di Antonio Salvati
Il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2020 ha favorito un ampio dialogo sul tema del “racconto delle storie” che si è sviluppato per tutto il 2020 sulle colonne dell’“Osservatore Romano”.
Il direttore del quotidiano Andrea Monda ha coinvolto decine di intellettuali di tutto il mondo. Quel dialogo è confluito nel bellissimo volume Papa Francesco, La tessitura del mondo. Dialogo a più voci con i grandi protagonisti della cultura sul racconto come via di salvezza in uscita in coedizione Salani/Libreria Editrice Vaticana (pagine 234, euro 16,00), che raccoglie le riflessioni di ben quarantaquattro tra scrittori, artisti, teologi, giornalisti sul tema del racconto. Nel Messaggio suddetto senza mezzi termini il Papa afferma che l’uomo è l’essere tessuto di storie: «L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr. Gen 3,21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di ‘rivestirsi’ di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti». Basandosi sulle parole del Salmo 139, «mi hai tessuto nel seno di mia madre», il Papa aggiunge che questa tessitura si prolunga nel corso della vita: «Non siamo nati compiuti, ma abbiamo bisogno di essere costantemente ‘tessuti’ e ‘ricamati’».
Lo siamo grazie alle storie che ci attraversano e che ritessiamo incessantemente, «quando tessiamo di misericordia le trame dei nostri giorni». Quando questa tessitura si fa attraverso le storie della Bibbia e del Vangelo, il divino s’intesse con l’umano: «Dio si è personalmente intessuto nella nostra umanità, dandoci così un nuovo modo di tessere le nostre storie». Per Papa Francesco la metafora della tessitura è preziosa perché ci conduce al senso biblico della parola. Infatti, nelle Scritture la parola non è la traduzione di un concetto; essa si dispiega come un tessuto, un mantello o una tenda. Tessuto, la parola è estensibile, capace di accogliere in sé situazioni sempre nuove e destinatari sempre nuovi. Essa è, in un certo modo, una ‘parola-tenda’, evocata dall’imperativo del profeta in Isaia 54,2: «Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti». Al di là dei riferimenti ai testi biblici, più laicamente per Bergoglio ciascuno di noi ha «bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita».
Per la scrittrice irlandese Edna O’Brien, sollecitata dal curatore Andrea Monda a esprimersi in merito alle parole del Papa, «le storie sono la sostanza della vita, ma vorrei sottolineare che la letteratura, nella sua vocazione più alta, non riguarda esclusivamente la pietà. Riguarda tutto, la verità della natura umana, il crudo e il cotto, la grandezza, la bontà, l’iniquità, la verità e la menzogna degli esseri umani. È chiedere al mondo di prestare attenzione, di sentire davvero l’enormità e la gravità del nostro tempo invece di consentire che accada senza testimonianza. È anche corretto dire che le storie di per sé accrescono la nostra umanità, il nostro senso dell’altro, il nostro senso del mondo più vasto». Osserva giustamente Gaetano Piccolo che «quando qualcuno ci chiede chi siamo, difficilmente rispondiamo tirando fuori la nostra carta d’identità. Se desideriamo consegnare qualcosa di noi, proviamo di solito a raccontare una storia. E ogni volta la storia è un po’ diversa, perché quei frammenti vengono messi insieme con lo sguardo dell’oggi. Quando ci raccontiamo, scopriamo anche qualcosa in più di noi. Lo ha intuito per primo sant’Agostino, che scrive le sue Confessioni per rispondere a quella grande domanda che sentiva di essere diventata anche per se stesso: sono un enigma, un abisso, e per provare a comprendere qualcosa di me, cerco di raccontarmi. La narrazione può diventare infatti il luogo in cui riconosciamo la nostra identità».
Sia nel mondo profano che in quello sacro, i più grandi pensatori hanno capito che la narrazione umana è la parte più essenziale di ciò che siamo. Noi siamo – sostiene giustamente lo scrittore statunitense Daniel Mendelsohn, autore del libro di grande successo Gli scomparsi (2006) – «‘creature di narrativa’ ed è questo che ci rende umani più di ogni altra cosa, il fatto che raccontiamo la nostra esperienza, sia che si tratti di un’esperienza teologica, che di un’esperienza profana o del mondo, comunque noi la dobbiamo raccontare». Sandro Veronesi osserva che «non è automatico il nesso tra comunicazione sociale e narrazione, al mondo laico spesso sfugge, concentrato com’è sull’informazione, i social media, lo storytelling (specificamente e giustamente messo in discussione nel testo del Papa) e i messaggi propagandistici di varia natura. In realtà è il primo nesso, la comunicazione sociale ha cominciato a esistere proprio con la narrazione − la narrazione orale, il racconto delle origini, la trasmissione della memoria collettiva, prima ancora dell’invenzione della scrittura − ma è un fatto che la nostra cultura fatichi assai a ricordarsene». Veronesi apprezza assai l’impegno del Papa – «nella sua opera di scansione delle attività umane, e nello sforzo incessante che caratterizza il suo pontificato di aprire dialoghi con il mondo laico o raccolto attorno ad altre religioni» – che nel suo Messaggio, dedicato al discernimento, in maniera emozionante rivela la profonda convinzione, non scontata per un Papa, che il bello coincida col bene.
Un buon romanzo lo si riconosce quando il lettore può trovare parte di sé stesso in ogni personaggio della storia. Infatti, leggendo I promessi sposi, osserva la nota scrittrice Maria Pia Veladiano, «ciascuno di noi può riconoscere come propria la pusillanimità di don Abbondio, l’irruenza di Renzo, la prepotenza di don Rodrigo, la carità pelosa di donna Prassede, e anche la generosità di fra Cristoforo, la fede santa del cardinal Federigo. È questa la potenza buona della narrazione, il fatto che ci permette di non sentirci estranei a nessuna passione, a nessun movimento dello spirito, nemmeno a quelli estremi, che ci viene di chiamare disumani e sbagliamo, oppure che sentiamo inarrivabili e sbagliamo».
Per Daniele Mencarelli è necessario un ritorno dell’uomo dentro se stesso, la vera rivoluzione senza la quale nulla sarà possibile. In altri termini, «occorre riaccendere di passione viva le lingue che da sempre hanno avuto la responsabilità di formare il nostro immaginario riguardo ciò che è nato con noi. La poesia. La filosofia. La religione. Lingue oggi cristallizzate, fossilizzate, ridotte a reperto da studiare ma in assenza di pregnanza rispetto al nostro tempo, come se l’uomo contemporaneo non ne avesse più bisogno, come se la loro capacità di rappresentarci fosse tramontata per sempre. Senza queste lingue, l’uomo è destinato a spegnersi definitivamente, a diventare oggetto di studio per la scienza, l’unica lingua che, viaggiando a braccetto con la tecnologia, non risente del tempo ma anzi ne viene esaltata. Le due visioni contendenti sono oramai abbastanza chiare. Da una parte l’affermazione definitiva di un’esistenza immobile, disumana, obbligata a una felicità sintetica, dall’altra una vita pienamente vissuta, in eterna altalena tra gioie e dolori, con lo sguardo vigile dei cacciatori». Raccogliendo la sfida che non può non cominciare dal concetto stesso di vita che Mencarelli intende «come squarcio di consapevolezza che chiede il significato di sé, attraverso l’esercizio della domanda, della perlustrazione del proprio essere. Restituire alla vita la sua condizione di precarietà perenne, che cerca una stabilità oltre se stessa, nell’alterità, nella speranza di un Altro più grande di lei che gliela possa realmente concedere. Rinnovare la disponibilità dell’uomo a osservare interamente la propria natura, senza sconti, sino a contemplarne i limiti inevitabili e non meno dolorosi. Restituire al dolore una sua legittimità, e in molti casi una sua valenza educativa, in alcuni casi centrale. Allo stesso modo, restituire all’amore il suo rango inarrivabile. Strapparlo dalle narrazioni che lo vogliono slancio sentimentale e null’altro».
La romanziera americana Donna Tartt coglie con acutezza quello che potremmo definire il fli rouge del volume: «il racconto come ‘tessuto’, fatto di ‘funi indistruttibili’ che connette tutto e tutti, presente e passato, e permette di aprirsi al futuro con sentimenti di fiducia e di speranza». E aggiunge che «le storie che raccontiamo e ri-raccontiamo e che tramandiamo gli uni agli altri sono tende sotto le quali riunirsi, vessilli da seguire in battaglia, funi indistruttibili per collegare i vivi e i morti, e l’intreccio di queste vaste trame attraverso i secoli e le culture ci lega fortemente gli uni agli altri e alla storia, guidandoci attraverso le generazioni».
Un grande pensatore eclettico come Stefan Zweig definiva la cultura come il vero antidoto alla barbarie. Nel suo saggio, significativo fin dal titolo. Il libro come accesso al mondo, scriveva: «Il libro ha il potere di dilatare l’anima e costruire mondi nella nostra vita interiore». Si tratta di «apprezzare il miracolo che si rinnova ogni volta che ne apriamo uno». Il saggio, del 1931, lungi dall’essere uno scritto superato, è di sorprendente attualità – come ha recentemente sottolineato Andrea Riccardi – e parla al nostro presente. Scriveva: «il libro non ha nulla da temere dalla tecnologia: giacché essa stessa non impara forse e non si perfeziona attraverso i libri? Ovunque, non soltanto nelle nostre vite individuali, il libro è l’alfa e l’omega di ogni sapere e l’inizio di ogni scienza. E quanto più si vive in intimità con i libri, tanto più profondamente si sperimenta la totalità della vita, perché colui che ama i libri, grazie al loro aiuto, vede e comprende il mondo in modo miracolosamente potenziato, non solo con i propri occhi, ma con lo sguardo di innumerevoli anime».
Senza letteratura spesso non si possiedono le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza. In altri termini, si è privi della capacità di nominare le cose, mancano le emozioni e, conseguentemente, il controllo sulla realtà e su sé stessi. Senza la letteratura, il mondo sarebbe – scrive il premio Nobel Vargas Llosa – «incivile, barbaro, orfano di sensibilità e stentato di parola, ignorante e greve, negato per la passione». Il mondo senza romanzi avrebbe come «tratto principale il conformismo, la sottomissione generalizzata degli esseri umani a ciò che è stabilito. […] Gli istinti rudimentali deciderebbero la routine quotidiana di una vita aggravata dalla lotta per la sopravvivenza, dalla paura dell’ignoto, dal soddisfacimento delle necessità fisiche, in cui non vi sarebbe spazio per lo spirito e in cui alla monotonia soffocante del vivere si accompagnerebbe come un’ombra sinistra il pessimismo, la sensazione che la vita umana è quello che doveva essere e che sempre sarà così, e che niente e nessuno potrà cambiare lo stato delle cose». Un’umanità senza letteratura «somiglierebbe molto a una comunità di balbuzienti e di afasici, tormentata da terribili problemi di comunicazione causati da un linguaggio grossolano e rudimentale». Una persona che non legge, o legge poco, «può parlare molto ma dirà sempre poche cose, perché per esprimersi dispone di un repertorio di vocaboli ridotto e inadeguato. Non è un limite soltanto verbale; è, allo stesso tempo, un limite intellettuale e dell’orizzonte immaginativo, un’indigenza di pensieri e di conoscenze, perché le idee, i concetti, mediante i quali ci appropriamo della realtà esistente e dei segreti della nostra condizione, non esistono dissociati dalle parole attraverso cui li riconosce e li definisce la coscienza. S’impara a parlare con precisione, con profondità, con rigore e con acutezza,grazie alla buona letteratura, e soltanto grazie a questa».
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