di Gabriella Piccinni
Esistono i poveri, i mendicanti, i baraccati, gli immigrati in stato di bisogno, quelli che vivono ‘al di sotto’ di tutti, nell’area del ‘non lavoro’, che sopravvivono grazie a espedienti o all’accattonaggio, guardati con sospetto e riprovazione e a volte repressi e cacciati. E poi ci sono i lavoratori poveri, ossia coloro che, pur avendo un’occupazione, sono ogni mese a rischio di povertà e di esclusione sociale perché il loro reddito è insufficiente a tutelarli. La sociologia odierna li chiama working poors, poveri laboriosi.
Nell’autunno del 2019, dunque prima che sconvolgesse le nostre vite una pandemia i cui effetti sull’occupazione e sui livelli di vita non valutiamo ancora in pieno, «Il Sole 24 ore» usciva con un pezzo di Luca Tremolada intitolato In Italia il 12% dei lavoratori è a rischio povertà̀. I dati, naturalmente, li forniva l’Istat che già fotografava un Paese dominato da un decennio da incertezza sul lavoro, scarsa crescita dei salari reali, impossibilità di risparmiare. La crisi del welfare system europeo ha aggravato e accompagnato questo affacciarsi di “società dell’esclusione” che a mano a mano e di nuovo ha espulso gruppi sociali sempre più ampi dalla piena cittadinanza nel mondo, senza che s’intraveda all’orizzonte alcuna boccata d’ossigeno, qualcosa in grado di prenderne il posto, né sul piano delle pratiche né su quello dell’elaborazione concettuale.
Anche nelle città medievali, soprattutto nell’età della grande espansione dell’ economia urbana, comparvero, vicino ai “poveri strutturali” (cioè persone nate già povere e destinate a rimanere tali), i “poveri congiunturali” (cioè persone che nel corso della vita potevano sperimentare periodi più o meno lunghi di indigenza). Gli statuti delle corporazioni, che comparvero nel XIII secolo, iniziarono a proteggere gli associati caduti in povertà per malattia: così facevano i fabbri di Modena (1244), i formaggiai e lardaroli (1242) e i falegnami (1248) di Bologna, i giubbattieri (1290), gli stovigliai (1301) e i tagliapietra (1307) di Venezia e molti altri.
Le mura urbane accoglievano insomma molta gente che aveva un lavoro, che magari aveva anche un modesto alloggio, ma che tuttavia mancava del necessario per vivere con le sue sole risorse, o che era sempre a rischio di cadere in povertà nei momenti peggiori della propria vita, fino a trovarsi a tendere la mano, arrivando cioè alla mendicità, perché già in anni normali viveva vicino alla soglia dell’indigenza e non accantonava riserve che la ponessero al riparo dall’aumento dei componenti della famiglia, dalle malattie, dalle carestie o dalla disoccupazione. Per gli artigiani di bottega, d’altra parte, le congiunture sfavorevoli potevano significare la chiusura dell’azienda e la necessità di adattarsi a lavorare in qualità̀ di salariati: come scriveva Giovanni Antonio da Faie, un lunigianese del Quattrocento che ci ha lasciato una sua autobiografia, «molti n’ò veduti deli spesiali (speziali) che sono stati maestri e poy sono tornati famiglij». Un declassamento, questo, vissuto con ansia e con sofferenza. Certo l’impoverimento poteva essere un’esperienza relativa e temporanea nella vita del singolo ma questa fasi non dovrebbero essere mai così gravi quando una economia ‘tira’. E invece esisteva un’indigenza lavoratrice o, più precisamente, una indigenza prodotta da e nel mondo lavoro da sistemi economici in crescita.
La categoria sociale dei declassati e degli impoveriti, di coloro che perdevano il lavoro o che ne ottenevano uno di livello più basso, non smise mai di crescere in aree di economia avanzata, confondendosi anche con quella dei pauperes verecundi, i cosiddetti poveri vergognosi (perché non avrebbero mai mendicato mostrando il loro bisogno). Nell’avanzatissima Lombardia, ad esempio, il termine è attestato nel 1260. Ma subito le tracce si moltiplicano, e dalla metà del XIII secolo compaiono istituti nati appositamente per occuparsi di costoro, soprattutto attraverso distribuzioni di pane.
Certo è che poveri, lavoratori e non, con i loro vari gradini di vulnerabilità, occuparono un ampio spazio nella società dell’espansione vicino ai più ricchi, ai più potenti e tutelati, e agli arricchiti. Addirittura, mentre nelle città che allargavano le loro mura e cresceva al loro interno il numero delle persone in difficoltà, anche la polemica sulla povertà evangelica “infuriava riversandosi dalle aule universitarie sulle piazze” e la contrapposizione tra ricchezza e povertà diveniva un tema martellante e centrale anche nel sentimento comune. Così i documenti rilanciano continuamente e per secoli la distinzione tra ricchi e poveri, anzi esse sembrano propense a designare con queste due parole tutte le opposizioni sociali brutali.
La storia, mostrandoci che le economie più avanzate del passato hanno prodotto un numero maggiore di lavoratori poveri, ci invita dunque a vigilare. Perché, se davvero l’economia italiana sta riprendendo ‘a tirare’, come sembra e come speriamo che sia, non è detto che automaticamente tirerà tutti allo stesso modo nel modo del lavoro ben retribuito.