di Francesca Parenti
L’affrancamento dall’agonia delle coercitive costrizioni nell’artificialità artistica, sbiadite in fittizie elucubrazioni, deve molto a Luigi Ghirri. Tutto, o quasi. Attraverso la formulazione spontanea e genuina di un assunto ineluttabile, indossato come attitudine naturale e schietta inclinazione, la sua fotografia insegna la visione e, ancor prima, educa al pensiero sotteso che la regge. Meglio, è essa stessa pratica di pensiero. Precedenza e conseguenza ontologica coabitano nella consapevolezza e collimano nell’apoteosi di partecipazione ed esperienza, in una liaison mai scissa.
In progressione, è l’integra (pre)disposizione di uomo, nonché di autore, a tracciare la direttrice di un rapporto con il mondo, indicandone le forme di rappresentazione, impostando movenze di allontanamento e approssimazione alla sua opera (affinchè possa essere veramente compresa) e marcando il mantenimento di contiguità aderente e densa con i soggetti.
In Ghirri, la superficie diventa trama vitale, sostanza visuale e materia decisiva. Non si tratta di accadimenti fortuiti: è questione d’essenza eloquente e d’immanenza loquace.
La pienezza dell’essere si verifica e s’invera, invalidando così siccità emotive ed aridità intellettuali, nella presa di una bellezza universale, esistente in una mappatura che abbandona sia l’atrofia della causalità che la paralisi della casualità.
Non si tratta nemmeno della risoluzione di dilemmi filosofici, del dipanare sovrastrutture ataviche in virtù di un accordo sommario. Per converso, è l’ostensione della complessità irriducibile nel reale e l’ammissione della propria finitezza nel fare a renderlo indispensabile e a permettergli di invertire il senso di ogni direzione vettoriale intrapresa fino a quel momento.
“La fotografia rappresenta sempre meno un processo di tipo conoscitivo, nel senso tradizionale del termine, o affermativo, che offre delle risposte, ma rimane un linguaggio per porre delle domande sul mondo. […] E io, con la mia storia, ho percorso esattamente questo itinerario, relazionandomi continuamente con il mondo esterno, con la convinzione di non trovare mai una soluzione alle domande, ma con l’intenzione di continuare a porne. Perché questa mi sembra già una forma di risposta.” (da Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro, Quodlibet Compagnia Extra, 2010).
Parafrasando, con libertà di presagio diffuso, le celebri sentenze di Man Ray secondo il quale “la vera audacia consiste nell’essere interamente se stessi” e “il nuovo è un modo sia di vedere che di fare”, ci troviamo di fronte e al fianco di un uomo che riesce, con esattezza sistematica, a compiere quest’impresa.
Il precipizio nella circoscrizione ossimorica perpetua è un traguardo a ritroso ed innanzi, l’esito in cui il divario tra la condotta individuale e collettiva è dissipato, lo sbocco dove ardimento e delicatezza hanno capovolto le teorie accettate del fotografare e dove la consapevolezza circa l’insussistente spartizione tra interessante e banale ha spalancato prospettive inaspettate, poiché tutto ha acquisito dignità espressiva e rappresentativa.
A cascata, ne discendono un modo, un mondo e una correlazione con esso completamente distinte da qualunque altra concepita in precedenza.
Tra le ultime pubblicazioni riguardanti Ghirri, Puglia. Tra albe e tramonti (MACK, 2022, pp. 288, lingua italiana e inglese, €55), contribuisce a gettare una mirada penetrante e meticolosa sulla sua pratica artistica, riservando estrema cura ed arguta attenzione al suo modus operandi e alla metodologia sottesa sia alla ricognizione fotografica che al suo profilo umano.
Aprendolo, si dischiude il lucore di consueto miracolo di fronte ai suoi scatti e lo sposalizio proficuo tra visione e narrazione sorprende con avvenente piacevolezza.
Dato complesso ed effetto semplice, allusione fortuita e inseguito riconoscimento, annotazione mentale e presa conoscitiva si attorcigliano in trecce luminose che sciolgono ogni paradosso insito nel dibattito pregresso (e a venire) sulla nozione di bellezza. Carattere del frammento e indole della composizione s’invocano a vicenda, l’improvviso e l’inatteso nel diorama reificato di una agevolezza compositiva ardita traghettano una rugiada di luce, nella quale il bagliore del sole diurno o il velluto corvino notturno si coricano sui luoghi (piazze, angoli reconditi, interni ed esterni delle abitazioni, quartieri, vicoli, cortili, sagrati di chiese, monumenti, negozi, giardini, litorali marittimi, luna park, parcheggi), si adagiano sulle persone (bambini, ragazzi, turisti, abitanti, amici, familiari, lavoratori) e si sdraiano sulle textures materiche (tessuti, muri, libri, giornali, piante, finestre, carte da parati, pavimentazioni, mobilio, specchi, abiti, statue).
Confidenze oculari, dimora di un divenire otticamente coscienti e visivamente consapevoli, in fusione al condensato in cui espressivo ed evocativo diventano immensamente fecondi, ci affrancano dalle arsure del polveroso e cieco stelo di un offuscato e limitato orizzonte.
Il suo spirito, foraggiato dall’osservazione espansa e dalla conciliazione pionieristica, approda alla
riformulazione totale dell’intero senso del fotografare.
La sterile mimesi si ritira, fuggente e sgomenta, al cospetto del demiurgo della luce, le cui ideazioni non vivono di previsioni future, pur rasentandone l’invenzione in una danza rituale di avvicinamento e inchiesta, ma di cosciente emancipazione.
In Puglia. Tra albe e tramonti la globalità degli aspetti enumerati viene sondata ed investigata attraverso la dissezione di una genesi editoriale complessa, articolata e ripercorsa in una doverosa nota per il lettore. Il volume, con rinnovato vigore rispetto ad altri, non si limita ad essere la riedizione di un progetto precedente o un catalogo di mostra (anche se l’uscita ha seguito l’esposizione Luigi Ghirri – Tra albe e tramonti: immagini per la Puglia, tenutasi presso la Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare da Ottobre 2021 a Febbraio 2022), bensì un innovativo e potentissimo grimaldello ermeneutico.
Al contempo, chiarisce l’approccio di fronte a temi e soggetti, illumina la volontà nitida di costruire una narrazione che rasenta l’andamento filmico, rivela le potenzialità infinite di un imponente archivio, vivo e vivificato dalle innumerevoli traiettorie visive che Ghirri ha abbozzato o attuato in vita e che, dopo la sua scomparsa, potranno continuare ad essere identificate.
In virtù di una struttura e organizzazione determinanti, ogni immagine non è né chiusa né conclusa in isolamento: è un momento di essere che assume valori addizionali nella contiguità sequenziale e ritmica con le altre.
Le foto della Puglia, nell’edizione di MACK e nel menabò riproposto in chiusura, scorrono come una sequenza cinematografica e detengono il dono straordinario dell’accrescimento in grado di essere elargito. Ad ogni sguardo si arricchiscono di connotazioni: vivono, si sviluppano, corrono verso di noi, ci trascinano, ci attraversano e ci superano; sono foraggiate da nutrimenti visivi, intellettuali e personali dei quali lo stesso Ghirri si cibava, senza imitare nessuno, ma apprendendo da tutto.
Una pubblicazione essenziale, al limite dello scarno nell’impaginazione e con l’impianto paratestuale ridotto ai minimi termini, è funzionale alla volontà di concedere maggior risalto possibile alle immagini che lo compongono.
Eppure vi è un dato rilevante, che non può sfuggire ad una vigile analisi.
Le foto sono in apertura e, diversamente da quanto accade abitualmente, i testi sono alla fine, solo dopo di esse. Prima la visione e poi, con il supporto eventuale, la comprensione, supportata da tre elaborati lontani tra loro per penna, gusto ed impronta, ma parimenti necessari nella spirale della discesa lungo il pendio della dottrina autoriale ed esistenziale di Ghirri: la figlia Adele per il primo; il collega fotografo e amico Gianni Leone, in una conversazione con Rosalba Branà per il secondo e, in chiusura e suggello, un intenso ed articolato testo del professore e critico d’arte Arturo Carlo Quintavalle.
Tre scritti che partono da assunti diversi, hanno stile e impostazione divergenti, indagano aspetti distinti per finire a convergere su di un punto: l’opera di Ghirri, anche quando sezionata chirurgicamente da un punto di vista critico, non potrà mai non lambire la corda dell’umano sentire. È il sentimento che anima lui e che guida chi della sua vicenda si interessa, senza per questo mai sfociare nel patetismo improduttivo.
Alla figlia è riservato il compito di introdurre la vicenda peculiare che lega Ghirri alla Puglia, le potenzialità dell’archivio e accennare, con emozione e trasporto, ai sentori che guidavano il padre nel contatto col mondo.
Gianni Leone, nel solco già tracciato da Adele, non può evitare di abbozzare un ritratto di Luigi, che per lui è stato, e continua ad essere, oltre che un amico e un grande fotografo, soprattutto un pensatore.
Arturo Carlo Quintavalle scandaglia ogni aspetto toccato in precedenza: motiva le scelte operative e organizzative (attuate durante le sessioni di ripresa e nel momento seguente di composizione); spiega il lavoro sulla Puglia relazionandolo con progetti precedenti o successivi; argomenta, con abissale ed incomparabile conoscenza, il rapporto di Ghirri con l’immagine propria e altrui, con gli universi indispensabili delle altre arti (cinema, musica, letteratura, filosofia, pittura) e, naturalmente, con l’idea determinante di uomo, di universo e di scrittura; si sofferma sul taglio, le particolarità tecniche e le scelte compositive di ogni scatto per comprendere i soggetti in quanto “zone della memoria”, il libro in quanto “forma di narrazione per immagini anziché costruzione di singole immagini”, e l’idea di fotografia “come parte di un racconto in sequenza mentale.”
Fotografia, Struttura e Romanzo (titolo del suo testo) sono i punti cardinali attorno ai quali ruotano l’indagine di Ghirri e dello stesso critico.
Da Luigi Ghirri, insomma, non si può prescindere. Non si può fare a meno di lui.
E se ci siamo dovuti rassegnare alla sua prematura scomparsa, non possiamo rassegnarci di fronte alla sua opera. È inevitabile incontrarlo frequentemente, in un’estetica taumaturgica, dalle sembianze di assise salvifica.
Anche l’esegesi d’intricata raffinatezza cede il passo al cospetto della sua vastità e ricchezza, quando Quintavalle afferma che “dentro il grande racconto-cornice sulla Puglia vi sono molte storie da riscoprire. La sua Puglia è un enorme frame, una cornice dentro la quale si ritrovano racconti diversi, rappresentazioni proposte entro un unico spazio continuo, un discorso per figure pensato secondo una struttura a schidionata. Un grande ciclo, una grande struttura e dentro molte, diverse, intense storie: fascino, invenzione di un poeta del racconto.”
Ecco la tensione di un pensiero allusivo e rapace che accorre a colmare il vuoto.
Ecco l’equilibrio armonico che lambisce volumi di mondi e scampa, lieve e saldo, le storture pregresse e venture.
Ecco la misura impeccabile che riscopre, nel nostro futuro più ancora che nel nostro passato, un orizzonte d’originaria purezza.
E qui mi fermo, a ragion (sprov)veduta, per aver peccato di presunzione, ingordigia verbale e supponenza, nel tentativo tracotante di descrivere una tale immensità con un elogio (com)promettente.
Mi taccio, dunque, e lascio che siano l’infinita fertilità della sua arte ed il suo essere ad irradiare, con chiarissimo stupore e stupenda lucidità, le nostre esistenze.
In/fine, per certo. A conclusione, mai.