di Rock Reynolds
La sera che Joe Lansdale mi venne a prendere all’aeroporto di Houston per portarmi a casa sua, nel 2018, accadde una cosa inaspettata e vagamente inquietante persino per gli standard del Texas Orientale: una lince attraversò placidamente il vialetto di accesso alla sua proprietà, una radura in un bosco impenetrabile non tanto diverso da quelli in cui si svolgono molte delle scene madri dei romanzi che hanno reso popolare Joe R. Lansdale. Soprattutto in un paese come l’Italia, solo apparentemente distante anni luce da quelle lande. È Joe stesso a dirlo. “Tra voi italiani mi sento a casa come in nessun altro posto al di fuori del Texas Orientale. La prima cosa che fate è abbracciare chi vi sta davanti. Questo mi mette immediatamente a mio agio.”
Joe non si fa problemi ad ammettere l’unica regola che si sia mai data. “Un bravo autore dovrebbe sempre scrivere di cose e luoghi che conosce. Io scrivo del Texas Orientale, che finisce per essere un personaggio a se stante, una sorta di regista assoluto delle miserie e delle bellezze che vi si incontrano. Ogni tanto, mi viene la tentazione di ambientare una storia altrove, ma poi finisco per tornare al mio luogo del cuore. Penso che, se scrivessi una storia di fantascienza e i miei personaggi andassero su Marte, alla fine vi troverebbero un altro Texas Orientale.”
Fortuna che la sua terra – Joe è cresciuto nella cittadina petrolifera di Gladewater, a una cinquantina di chilometri da Nacogdoches, dove risiede da molti anni – l’ho vista coi miei occhi e che ho potuto calpestarla con i miei piedi, perché oggi posso confermarvi che è esattamente quella che lui descrive in ogni suo libro.
Moon Lake (Einaudi Editore, traduzione di Luca Briasco, pagg 350, euro 18,50) non fa eccezione. Danny, un ragazzino alle soglie dell’adolescenza, attraversa un ponte sul Moon Lake a bordo di una macchina guidata dal padre che, inspiegabilmente, si lancia con l’automobile oltre il parapetto. Solo un colpo di fortuna e le forti braccia di una ragazzina di colore che stava pescando con il padre salvano Danny da una morte sicura. Non avendo parenti stretti, per qualche tempo il ragazzo viene affidato a quella famiglia e per la prima volta in vita sua si sente davvero a casa, lontano dai litigi perenni dei suoi genitori. La sua permanenza in quella famiglia non durerà tanto, perché negli Cinquanta che dei neri crescano un bambino bianco è assolutamente impensabile. A distanza di anni, però, l’automobile del padre viene ripescata dalle acque del Moon Lake e, con essa, riaffiorano ricordi e indizi che aprono scenari nuovi. Danny tornerà sul luogo della tragedia per scoprire qualcosa in più.
Ho incontrato Joe per la prima volta dopo la pandemia nella splendida cornice medievale del Salone dell’Arengo, nel cuore di Novara, e gli ho fatto qualche domanda.
Con Moon Lake, hai ribaltato uno stereotipo, quello del nero che viene aiutato dal bianco. Come mai?
Moon Lake è essenzialmente un libro sulla nostalgia, sull’idea che i tempi andati siano i bei tempi. Erano davvero bei tempi? Se eri nero, non ti era consentito abbeverarti alla stessa fontanella dei bianchi, utilizzare le stesse toilette dei bianchi, mangiare nei ristoranti per bianchi. Talvolta, addirittura, non potevi nemmeno attraversare determinate città dopo il tramonto. Erano davvero bei tempi? Se eri gay, rischiavi di essere linciato. Se eri donna, era scontato che te ne restassi a casa a fare figli e a cucinare, di per sé non una brutta cosa, ma di certo un forte limite se diventava un’imposizione sociale. Insomma, ho voluto mettere un po’ d’ordine nel concetto dei cosiddetti bei tempi. Certo, quando si è giovani ci sono tante cose piacevoli che in seguito tornano alla memoria, ma ci sembrano bei tempi proprio perché eravamo giovani e certi aspetti della vita ci sfuggivano o, comunque, non eravamo noi a dover farcene carico.
Le sfumature grigie dei tempi andati sono una costante dei tuoi libri. Il razzismo è quasi un protagonista strisciante delle tue storie. Serbi ricordi così duri al riguardo?
Da ragazzino non me ne accorgevo nemmeno. Ero giovane ed ero nato in quell’ambiente. Il razzismo era parte della quotidianità e non gli davo particolarmente peso. Finché, un giorno, mentre mia madre comprava i biglietti per il cinema, mi accorsi che la gente di colore non era in fila dietro di noi, bensì entrava nel cinematografo da un ingresso laterale, una sorta di scala esterna. Per la prima volta, notai qualcosa di anomalo e chiesi a mia madre una spiegazione. Ricordo le sue testuali parole. “Figliolo, non sono in grado di spiegartelo. Sappi solo che non è giusto e che le cose non andranno sempre così.” Non fu abbastanza per avere una precoce illuminazione, ma, persino per un bambino bianco di una famiglia povera come la mia, fu la prima di una serie di rivelazioni che mi fecero aprire gli occhi sul mondo. La piaga del razzismo non è stata debellata del tutto e forse mai la sarà, ma negare che siano stati fatti enormi passi avanti sarebbe indice di cecità.
Qual è stata la scintilla da cui è nato Moon Lake?
Un amico mi raccontò di essere andato un giorno in barca con suo padre su un laghetto. A un certo punto, il suo vecchio era sceso dalla barca e si era messo a camminare sull’acqua. Il mio amico aveva pensato, “Mio padre ha avuto un’illuminazione mistica oppure c’è un trucco e sotto l’acqua deve esserci qualcosa”. Nessun miracolo, naturalmente. Sotto la superficie dell’acqua c’era un’intera cittadina sommersa dopo la costruzione di una diga. La società della diga aveva annunciato l’inizio dei lavori, di fatto costringendo la popolazione locale a trasferirsi altrove, versandole una somma risibile per il fastidio. Si dice che qualcuno non abbia accettato l’imposizione e sia rimasto nella propria casa, finendo per annegare. E si dice pure che la società in questione abbia messo tutto a tacere: in fondo, aveva avvertito la popolazione per tempo. L’idea che un’intera comunità venisse cancellata dalla storia fu uno stimolo interessantissimo.
Nelle tue storie, il Texas Orientale è il vero protagonista. Perché?
È la mia terra e lì ho radici profonde. Il mio Texas non è una landa semidesertica né una prateria riarsa dal sole. Non ci sono cactus. Il mio Texas assomiglia maggiormente alla confinante Louisiana: foreste impenetrabili, saliscendi verdi solcati da fiumi e acquitrini, animali feroci, insetti che pungono e serpenti velenosi. Insomma, più ombra che sole. Devo ricordarlo ai mei editori, che immancabilmente se ne scordano, presentandomi improponibili copertine con tanto di deserti, Stetson e cactus. Per giunta, cactus tipici dell’Arizona, non del Texas. Culturalmente e geograficamente, il mio Texas fa parte più del Sud che del West. E la differenza si sente. Il Sud, infatti, è stato colonizzato prima del West e, anche per via dell’isolamento che ha contraddistinto certe sue zone, ha sviluppato tradizioni durature. Ce n’è una, magari apparentemente banale, che mi piace ricordare, anche se oggi è meno in uso rispetto a un tempo. Quando andavi a casa di qualcuno, la prima cosa che ti veniva chiesta era, “Hai mangiato, figliolo?”. Se scuotevi la testa, potevi stare certo che il tuo stomaco si sarebbe riempito molto presto. Da questo punto di vista, mi sento decisamente a casa in Italia.
C’è chi dubita tuttora che il campionario di personaggi scombinati dei tuoi libri tu lo tragga dalla vita di tutti i giorni. Insomma, hai mai la sensazione che i lettori ti possano considerare un po’ troppo sopra le righe?
Per niente. Nel Texas Orientale, come in qualunque altro posto, c’è tanta brava gente e c’è pure gente che così brava non è. I miei libri si occupano principalmente di questa seconda categoria. D’altra parte, se prendi per esempio un autore di thriller di New York, ti accorgerai che, benché a New York vivano tantissime brave persone, i suoi libri sono popolati da figure non certo esemplari. Ogni giorno, incontro persone molto diverse fra loro e nella zona in cui vivo ce ne sono parecchie che vivono quasi ai margini della società, per scelta o per costrizione. Una decina d’anni fa, una troupe televisiva interessata a realizzare un documentario sul fiume Sabine, teatro di molte mie storie, venne a trovarmi a casa mia e il regista mi fece la tua stessa domanda. Gli dissi che i personaggi dei miei romanzi erano quelli della mia quotidianità e che, dunque, non mi ero inventato nulla. Scosse la testa, poco convinto. Allora, gli dissi di farsi un giretto sulle sponde del Sabine e di verificare di persona. Qualche giorno dopo, tornò a farmi visita e mi raccontò che un tizio aveva preso a fucilate la barca su cui la troupe stava risalendo il corso del fiume e che, una volta sbarcata, l’aveva inseguita col fucile spianato finché, dopo averla raggiunta, aveva detto, con sollievo, “Ah, tutto a posto! Pensavo che fosse mio fratello”.
Qualcuno dice che La sottile linea scura, uno dei suoi romanzi più popolari, sia un tributo a Il buio oltre la siepe di Harper Lee…
Chiunque decida di scrivere un romanzo ambientato nel Sud e avente come tematica primaria la piaga del razzismo, soprattutto se narrato attraverso gli occhi di un bambino, non può prescindere da quel libro. Ciò detto, credo di aver scritto una storia diversa, di averlo fatto in modo diverso e, di certo, il papà del mio personaggio principale non è perfetto e amabile quanto l’Atticus Finch di Harper Lee.
Quando torneranno i due beniamini del suo pubblico italiano, Hap e Leonard? E come reagirà Leonard, repubblicano e conservatore convinto, alla nuova ondata di rivendicazioni del movimento LGBT?
Torneranno. In realtà, negli USA è appena uscita una raccolta di racconti di Hap e Leonard che tra non molto dovrebbe vedere la luce anche in Italia. Quanto a Leonard, è gay, repubblicano, conservatore e non più giovanissimo. Insomma, è della vecchia guardia e alcune di quelle rivendicazioni e di quegli atteggiamenti della comunità omosessuale moderna lo lascerebbero perplesso, confuso. Il che non significa necessariamente che non sia solidale. Semplicemente, farebbe inizialmente più fatica a comprenderli.