Gaia Aprea è Corifea nell'Agamennone diretto da Davide Livermore

Tornare al Teatro Greco di Siracusa è come tornare nel ventre della mamma dell’attore.

Gaia Aprea è Corifea nell'Agamennone diretto da Davide Livermore
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11 Giugno 2022 - 13.35


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di Alessia de Antoniis

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Al Teatro Greco di Siracusa Gaia Aprea è Corifea nell’Agamennone diretto da Livermore, in quel teatro inaugurato nello stesso secolo in cui Eschilo vinse le Grandi Dionisie proprio con l’Orestea, l’unica trilogia dei tragici greci arrivata sino a noi nella sua interezza.

Agamennone di Eschilo, con la regia di Davide Livermore, apre così la nuova stagione di spettacoli classici al Teatro Greco di Siracusa, coproduzione tra l’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico e il Teatro Nazionale di Genova, e resterà in scena fino al 5 luglio.

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Ma com’è andare in scena tra quelle pietre che hanno assistito al debutto delle antiche rappresentazioni che ancora oggi noi facciamno rivivere?

Per un attore – racconta Gaia Aprea – è una delle più grandi emozioni in assoluto. Una volta che si fa Siracusa, si rimane drogati da Siracusa. È un tipo di teatro dove il rapporto fra l’attore e il pubblico è incredibile. Anche davanti a settemila persone, hai la sensazione di poter entrare in contatto con ciascuno di loro. È questa la magia del teatro greco, in particolare a Siracusa. Oltre al fatto che quelle stesse pietre hanno sentito gli antichi attori: Eschilo è sicuramente passato da qua, visto che è morto a Gela. È come se ci fosse un cordone ombelicale, nel teatro occidentale, che ci unisce tutti quanti quando torniamo qua. Tornare al teatro di Siracusa è come tornare nel ventre della mamma dell’attore.

Agamennone ambientato negli anni Trenta del secolo scorso, la reggia di Clitemnestra strasformata in una sorta di ospedale psichiatrico. La messa in scena di Davide Livermore è un tradimento?

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Tradimento non è il termine esatto. Non fosse altro perché ai tempi di Eschilo gli attori erano vestiti con abiti contemporanei, non d’epoca. Quindi, quale tradimento? Un’opera d’arte è tale quando parla agli esseri umani. L’importante è cogliere il senso profondo dell’opera. Livermore ha voluto ambientare l’Agamennone in una sorta di realtà non libera, sotto il dominio instaurato da Clitemnestra durante l’assenza del marito. Per creare questo clima, per renderlo più vicino agli spettatori, il regista ha optato per un accenno agli anni antecedenti la seconda guerra mondiale. Ma è solo un rimando. La filologia è rispettata nel momento in cui vengono rispettati i dettami all’interno della tragedia. Il rispetto sta nel cercare di ricostruire i rapporti interni e nel disvelare il messaggio che la tragedia nasconde. Molti si lamentano dell’uso dei microfoni. Innanzitutto, ora c’è un rumore di sottofondo, dovuto all’inquinamento acustico, che non c’era ai tempi dell’antica Grecia. Dobbiamo poi ricordare che l’attore greco indossava una maschera all’interno della quale c’era un megafono. Era il massimo della tecnologia disponibile a quei tempi. Quella tecnologia, rapportata ai tempi moderni, diventa un impianto di amplificazione. Quindi, cos’è più filologico? Cercare di ti costruire il tipo di emozione dei primi spettatori oppure andare alla ricerca di una verità passata che probabilmente neanche ci parlerebbe più?

Agamennone sacrifica sua figlia Ifigenia, Clitemnestra uccide Agamennone per vendicare la figlia. Il figlio, Oreste, uccide la madre Clitennestra per vendicare il padre. Se fosse un film di hollywood ambientato nella Sicilia mafiosa, sarebbe una sorta di “Il Padrino”. Far parlare la modernità che il teatro greco ha in sé, è un modo per renderlo popolare, perché non sia fruibile solo ad un pubblico elitario?

Il punto è proprio questo. La tragedia greca, secondo me, ha detto tutto. Con Shakespeare abbiamo una maggiore profondità del personaggio, grazie anche al monologo interiore, ma i grandi temi sono ampiamente sviluppati all’interno della tragedia greca. E ci riguardano da vicino. Molti ragazzi che vengono a teatro, e uno dei grandi meriti di Siracusa è quello di riuscire a portare migliaia di ragazzi per la prima volta a teatro, si meravigliano di come la tragedia parli di noi.

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Tentare di avvicinare la tragedia al pubblico è una missione meritoria. Io, ad esempio, sono Corifea, il capo del coro, che nella versione originale è composto dai vecchi Argivi. Essendo noi in un regime totalitario, veniamo messi a tacere come se fossimo dei vecchi reduci, consapevoli del regime instaurato da Clitemnestra. Siamo rinchiusi in una specie di ospizio. Io, Corifea, sono a capo di un gruppo di pseudo infermieri. Tutto questo per sottolineare una dimensione che nel testo esiste, e che attiene anche alla realtà attuale, come a qualsiasi regime totalitario dove apparentemente tutto si può dire, ma in realtà tutto è sotto controllo. Corifea è una sorta di kapò, detentrice del potere nei confronti dei suoi sottoposti, ma che subisce a sua volta il potere da parte dell’ordine costituito. È una figura ambivalente, che rappresenta, così come il coro in generale, la voce del popolo, la voce di chi non può parlare. È portatrice di un messaggio, ma si deve sottomettere al potere per ragioni di sopravvivenza. E quando, alla fine, andrò dai regnanti a dire loro che sono persone infime, verrò uccisa.

Livermore, per avvicinare la tragedia al pubblico di oggi, ha creato, con me e il coro costituito da infermieri e dottori, una figura di passaggio ben riconoscibile. Io sono ligia al dovere, ma si capisce che subisco, io per prima, le angherie di un regime totalitario.

Nel matricidio di Oreste, Eschilo tratta il passaggio da una società matriarcale a una patriarcale. Come emerge la figura femminile nella regia di Livermore?

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Per Livermore l’Orestea, prima dell’arrivo di Oreste, è un trionfo della femminilità. Nelle figure di Clitemnestra, di Cassandra, indaga aspetti della femminilità evidenziandone la forza, il potere e la scaltrezza. Con l’avvento di Oreste tutto cambia, ma non ci dimentichiamo che la trilogia finisce con un’altra figura femminile importantissima, Atena, che stabilisce che si dovrà interrompere la legge del taglione istituendo il primo tribunale della storia. Con l’Orestea entriamo, in un certo senso, nell’era moderna. Usciamo dalla barbarie e, almeno in Occidente, accendiamo un faro sulla possibilità di fare giustizia al di là della giustizia personale. Possiamo dire che con l’Orestea il processo tipico del film di mafia viene interrotto. Non a caso, questo viene sancito da una dea, una donna. La figura femminile, all’interno dell’Orestea, aleggia sempre. Se nella figura di Oreste si incarna sì l’uomo alla ricerca della verità, ma che tenta di ristabilire una giustizia di sangue, occhio per occhio dente per dente, è una donna, Atena, che interromperà tutto questo. A detta anche del regista, quella eschilea è una trilogia dove la figura della donna ne esce vittoriosa.

Nell’Agamennone la sofferenza è vista come strumento di trasformazione. In varie filosofie orientali il legame profondo tra sofferenza e conoscenza continua ad esistere. La cultura occidentale, figlia anche del cristianesimo, vede la sofferenza come prova da subire per guadagnarsi il paradiso. Un recupero delle nostre radici greche potrebbe dare nuova linfa a una cultura asfittica? Il teatro greco può essere tirato fuori dalla bolla museale nella quale lo abbiamo rinchiuso e reso di nuovo popolare?

Come attrice ho avuto la fortuna di stare sempre a contatto con testi che vengono dal passato e questa osmosi tra passato e presente la vivo quotidianamente. Purtroppo ci si dimentica troppo spesso del patrimonio di conoscenza che abbiamo alle nostre spalle.
Nello spettacolo io dico: Zeus che ha insegnato a noi uomini i segreti del vivere, ponendo una legge che dice che solo dalla sofferenza si impara. È diverso dal cristianesimo dove si dice: devi soffrire per espiare il peccato originale. Quello che dice la cultura greca è che inevitabilmente, nella vita di ciascuno, ci sarà una parte di bene e una parte di male. E sarà dal male, dalla sofferenza, che noi possiamo imparare di più.

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In un’altra frase dico: su un uomo che sale troppo in alto, Zeus fa cadere un solo sguardo, il fulmine che incenerisce. Il concetto di male per i greci è identificato con la hybris, la tracotanza. Il voler paragonarsi agli dei. È la hybris che porterà a inevitabile sofferenza.

Il concetto è espresso anche dal coro quando dice: le case in cui regna giustizia, si perpetuano nella giustizia, mentre laddove è commesso il crimine, la casa continuerà a commettere il crimine. Se non sei in grado di imparare dalle sofferenze, non potrai mai evolvere. Le esperienze negative sono quelle che ti fortificheranno e ti daranno gli strumenti per crescere. Un concetto che rifiutiamo in una società, come quella contemporanea, dove deve essere sempre tutto scintillante, dove se stai male sei un perdente. Il punto è cosa fai con quella sofferenza.

In scena Livermore insieme a Lorenzo Russo Rainaldi collocano una parete a specchio di 27 metri che riflette gli attori. La realtà è il riflesso delle nostre azioni più di quanto non sia frutto del volere di una divinità o di un fato cieco?

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Sì e aggiungo che lo specchio non riflette solo gli attori, ma tutto il pubblico. Essendo posizionato al livello della cavea, il semicerchio diventa un cerchio e non c’è più divisione tra scena e realtà. Siamo un cerchio compatto all’interno del quale viene rappresentata la storia e ognuno di noi ne fa parte. Quando il pubblico si guarda nello specchio, entra nella scena, diventa coro, diventa attore all’interno dello spettacolo e si guarda recitare. Dovrebbe insegnare a riflettere su se stessi oltre le sofferenze, oltre la tragedia. Lo spettatore riflesso nello specchio in fondo alla scena, attraversa la tragedia per riappropriarsi di se stesso. Quindi, ancora una volta, attraverso la sofferenza si impara.

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