di Rock Reynolds
Gli anni tra il 1776 e il 1804 segnarono un momento di non ritorno nella storia moderna, con i primi sussulti rivoluzionari che avrebbero sconvolto per sempre il mondo, in un travolgente viaggio di andata e ritorno tra America ed Europa. Furono, infatti, le colonie britanniche dei futuri Stati Uniti d’America a ribellarsi per prime al giogo della madrepatria, segnando la strada che nel giro di poco più di un decennio sarebbe stata percorsa senza indugio dalla Francia e, poco dopo, persino da Haiti, che sarebbe così stata la prima repubblica di schiavi di colore liberi.
Repubbliche Atlantiche – Una storia globale delle pratiche rivoluzionarie, 1776-1804 (Raffaello Cortina Editore, pagg 216, euro 19) del professor Antonino De Francesco, ordinario di Storia Moderna all’Università di Milano e profondo conoscitore dell’epoca rivoluzionaria e napoleonica, analizza quelle tre diverse rivoluzioni senza soluzione di continuità per evidenziarne i tratti comuni, quelli che la rivoluzione francese trasse dalla sollevazione delle colonie americane e che la rivoluzione degli schiavi haitiani apprese dall’esperienza francese. Il processo rivoluzionario si pone come obbiettivo la democratizzazione della vita sociale, senza riuscire sempre a garantire un pari sviluppo della libertà. Ma gli sforzi in tal senso sono innegabili. La nascita degli Stati Uniti d’America, per esempio, segna un “nesso fortissimo tra popolo sovrano e rappresentanti” che traspariva “dalla scelta degli organi esecutivi, nominati direttamente dal legislativo… anche se non mancavano carte che prevedevano l’elezione diretta… In ogni caso, la figura del governatore usciva nettamente indebolita… a tutto vantaggio delle camere, che divenivano l’elemento centrale nella vita civile dei nuovi Stati”.
Professor De Francesco, furono davvero le “nequizie del sovrano” britannico, ovvero le sue mancanze a far nascere la prima scintilla di una deflagrazione che rimbalzò sul lato opposto dell’Atlantico?
Non vi è dubbio che l’esempio del 1776 sia stato decisivo per la successiva rivoluzione di Francia. La presa di distanze dei coloni dalla tradizione monarchica fu molto travagliata – lo dimostra la necessità di mettere per iscritto tutte le mancanze del re Giorgio III che li obbligavano in qualche modo a separarsi dalla madre patria – ma proprio per questo ebbe un forte impatto sulle menti migliori di Francia, che risposero non tanto sul terreno del repubblicanesimo, bensì su quello del superamento del sistema di potere dell’antico regime. In Francia, ancora negli anni immediatamente successivi al 1789, pressoché nessuno pensava alla repubblica, ma quasi tutti ritenevano che l’esempio americano suggerisse una via alla libertà sulla quale fare molto conto.
Cos’ha imparato la Francia dalla lezione americana?
Nella sostanza la vera lezione americana in terra di Francia è la piena affermazione del concetto di sovranità popolare. Nelle colonie che daranno vita agli Stati Uniti la sovranità passa dal re Giorgio III ai cittadini chiamati a farsi carico del loro destino collettivo; in Francia, pur non arrivando sulle prime a mettere in discussione la monarchia, il procedimento è lo stesso: il re si deve costituzionalizzare e la società – superata la barriera della divisione per ordini (clero, aristocrazia e terzo stato) – deve ricomporre una frattura plurisecolare, introdotta dall’invasione della Gallia romana da parte dei Franchi, tramite l’assunzione della sovranità e il suo concreto esercizio.
Nonostante la Francia si consideri la patria della rivoluzione moderna, non è stata la monarchica Gran Bretagna il primo grande stato nazionale a giustiziare un re? Cosa ci dice questo?
Che nella storia nulla è irreversibile e che non dovremmo leggere le grandi rivoluzioni di età moderna – di cui le guerre civili avviate nel 1640 proprio in Inghilterra sono solo l’esempio più clamoroso – come un lineare percorso di libertà. La circostanza che alla figura di Cromwell, lord protettore del Commonwealth, ossia di una repubblica inglese, tenesse presto dietro, nel 1660, la restaurazione della dinastia Stuart conferma come la forma istituzionale venisse già allora dopo il problema della rappresentanza. Non è un caso che l’Inghilterra tornata monarchica conoscesse poi, nel 1688, altra rivoluzione ancora, che trasforma il sovrano in un King in Parliament, dove l’esercizio concreto del potere monarchico passa attraverso la mediazione della Camera dei Comuni e dei Lord. È quello il passaggio che segna, in fin dei conti ancor oggi, l’identità politico-culturale del Regno Unito e la sua pretesa eccezionalità rispetto all’Europa continentale.
La vera mentalità rivoluzionaria era quella dei coloni, con la loro “scelta di abbandonare la madrepatria per navigare nel mare aperto dell’indipendenza”. Tale mentalità non era forse anche figlia di una scelta altrettanto rivoluzionaria, quella di abbandonare le poche certezze della madrepatria per attraversare l’Atlantico in vista di qualcosa che di certezze non ne aveva?
Certo, l’esperienza dell’emigrazione – vuoi di minoranze religiose che cercavano nel nuovo mondo una via al libero esercizio del loro culto, vuoi di disperati che altro non avevano – costituisce l’impronta profonda della società statunitense. Ma non dimentichiamo che alla scelta – certo coraggiosa – di cercare in un mondo inospitale condizioni di vita migliori si associava un quadro comunitario spesso più libero rispetto a quello dell’Europa del tempo (anche perché la madre patria si era a lungo limitata ad esercitare una sovranità formale sulle colonie d’oltre Atlantico). A questo sia aggiunga la nascita di un primo sentimento nazionale: nel corso della guerra dei Sette Anni, 1756-1763, condotta dai britannici contro i francesi del Canada e i nativi dell’Ovest loro alleati, i coloni diedero un contributo che ritenevano – a torto o a ragione – fondamentale e videro come un irriconoscente sopruso il giro di vite, soprattutto fiscale, imposto loro, dopo la vittoria, dal Parlamento di Londra. In breve: la rivoluzione nacque anche da un primo slancio nazionalistico dei coloni che ritennero di avere interessi ormai diversi da quelli della madre patria, pronta addirittura a riconoscere le ragioni dei coloni francesi e dei nativi, purché accettassero il nuovo dominio britannico in tutta l’America settentrionale.
Parlando di Santo Domingo, dice che la notizia di quanto stava avvenendo sull’isola scosse le coscienze in Francia. Quanto peso ebbe sugli eventi successivi?
La rivolta degli schiavi neri a Santo Domingo – a lungo trascurata in storiografia – fu decisiva per accelerare in chiave democratica il processo rivoluzionario in Francia sia sotto la forma della contestazione della monarchia – da qui la nascita della Repubblica nel settembre 1792 – sia sotto quella del salto triplo in materia di diritti civili: l’abolizione della schiavitù in tutti i possedimenti francesi, votato dalla Convenzione nel febbraio 1794, costituisce un passaggio di portata colossale, che difficilmente senza la sfida delle vicende di Santo Domingo avrebbe potuto aver luogo.
Come si colloca la figura di Napoleone in un contesto rivoluzionario di cui rappresentava al tempo stesso la punta di diamante come pure l’idea di una restaurazione anomala?
Bonaparte è una figura di grande fascino, proprio perché molto contraddittoria: da un lato è un uomo per certi versi di mentalità tradizionale – agli inizi della rivoluzione tentato dal ritorno in Corsica per sostenere le ragioni di notabilato della famiglia, cui portò sempre una totale devozione – dall’altro è colui che meglio sa cogliere lo spirito dei tempi ed emergere come l’unica figura in grado di mettere d’accordo nel quadro di una linea di continuità con la tradizione rivoluzionaria: le tante famiglie politiche uscite dal 1789 che negli anni successivi si erano duramente contrapposte. Bonaparte è repubblicano e monarchico, radicale e moderato, autoritario e liberale, abolizionista e schiavista, a seconda delle circostanze volta a volta cangianti. Più che di un camaleontismo politico, si tratta però di una straordinaria capacità di leggere le situazioni e di piegarle a una sua precisa visione del primato di Francia nel quadro del conflitto – ritenuto decisivo per l’egemonia mondiale – con la Gran Bretagna.
Il secondo emendamento della Costituzione USA autorizza il popolo ad armarsi e a formare le famigerate milizie. Come si colloca una simile scelta nell’ambito della costituzione di un paese che si proponeva di essere una democrazia come non se ne erano mai viste e che rischia ancor oggi di essere una zavorra?
L’emendamento fa parte del Bill of Rights introdotto nel 1791 – alle origini insomma della repubblica statunitense – e riflette, nello spirito del tempo, l’idea del cittadino-soldato, pronto a entrare nella milizia locale per difendere la singola collettività da ogni minaccia. Insomma, a legittimare l’emendamento era il riferimento al buon cittadino pronto a morire per la propria comunità. Da allora la libertà americana non si è mai data senza la presenza del fucile: Frederick Jackson Turner, lo storico che agli inizi del Novecento avrebbe magnificato il mito politico tutto statunitense della frontiera, riteneva non a caso che la democrazia americana non nascesse dalle tredici colonie, bensì dalla spinta verso ovest di comunità di coloni sempre pronti ad alternare l’uso dell’aratro a quello del fucile. Per questa via, è chiaro che la zavorra di cui lei parla è difficile rimuovere: toccare l’emendamento significa mettere in discussione il mito politico attorno al quale si è costruita l’identità statunitense.