di Alessia de Antoniis
“Il Terzo Reich”, l’aggressione militare delle parole di Romeo Castellucci, apre la prima giornata di Narni Città Teatro. Spaesamento e straniamento come risultato di un lavoro che priva le parole della loro musicalità, sostituita dal rumore infernale della techno hardcore.
Quasi un’ora per un’installazione che poteva risolversi in quindici minuti.
Geniale l’idea di Castellucci di agire sullo spettatore violenza per trasmettere il senso stesso della violenza. Qui la brutalità è quella dei suoni assordanti di Scott Gibbons; del rombo che fa tremare le sedie per tutto il tempo, che ti avvolge e stordisce; delle luci strobiscopiche accecanti di Luca Mattei e Giulia Colla. Quella delle parole che per lampi di un ventesimo di secondo violentano l’occhio che le vede susseguirsi senza pausa, una dopo l’altra, mentre il cervello viene spinto al limite della sua capacità di associare alle singole composizioni di lettere il loro significato.
Un fiume di parole per lo più indistinguibili, fanno de “Il Terzo Reich” la concretizzazione della violenza della comunicazione: Castellucci porta in scena l’uso dei lemmi non finalizzato ad arricchire un lessico espressivo, ma alla negazione della libertà del singolo, al lavaggio del cervello teso all’omologazione delle masse, alle quali non viene dato il tempo di formare un pensiero critico.
Parole che, stumenti neutri, possono essere usate per raccontare, per diffondere idee di libertà, ma anche per torturare, umiliare, agire coercizione sulle menti.
L’installazione, potente e fortemente immersiva, ha il pregio di bypassare le sovrastrutture del pensiero razionale diventando solo emozionale. Purtroppo l’esposizione prolungata del soggetto a simile elettroshock, costringe lo spettatore a lasciarsi agire, impotente, a subire un’aggressività che non può sostenere a lungo, dopo aver inizialmente lottato per comprendere il senso di vocaboli che diventano lettere morte.
Smettere di intellegere le parole che, senza pausa, invadono quello spazio che normalmente usiamo per realzionarci, smettere di interagire col (non)testo, diventa l’unica via di fuga. O, almeno, di sopravvivenza in attesa della fine.
Nella misura in cui il teatro è un’alchimia tra attore, testo, regia e spettatore, l’installazione di Castellucci è la negazione delle relazioni umane. Mentre l’agorà lascia il posto al campo di sterminio.
“Il Terzo Reich” apre con la danza ieratica, della durata di pochi minuti, di Gloria Dorliguzzo. Appena visibile al pubblico in sala, al buio, la performance della Dorliguzzo appare come una negazione del teatro stesso, laddove teatro viene da quel verbo greco che significa guardare, essere spettatori.
Trattenere il pubblico in uno stato di libera prigionia ad assistere a una performance che cessa di avere qualcosa da dire nel momento stesso in cui comprendo la struttura dell’installaziome, è di per sé quella tortura mediatica che Castelluci vuole rappresentare e denunciare.
Una domanda mi assale: ma se devo andare a teatro per subire impotente il vorticoso susseguirsi di parole prive di significato, non basta accendere il televisore e ascoltare un programma di approfondimento sulla guerra in Ucraina tenuto dall’ultimo egocentrico e incompetente opinionista di turno?