di Rock Reynolds
“Mèga biblìon, mèga kakòn” recita spesso l’amico Luca Crovi, un’autorità per quanto attiene alla letteratura noir italiana e pure a quella internazionale. La frase attribuita al poeta e bibliofilo greco di età ellenistica Callimaco, “grande libro, grande male”, riassume la tendenza del tempo a rigettare opere epiche di grande lunghezza in favore di componimenti brevi affrontati dall’autore con maggior cura e raffinatezza.
Naturalmente, la frase in greco non suona altrettanto elegante a un orecchio poco incline a quella lingua, ma la portata del senso di tale slogan regge.
E regge pure il contrario, ovviamente: non è la lunghezza a rendere appetibile un testo. Omicidio al Port Helm (Nuova Editrice Berti, traduzione di Cristina Colla e Cecilia Mutti, pagg 80, euro 12) di Edgar Wallace si legge in un battibaleno e ha la forza non comunissima di spingerti a sfogliare le pagine rapidamente e la capacità altrettanto rara di scavare un solco nella tua memoria.
Edgar Wallace (1875-1932) ha una dimensione leggendaria che solo pochi maestri del genere possono vantare. Il suo nome è nell’Olimpo dei grandi giallisti britannici – vere autorità dell’intero panorama internazionale del noir – accanto a figure come Arthur Conan Doyle e Agatha Christie.
Serbo un ricordo vivido della paura che il suo La porta dalle sette chiavi seppe incutere nella mia immaginazione di adolescente con quella sua storia noir dalle atmosfere gotiche, quasi horror. Omicidio al Port Helm, invece, pesca piuttosto nel serbatoio più ironico di Wallace, la cui verve comica ha sempre trovato posto accanto alle tematiche più fosche, in gran voga nei primi decenni del Novecento. Il Port Helm è una locanda isolata su una scogliera a picco sulle coste selvagge del Kent. Di per sé, l’ambientazione basterebbe a creare i presupposti per una narrazione noir da far sudare i palmi delle mani. Wallace, però, partendo dal ritrovamento ai piedi del dirupo del cadavere di un ricco ed eccentrico viaggiatore, presumibilmente morto ancor prima di cadervi, considerato il coltello piantato nella schiena, sceglie di non calcare mai la mano e di raccontare con il sorriso le indagini condotte dal maldestro detective privato Carlyle Smith. In fondo, Carlyle Smith è stato incaricato di far scagionare Hilker, il gestore della locanda, fortemente indiziato del delitto e di fatto unico sospetto. Peccato che a Carlyle Smith le soluzioni semplici non siano mai piaciute.
In quello che è poco più di un racconto – inserito in una collana godibilissima di autori classici che dimostrano talvolta di saperci fare maggiormente sulla corta che sulla lunga distanza – Wallace stupisce per una prosa semplice quanto efficace. Non c’è la minima condiscendenza nelle parole dell’autore, assenza che spesso rischia di offuscare il giudizio della critica. Non a caso, il mitico Dizionario Bompiani degli Autori di Edgar Wallace sentenza che è “approssimativo e caotico nella scrittura” e che “sfrutta tutti gli stereotipi fissati dal romanzo d’appendice dell’Ottocento, ma iniettandovi una vulcanica energia d’invenzione, una prodigiosa vena fantastica, che spesso riescono a riscattare l’inverosimiglianza dei colpi di scena e la inconsistenza psicologica dei personaggi”. Tutto sommato, non un giudizio impietoso. Considerata la grande prolificità di Wallace, l’accostamento al romanzo d’appendice ci sta e come. In fondo, Wallace è perfettamente a cavallo tra Ottocento e Novecento quando inizia la sua avventura di romanziere e l’introspezione non è mai stata una preoccupazione primaria per chi pubblicava le proprie storie a puntate sui giornali, anche se non mancano eccezioni eclatanti.
Figlio illegittimo di un celebre attore di teatro e di una ballerina – frutto del peccato e pietra dello scandalo, dunque – Edgar Wallace fu cresciuto da una famiglia adottiva a cui rimase sempre molto legato e mosse i primi passi nella scrittura da cronista del Daily Mail durante la Guerra Boera, al seguito dell’esercito britannico e, in seguito, nel conflitto russo-giapponese. La vita militare non faceva per lui: molto meglio scrivere che sparare. Con un’esistenza in cui tragedie e successi si inseguirono, oltre ai quasi immancabili dissesti finanziari – rovescio in cui sembra essere in buona compagnia, accanto a figure come Mark Twain, Fëdor Dostoevskij e Honoré de Balzac, per citarne alcuni – Edgar Wallace riuscì a mantenere una verve comica invidiabile, scrivendo pure commedie teatrali. Ma il giallo classico inglese d’atmosfera vittoriana resta il suo fiore all’occhiello persino nella fortunata serie di Mr Reader, un impiegato londinese con il pallino delle indagini e la capacità rara di far sorridere di fronte al tragico. Ne è pure stata tratta una simpatica serie di telefilm in bianco e nero.
Insomma, a volte optare per un testo breve, snello, scorrevole può non essere una scelta da scartare. Nel caso della collana “Le Matite del Lama” della Nuova Editrice Berti di cui Omicidio al Port Helm fa parte, il salto nel vuoto lo si può fare a ragion veduta, ben sapendo che il paracadute della qualità e dell’oculatezza della scelta editoriale non consentirà cadute dolorose.
Avrete notato che le traduttrici di questo libretto sono due. La domanda potrebbe sorgere spontanea: perché, considerata la brevità del testo? Perché in calce al racconto c’è un interessante saggio dello stesso Wallace intitolato “Sui criminali”, una sorta di Dei delitti e delle pene in chiave britannica. Per la verità, più pene che delitti. Wallace, da buon britannico a cavallo fra Ottocento e Novecento, ha una visione alquanto dogmatica della questione. “La sola cosa che servirebbe per dimezzare il numero dei detenuti… sarebbe introdurre misure più severe durante la detenzione… basterebbe un solo mese del trattamento che ho ricevuto nella prigione militare di Aldershot per rimettere in riga il più recidivo dei delinquenti.” E, da buon britannico di stampo coloniale, non ha parole tenere per l’antropologia criminale di scuola italica. “Non esistono praticamente libri sui criminali… Solo Lombroso ne ha scritto, facendo un certo scalpore e… la scuola italiana di antropologi che gli è succeduta ha dedicato i propri studi a ingannevoli quanto insensate tabelle… Forse potrà anche essere interessante sapere che gli assassini hanno spesso il volto asimmetrico, ma d’altra parte vale anche per molti innocenti…” Non mancano, però, in Wallace riflessioni più moderne sulla condizione dei carcerati e il valore educativo o diseducativo di una pena detentiva. “Il delinquente occasionale, soprattutto se giovane, subirà facilmente il fascino dei criminali più esperti. Se anche entra in prigione vergognandosi… della propria condotta… una volta lì… cercherà delle giustificazioni per il crimine commesso.” In fondo, Wallace sostiene di non aver “mai conosciuto un criminale che non fosse un bugiardo patologico”, che “il primo aspetto della moralità che tende ad atrofizzarsi nei criminali incalliti è la capacità di essere sinceri” e che “un uomo innocente che mente per il gusto di mentire è anche capace di infrangere le leggi e presto o tardi finirà per farlo”.
Dicevo di grandi autori, veri classici della grande letteratura internazionale, che cimentandosi con la forma racconto mostrano di quale sostanza divina sia fatta loro scrittura. Qualcuno lo riterrà un anatema, ma preferisco enormemente il Francis Scott Fitzgerald dei racconti brevi a quello della forma romanzo. Alla tua età è un gioiellino che la collana “Le Matite del Lama” ci fa riscoprire. E i nomi che fanno compagnia a lui e a Edgar Wallace sono il gotha della narrativa internazionale: Jules Verne, Charles Dickens, Virginia Woolf, Sinclair Lewis, George Orwell, tanto per citarne alcuni.