di Antonio Salvati
Parlando degli anziani, con efficacia lo storico Andrea Riccardi ha sostenuto che si apre davanti a noi come un “nuovo continente”, aggiungendo che «oggi non ci sono più continenti da scoprire… ma nuovi mondi emergono dentro il nostro mondo. Gli anziani sono il futuro del mondo: è ormai una convinzione generalizzata. Ma è meno chiaro come gli anziani condizioneranno il nostro avvenire e quale significato assumerà la loro presenza, così cospicua. È un continente umano da esplorare». È una “terra incognita”. Come ha spiegato Vincenzo Paglia in Italia apparteniamo alla generazione che gode di due o tre decenni in più. Che fare di questi trent’anni di vita in più che ci piovono addosso inaspettatamente?
La longevità – spiega sempre Paglia – non è una semplice aggiunta temporale; «essa modifica profondamente il nostro rapporto con l’esistenza». Oggi, il volto della vecchiaia è molto cambiato: è quello di una massa di persone che continua a vivere in una società diventata sempre più complessa e conflittuale. Non si tratta solamente di “invecchiare bene” ma di fare di questo lungo tempo una opportunità perché tutti possano crescere in una prospettiva solidale. Bisogna mettere in campo ogni sforzo, ogni intelligenza e creatività per evitare una “cattiva” vecchiaia. Ma proprio questo avverrà, se non riusciamo a elaborare una visione per il futuro. Tutto ciò era già vero nel passato. Lo avvertiva Cicerone anche per il suo tempo. Nel De senectute scriveva: «Non è sufficiente badare al proprio corpo; bisogna ancor più occuparsi dello spirito e dell’anima. L’uno e l’altra, in effetti, rischiano di esaurirsi a causa della vecchiaia come la fiamma di una lampada priva di olio».
Laura Bellotti, davanti all’inizio del pensionamento e alla soglia di una vita che sarà caratterizzata dalla fragilità, per via della sua conoscenza della lingua inglese e, soprattutto, perché si è trovata davanti a un link che l’ha potata in contatto con la Comunità di Sant’Egidio, nel 2012 scrive loro «mi sento piccola di fronte a una persona che si trova in una cella, condannata a morte. Mi manca il fiato, ma se c’è qualcuno che ha desiderio di corrispondere con una nonna e può trarre da ciò anche solo un attimo di luce io ci sono, con tutto il cuore. Ho molto tempo a disposizione e quindi, potrei corrispondere anche con più di un detenuto, con tutto il cuore». Chiede l’indirizzo di un condannato a morte e le istruzioni. Riceve un nome, questo non risponde. Ne riceve un altro, che è Jim. Risponde subito, dopo un po’ risponde anche William. Laura entra in contatto epistolare con due condannati, uno in Florida e l’altro in Alabama.
Laura Bellotti ha narrato la sua vicenda nel volume, La seconda lettera. Corrispondenza con un condannato a morte (Ianieri Edizioni, 2021 pagine 448, euro 19,00), impreziosito dalla prefazione di Mario Marazziti che da anni è impegnato con Sant’Egidio nella lotta per l’abolizione della pena di morte nel mondo.
Laura Bellotti racconta la sua avventura di scrivere la prima lettera ad un condannato a morte negli Stati Uniti. Racconta la sua trepidazione, le sue domande. Certamente si sarà chiesta: come sarà quest’uomo? Come è un uomo che vive nel braccio della morte? Con chi sto cominciando a parlare? Il libro rappresenta la risposta a questa domanda iniziale e ci narra di un uomo, James, detto Jim, Aren Duckett. Dalle parole della Bellotti traspare che Jim è una persona viva. Non è un Death Man Walking, o un Death Man Living, non è un morto vivente, non è un fantasma, ma è un uomo vivo, che ama la vita e lotta per la vita. Un uomo vivo che però sta dentro un recinto di morte accompagnato costantemente dal pensiero della propria morte. Nel gennaio 2014 Bellotti scrive: «Se vogliamo fermare per un attimo il tempo, dal 30 giugno 1988 al 27 gennaio 2014… sono 9342 giorni, ognuno dei quali avrebbe potuto essere quello del “Raccogli le tue cose: il governatore ha deciso la data della tua esecuzione”. Ogni singolo giorno. Anche più volte al giorno, se entra nel corridoio più di una guardia».
Il pensiero della propria morte genera una forte angoscia. Ugualmente la genera la realtà della morte degli altri che sono con te in carcere. Dalla finestra che si vede dalla cella di Jim si vede la “casa della morte”: l’edificio in cui vengono portati i detenuti 45 giorni prima dell’esecuzione e dove poi verranno uccisi. Jim racconta, il 12 febbraio 2014: «è uno di quei giorni duri, veramente duri, qui: giorno di esecuzione. Alle 18,00 uccideranno Juan Chavez. Giorno di lockdown, di stop a tutte le attività: le guardie sono vestite in alta uniforme, con le maniche lunghe, la cravatta, ecc. Servono da mangiare presto: colazione alle 5:00, pranzo intorno alle 10,00 e cena intorno alle 15,00. Poi si aspetta l’esecuzione. Guarderò come sempre dalla mia finestra dalle 17,00, quando arrivano i furgoni con i testimoni e i giornalisti, fino all’uscita dei furgoni seguiti dal furgone col corpo di Juan dalla porta posteriore. L’ultima notizia che ho avuto dalla TV è che la Corte ha negato lo stop all’esecuzione, per cui ci sono poche speranze e “saluterò” Juan con una preghiera».
La pena di morte esprime un potenziale di male, che si giustifica solo con la paura, con l’incultura, l’ignoranza, con un arretramento dell’umanità, e la consegna di altro odio. Ogni pena capitale consegna e distribuisce altro odio che avvelena il nostro mondo contemporaneo. Da quando Jim è nel braccio della morte ci sono state 81 esecuzioni nel suo carcere. Per 81 volte ha salutato i suoi amici dalla finestra. Si può dire che tutto il carcere sia una casa della morte con la sua logica perversa: quella che ti deve sempre ricordare che la tua vita non conta più nulla. I condannati a morte attraverso i loro racconti consentono di conoscere i bracci della morte, chiedendo ai loro pen pals di essere compagni di strada nella loro resistenza. Ossia di aiutarli a non sottostare alle leggi dell’abbrutimento, della spersonalizzazione, della disumanizzazione. E alcuni riescono a dimostrare di riuscire a combattere la loro battaglia, sostenuta dai loro pen pals, vivendo quell’orgoglio per la propria umanità che è stata importante anche per altri detenuti. Nelle lettere dei condannati a morte spesso emergono tanti spezzoni di un mosaico di rapporti umani, vissuti nel ridotto spazio del braccio della morte; rapporti umani che hanno impedito ad altri di impazzire, e di perdere lungo la strada il senso della propria dignità. Le loro storie rivelano il male in tutta la sua brutalità, hanno fatto emergere la debolezza del male, perchè non aveva giustificazione di nessun tipo.
Come può reagire una persona normale quando la sua vita è schiacciata da un perverso meccanismo di male? Questo libro descrive, anzi testimonia della lotta di Jim tra la vita e la morte, ma sarebbe meglio dire che si tratta della lotta tra il bene e il male. Jim ha un passato, che si rivela gradualmente nelle lettere. Un passato normale, di un ragazzo cresciuto in campagna. In una lettera scriveva: «Mi è sempre dispiaciuto non aver imparato un’altra lingua, ma quando andavo a scuola avevo già sufficienti problemi con l’inglese. Era terribile, non riuscivo a leggere e ancor più a scrivere in inglese. Ero il peggiore della classe, se non della scuola. L’inglese è l’unica materia alla quale ho dovuto rinunciare. C’era un test di spelling per ogni classe e io fallivo continuamente, così ho lasciato perdere. Adesso vado molto meglio, sia nello spelling che nella lettura, che nella scrittura. Pensa che miracoli può fare il carcere!».
La scoperta più sconvolgente per Laura Bellotti è stata quando ha capito che Jim era innocente! Cosa non così sorprendente, dato che il tasso di errore nelle sentenze di morte negli Stati Uniti è piuttosto alto. Che vuol dire apprendere che proprio la persona con cui stai corrispondendo è incastrata in un infernale meccanismo di morte non per propria responsabilità, ma per un mix che sviluppa una maligna combinazione di incapacità, corruzione, disprezzo della vita, e quant’altro? È una cosa difficile da digerire.
Jim è un uomo spiritoso, ma soprattutto un uomo capace di provare compassione per gli altri. Delle 81 esecuzioni di detenuti cui ha assistito l’esecuzione in maggioranza si tratta di amici, o almeno di persone con cui Jim aveva stretto rapporti. Di Shane, «il più caro amico che avevo qui dentro», scrive: «Possa riposare in pace. Mi manca, il mio cuore è a pezzi. Era un fratello… non lo dimenticherò mai!» L’amicizia trasforma la vita di Jim: quella con gli altri detenuti, come nel caso di Shane, ma anche con i volontari che vanno in carcere e con le persone con cui entra in contatto con le lettere. Uno dei momenti più commoventi raccontati nel libro è l’amicizia con Laura Bellotti alla quale Jim scrive: «ho solo tre desideri nella vita: uscire di qui a testa alta, vincere il cancro e conoscere te». E Laura, senza esitare, decide di andare a trovarlo.
Molti anni fa Kenneth, 30 anni, condannato a morte, così scrisse ad una sua amica della Comunità di Sant’Egidio: «voglio piangere ma non ci riesco, le lacrime non scendono, così tanti amici sono morti; tanti hanno prosciugato le mie lacrime, vorrei spiegare il perché, ma non riesco a trovare le parole. Solo Dio può capire il mio dolore. So che per chi guarda dall’esterno posso sembrare un uomo perduto, ma come posso restare saldo davanti a cosi tante uccisioni? L’unico modo per non impazzire è amare fino all’ultimo respiro».
La corrispondenza può alleviare i condannati a morte dalla fatica di una vita abbastanza disumana, e soprattutto infrangere la solitudine che diventa spessa come le porte che chiudono quelle celle. Il bisogno di parlare, di ricordare che cos’è la vita normale, una vita dignitosa, è legata alla fisionomia di un uomo e una donna che non si dimenticano di essere tali. Laura Bellotti è stata una persona preziosa per Jim, perché non si è limitata a accompagnarlo con qualche lettera, ma si è messa al suo fianco e ha lottato per lui, come quando ha scoperto di avere il cancro e la Bellotti ha scritto al direttore del carcere per pretendere che si facessero le indagini e le cure adeguate. A Jim è stato importante per Laura, perché l’ha spronata ad affrontare i suoi problemi di salute, le ha dato uno scopo e, soprattutto, l’ha trasformata in una combattente per la libertà e per la vita. Un’amicizia intrisa di tenerezza, di resistenza alla morte, di affetti, di preghiere. Certo la condanna a morte costringe i condannati a morte e i loro pen pals a non sprecare nulla: una parola, una preghiera, un pensiero quando la vita si accorcia, valgono di più.