigiano o del commerciante, cioè il primato dell’economia.
Prestissimo si cominciò a dettare regole, cercando un punto mediano tra gli interessi in campo. Gli statuti comunali del XIII e XIV secolo regolamentarono ovunque la sporgenza massima dei banchi sulla strada, cercando di contenerla, prevedendo controlli e fissando multe per i contravventori. In molti casi le voci di protesta di cittadini per i disagi causati alla circolazione delle persone e delle cavalcature furono ascoltate e si spostarono più in periferia quelle attività che provocavano ingombro eccessivo come, ad esempio, gli artigiani che facevano i basti per gli animali.
Il tema, ieri come oggi, mi pare quello di trovare una salomonica misura tra l’uso e l’abuso, tra le esigenze di una bella quotidianità di chi vive nelle città e quelli dell’economia. Si tratta di proteggere il decoro urbano con quella cosa che è molto difficile da definire in un regolamento ma per fortuna ancora piuttosto presente nella coscienza dei cittadini, e che si chiama misura e buon gusto. Perché il segreto, se vogliamo semplificare, sta nella quantità dei tavolini e degli ombrelloni concessi non meno che nella qualità degli elementi di arredo e nella loro posizione rispetto alle strade, alle piazze e ai monumenti la cui vista non può essere sottratta ai molti per favorire il godimento dei pochi.