di Rock Reynolds
È un tema doloroso, divisivo, in un certo senso persino intrigante, al punto che la narrativa e la cinematografia angloamericane e irlandesi hanno pescato a piene mani nei recessi più oscuri della storia della Chiesa, in particolare (ma non solo) di quella cattolica: una storia di violenze ai danni di minori, esercitate da uomini e donne in abito talare, nel silenzio di una canonica o di un istituto monastico, al riparo dagli occhi indiscreti e dal giudizio del mondo, protetti dal segreto del confessionale e dall’innegabile vantaggio di una posizione di potere e rispetto riconosciuta nella comunità dei fedeli e pure al di fuori di essa. È proprio in questa sperequazione tra vittima e carnefice che si sostanziano la brutalità e la spregiudicatezza di chi, per secoli, ha potuto vantare su un’impunibilità pressoché assoluta, talvolta facendo mero affidamento sul silenzio e sulla remissività del minore offeso. E non sono certo rari i casi di bambini o adolescenti che, da vittime, sono passati a essere ritenuti soggetti dalla pericolosa devianza giovanile o, addirittura, dalla sfacciata propensione alla menzogna. Insomma, veri e propri diavoli tentatori.
Gli sforzi della Chiesa di nascondere o, comunque, di non ammettere del tutto le proprie responsabilità appaiono agli occhi della comunità esterna una colpa per certi versi peggiore di quelle stesse violenze che gli hanno resi necessari.
In segreto. Crimini sessuali e clero tra età moderna e contemporanea (Mimesis, pagg 226, euro 22) è un approfondito saggio a cuora di Lorenzo Benadusi e Vincenzo Lagioia, un excursus su secoli di abusi e prepotenze, silenzi e omissioni, suffragato da una certosina ricerca d’archivio che ha portato alla luce atti processuali e dichiarazioni ufficiali in grado di far luce su quella che, tutt’oggi, risulta una delle pagine più vergognose del rapporto tra Chiesa e mondo esterno. E, malgrado l’atavica ritrosia del clero e di buona parte dei fedeli a parlare di sessualità, le espressioni utilizzate in tali documenti da magistrati e prelati entrano nel dettaglio delle violenze presunte o riconosciute, dimostrando che, in fondo, quella pruderie era più un atteggiamento che un’autentica difficoltà a sviscerare certi temi.
Prima di entrare nel dettaglio dei vari periodi storici presi in considerazione, gli autori entrano nel vivo del discorso facendo anche distinzioni semantiche e ricostruendo la stessa terminologia usata nei secoli per approcciare una materia così spinosa. Per esempio, solo nel 1931 il termine pedofilia si è imposto ufficialmente nella lingua francese e, in un secondo tempo, nelle discipline scientifiche, nonostante l’etimologia indichi l’esatto opposto del suo significato corrente, ovvero “l’amore per i bambini” e non una serie di pulsioni malsane nei loro confronti. Ed è proprio per questo che, invece, le scienze sociali oggi tendono a respingerlo. Ma ancor più netto deve essere il rifiuto dell’espressione “sessualità intergenerazionale” che rischia “un possibile livellamento della sessualità adulta e di quella infantile”.
Sembrerebbe che la Chiesa abbia “sempre rappresentato quello che oggi gli psichiatri chiamano ‘struttura facilitante’, cioè un contesto che favorisce i contatti e gli incontri tra gli adulti che esercitano un’autorità e i bambini”, agevolando così gli abusi dei primi sui secondi. Secondo uno studio francese del 2021 sugli abusi nella Chiesa transalpina, tra il 1950 e il 2022 sarebbero stati più frequenti “nel contesto ecclesiastico che all’interno di altre istituzioni”. Ne consegue la necessità di capire le ragioni di tale scoperta: “la cultura del segreto e il timore dello scandalo”. Il timore dei religiosi che certi comportamenti vengano portati all’attenzione del pubblico e diano scandalo è decisamente superiore a quello avvertito in situazioni analoghe da laici, al punto da imporre “una sorta di regola del silenzio e dell’occultamento”, proteggendo i colpevoli persino ai massimi livelli della gerarchia ecclesiale. Riflessioni che, immancabilmente, rimandano all’annosa diatriba sul celibato e sul voto di castità e, di conseguenza, sulle storture di personalità complicate, “sofferenti di solitudine e immaturità sessuale, che tendono a reprimere le emozioni e ad adottare una mentalità iper-legalista”. È evidente che l’inclinazione a usare violenza ai danni dei minori non può essere considerata, alla leggera, una conseguenza di tali privazioni, se non dopo analisi attente. Ma il quesito del perché i sacerdoti siano meno inclini ad accettare tali regole autoimposte o imposte dall’alto e più propensi a riservare attenzioni improprie ai minori se non a praticare autentiche violenze ai loro danni è quasi automatico.
Nel suo saggio in calce a In segreto, Marco Marzano conclude che “le organizzazioni centralizzate, autoritarie, basate sulla disciplina e il segreto… sono molto più di quelle democratiche, aperte e pluraliste, le candidate ideali a produrre un’immoralità collettiva e generalizzata” e che cambiamento e innovazione possono solo venire dal vertice. Anche perché il rischio concreto è quello di relegare le vittime in una posizione di secondo piano, garantendo protezione se non autentica impunità a chi le rende tali.
L’atteggiamento pubblico verso la questione pedofilia nel clero ha registrato un’impennata con la Rivoluzione francese, grazie alla quale i fattori in campo sono diventati tre: “il peccato (foro interno), il crimine (foro esterno ecclesiastico), il reato (foro esterno secolare)”. Nel Novecento, il crescente interesse collettivo per la tutela dell’infanzia e delle categorie deboli ha sempre più reso inammissibile quell’alone di segretezza volto a ricondurre gli abusi sui minori all’ambito del “tribunale della coscienza e a limitare la punizione del criminale alla semplice correzione o ammonizione fraterna”. Il resto lo ha fatto una neonata esigenza di trasparenza, che ha eroso i restanti spazi grigi dietro cui l’istituzione Chiesa ha tentato pervicacemente di trincerarsi pur di non ammettere di aver chiuso uno se non entrambi gli occhi di fronte a ciò che risultava via via più difficile da negare.
L’impegno profuso da Papa Francesco, avviato in realtà dal suo predecessore, nella lotta alla piaga ecclesiastica per eccellenza ha, quantomeno, portato a direttive vincolanti sull’obbligo non del silenzio bensì della parola: chi all’interno di una curia venga a conoscenza di sospetti di comportamenti impropri è tenuto a comunicarli ai superiori. Ciò di per sé non garantisce risultati certi, ma quel clima di insabbiamento che ha dominato per secoli pare si stia sgretolando, soprattutto sotto i colpi di scandali epocali che hanno scosso le fondamenta stessa del rapporto di fiducia esistente tra fedeli e religiosi: quello più eclatante è la conseguenza dell’inchiesta del Boston Globe chiamata “caso Spotlight”, dalla quale emerge ancora una volta che i due elementi centrali sono l’abuso di potere nello sfruttare la posizione di inferiorità della vittima e nel manipolarne la fragilità nonché la convinzione di poter sfruttare l’acquiescenza se non la copertura attiva delle proprie malefatte da parte della struttura gerarchica della curia.