di Rock Reynolds
Troppo spesso mi capita di imbattermi in chiacchiere di imbarazzante superficialità sulla scarsa durezza delle pene e sulla loro inadeguatezza ai crimini per i quali vengono comminate. In questo periodo difficile in cui non mancano le voci di chi accusa di illiberalità il sistema per via di Green Pass eccetera, non altrettanta enfasi viene posta sull’annoso problema del sovraffollamento degli istituti di pena italiani e delle ripetute violazioni dei diritti dei detenuti. Ci si scorda dello scopo della detenzione, sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È una questione a lungo dibattuta e mai del tutto affrontata. Oggi più che mai si avverte la necessità di farlo.
Eppure, il concetto stesso di prigione è da sempre materia intrigante per la scrittura, a testimonianza dell’enormità della privazione della libertà, seppur nei confini normativi di uno stato democratico. Ne ha scritto il fior fiore di romanzieri e poeti, ambientando in più di un’occasione le proprie storie e liriche in carceri o colonie penali ubicate su un’isola, metafora somma dell’isolamento dell’individuo o, addirittura, del suo confinamento in un luogo in cui gli risulti praticamente impossibile lordare il biancore di una società che cerca di nascondere il marcio che è in lei sotto lo zerbino del perbenismo. Mi vengono subito in mente romanzi disparati come Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas e Papillon di Henri Charrière. Ben venga, dunque, un interessantissimo saggio come Isole Carcere (Edizioni GruppoAbele, pagg 240, euro 23) di Valerio Calzolaio, un raro studio analitico del concetto stesso di “isola-carcere”, partendo dalla definizione non così scontata di isola e dalla descrizione di come nel corso della storia i sapiens abbiano deciso di limitare la libertà di altri sapiens, talvolta sottoponendoli a trattamenti degradanti e altre volte semplicemente togliendoseli di torno in quanto soggetti socialmente pericolosi oppure politicamente nocivi. Le basi di partenza di questo libro, che si compone di tre parti distinte, sono scientifiche: biologiche e antropologiche. La prima, appunto, è un’analisi biostorica del concetto di “isola-carcere”, la seconda descrive invece le principali isole che nel corso della storia più o meno recente hanno ospitato istituti di pena e la terza sciorina dati molto interessanti con rigore matematico.
Ora che l’isola di Procida (con il suo carcere) è stata nominata “capitale italiana della cultura per il 2022”, è ancor più interessante riappropriarci della storia delle isole-carcere, per non scordarci di chi tuttora vi è ingiustamente confinato – chi si ricorda più del leader curdo Apo Öchalan, condannato con un processo-farsa a un’ingiusta e ancor più inumana detenzione sull’isola di Imrali, nel Mar di Marmara? – e dell’origine di certe espressioni, come quella di “mandare qualcuno ‘alla Cayenna’”, un modo per “indicare l’esilio in luoghi lontani di disperata detenzione, di isole carcere, appunto” o, ancora, della “logica… ancora attuale… di Guantanamo (detenzione amministrativa senza capo d’imputazione), enclave isolata interna a un’isola distante”.
A Valerio Calzolaio, che non a caso in passato ha ricoperto anche il ruolo di sottosegretario all’Ambiente, il tema dei diritti del carcerato stanno particolarmente a cuore e ce lo ha ribadito in una bella chiacchierata.
Perché un libro come questo?
C’è una ragione individuale, oltre che politica e istituzionale nel mio interesse per i diritti dei detenuti. Non a caso, ho fatto da osservatore internazionale nel corso della transizione democratica del Sudafrica e, andando varie volte in quel paese, ho avuto occasione di visitare il carcere di Robben Island in cui era stato detenuto Nelson Mandela. E da sottosegretario, ho contribuito a far chiudere il carcere dell’Asinara e a trasformarlo in parco naturale. Ma ancor più determinante è stato il suggerimento del mio amico fraterno Pietro Greco, di Ischia, che nel frattempo è venuto a mancare e a cui è dedicato questo libro. Dal dicembre del 2020 al novembre del 2021 ho svolto un lungo e meticoloso lavoro di ricerca per dare sistematicità a una materia che non ne aveva. Di fatto, di libri come il mio non se ne trovano in circolazione, perché non ci sono studi organici di come certi esseri umani hanno deputato le isole a luoghi in cui confinare altri esseri umani. I testi esistenti riguardano periodi storici delimitati, per esempio sulla confinatio o relegatio ad insulam dei romani. Nessuno ha analizzato il fatto che quelle isole abbiano continuato a funzionare come carceri anche dopo i romani.
La prima parte del suo libro ha un piglio quasi accademico. Si ha la sensazione che lei voglia dare scientificità al concetto stesso di isolamento carcerario…
Più che accademico, il tono è adeguato alle scienze necessarie per capire cosa sono le isole, ecosistemi non esclusivamente umani ma in cui gli esseri umani hanno capito di poter mandare e confinare dei loro simili per punizione. In fondo, nonostante io abbia studiato scienze politiche, ho sempre avuto grande passione per la scienza, soprattutto per la biologia. È stata mia premura, dunque, dare un fondamento scientifico a ciò che era mia intenzione scrivere ancor prima di parlare nello specifico del concetto di detenzione. Non a caso, due dei miei eroi sono da sempre Antonio Gramsci e Charles Darwin.
La collocazione di un carcere su un’isola può rendere più gradevole il soggiorno forzato invece che acuire il senso di isolamento? In fondo, il carcere di Opera, per quanto a due passi da Milano, non pare più ridente di quello dell’Asinara…
È un cruccio cruciale! L’isola può essere un carcere persino senza esservi detenuti. Talvolta, anche le persone che vivono sulle isole si considerano detenuti pure non essendoli, perché si sa che vivere su un’isola comporta privazioni pesanti. Il senso di isolamento, marginalità, distanza può risultare simile – si badi bene, simile, perché il carcere è un’altra cosa – a quello che si prova quando si è privati della libertà. D’altro canto, il carcere è una privazione della libertà che può determinare dinamiche sociali e fisiche simili, che si trovi su un’isola o meno. Essere incarcerati su un’isola può determinare un doppio isolamento. Ma è pure vero che un carcere sulla terraferma può essere altrettanto terribile. I carceri aperti in certi casi possono essere più rispettosi dell’articolo 27 della Costituzione, ma un carcere resta pur sempre un carcere e persino un carcere come quello sull’isola della Gorgona resta tale. È vero, però, che in determinate fasi della storia l’invio di un detenuto a un istituto penale su un’isola era considerato una promozione e solitamente si trattava di detenuti che avevano mostrato buona condotta. E rientra pure nel nostro ordinamento perché su un’isola solitamente non sussiste il rischio di una fuga e la presenza di detenuti più “ravveduti” rende migliori le condizioni di vita. Ma è tutto relativo e il mio libro lo sottolinea, sollecitando riflessioni profonde: la deportatio e la relegatio dei romani talvolta avveniva anche in luoghi non circoscritti, come per esempio la Corsica. Anche Manhattan è un’isola, ma contiene tanti carceri. Insomma, cerco di fare un po’ di ordine. Per esempio, da noi in pochi sanno che Nocra è un carcere italiano terribile nel Mar Rosso meridionale, costruito in pieno colonialismo. Tendiamo ad avere una memoria un po’ selettiva.
Esistono o sono esistiti esempi virtuosi di carceri su isole in grado di restituire e non togliere dignità al detenuto?
Esistono. Per esempio, Gorgona e Suomenlinna (al largo di Helsinki) li sono. È ovvio che, a mio modo di vedere, anche il concetto stesso di carcere va ripensato, ma servono tempi più lunghi. Però, quei due esempi virtuosi aiutano a restituire dignità ai detenuti. In passato, succedeva meno. In epoca romana, gli imperatori confinavano le mogli sulle isole per togliersele di torno. Era un esempio di maschilismo e società patriarcale.
Cosa rende l’idea della detenzione su un’isola così affascinante sul piano letterario-cinematografico?
Be’, credo che il contesto sia perfetto. Basti pensare all’isola di Hashima, in Giappone, un posto terribile utilizzato per il suo aspetto inquietante nel film Skyfall, della saga di 007. Il carcere era ancora in uso durante la Seconda Guerra, quando ospitò prigionieri politici e di guerra privati di ogni diritto e costretti a lavorare come schiavi nella miniera di carbone al posto dei minatori giapponesi, di per sé schiavizzati, nel frattempo chiamati alle armi.
Quante delle isole che prende in considerazione nella seconda parte del libro ha avuto modo di visitare?
A Hashima non sono stato. Alcatraz l’ho vista dall’esterno e non so nemmeno se, al tempo, fosse visitabile. Alcune di queste isole le ho viste, altre no. Ma l’obbiettivo non era certo quello di creare una guida turistica, anche se alcuni di questi posti sono meravigliosi sul piano naturalistico (come Gorgona) oppure dal punto di vista storico e umano. Sono stato tante volte all’Asinara. Ma, se dovessi consigliare un’isola in particolare, suggerirei di visitare Procida, magari proprio nel 2022. La scelta di farne la capitale italiana della cultura la trovo straordinaria. Il carcere da sempre è la linfa principale dell’economia isolana e l’isola è meravigliosa anche per le sue valenze narrative, non necessariamente legate al carcere. Mi riferisco a Massimo Troisi o a Elsa Morante.
La scelta di rinchiudere una persona non solo tra due mura ma pure tra due mura costruite su un’isola ha più a che fare con una ragione pratica o filosofica?
Entrambe le cose: per fare male. Per questo dico che è una crudeltà. Crudeltà significa far male sapendo di far male. Perché la dinamica pratica della distanza fa sì che sia quasi intollerabile umanamente accettarlo. Naturalmente, anche la crudeltà si declina su più livelli. I romani, per esempio, non inviavano i carcerati su isole senz’acqua. Ma nella storia di casi di persone condannate a restare su isole senz’acqua e, dunque, a morte certa se ne sono registrati.
Come si sposa l’idea di inviare un detenuto su un’isola con quella prevista dalla nostra Costituzione di rieducare la persona che ha infranto la legge?
In teoria, oggi non si dovrebbe sposare più. Anche se qualche distinguo va fatto. Nisida, per esempio, è uno dei pochi carceri minorili e le attività che vi si svolgono sono encomiabili. Nisida è un ottimo posto per i minori provenienti da ambienti particolarmente difficili, come quelli dell’area napoletana. Inoltre, Nisida non è quasi più un’isola, essendo collegata alla terraferma da un istmo. Tecnicamente, però, un’isola resta. Un po’ come l’Île de la Cité a Parigi, un’isola fluviale.