di Alessia de Antoniis
Il 40° Torino Film Festival apre con “Il Cristo in gola”, il nuovo film di Antonio Rezza, che verrà proiettato in Selezione Ufficiale Fuori Concorso venerdì 25 novembre alle ore 21.30 nel Multisala Cinema Massimo di Torino.
“Il Cristo in gola” è un film con una lunga lavorazione alle spalle. Iniziato nel 2004, le riprese si sono protratte nel tempo. La produzione è di Rezzamastrella.
Faccio un Cristo che non dice una parola – racconta Antonio Rezza – si tappa la bocca e la tappa al suo autore pezzente. Mai sarò così meschino da raccontare con la mente malata ciò che il corpo alla mente ha sottratto, e cioè il significato: i miei gesti hanno tolto di mano il sapere al cervello imbroglione.
Qui il problema non è il significare, qui la virtù sta nel fatto che quello che volevo dire non l’ho detto: l’azione si è ribellata alle suggestioni della mente incravattata.
Ho scritto molte cose da mettere in bocca al figlio di Dio. Ma nell’esatto momento in cui il corpo si è staccato dal volere dell’autore gerarca per interpretare il sapere della carne, lì, con la pietra che scotta, la luce che acceca e con le membra indolenzite da posture innaturali, mi sono liberato dello stupido significato che il pensiero accattone voleva imporre al costato. Io, simile al Cristo nel dolore della pelle, ho iniziato a strillare per non fermarmi più. E l’autore ha chinato il capo a me stesso.
Prima che parlassi tre volte avevo già urlato sei. Io il gallo me lo ficco nella gola. Il mio gallo, prima di cantare, mi buca la trachea. Il mio gallo aspetta l’alba per cantarmela nel collo. Io sono gallo con la gola intorno. La mia gola si nega al canto e si fa beffe della mente tiranna che bivacca tra deduzioni vane. Io il Cristo me lo faccio uscire dalla giugulare, ho un Cristo nell’esofago che fa miracoli con le vocali allungate, che fa dell’intendere un simulacro per poveri imbecilli, che non ha rispetto del padre suo, che poi è il mio intelletto in corruzione.
Il mio corpo è il Cristo morto, la mia mente, rispetto al figlio della pena, si ingobbisce sotto il peso della decisione. Le urla che invadono il film possono dare il fianco a molteplici interpretazioni. Ma non è questo il caso, io non abbasso la carotide all’infimo livello che il volere le imporrebbe. Io sono fiato, io sono fiato con il buco in mezzo, e nel buco che vorrei su ogni fronte che pensa, ci pianto la vocale disperata che si fa strillo di dissenso. Ma non dissenso sociale che lascio a chi non ha inventiva, a chi non ha invettiva. Io con le urla faccio il culo alle orecchie, io le orecchie me le sfondo senza consonanti. Io, quando urlo, ammazzo il gallo che mi canta nella gola.
E’ un punto ormai di non ritorno, è una comunicazione che non sollecita il pensiero. Il pensiero, così impiccato dall’intendere padrone.
Con questo atteggiamento cerco a malapena di affrancare la pelle che mi da la gioia, dalla malinconia cui la ragione mi costringe, tento di dimostrare che il significare è in mala fede. Quando il Cristo che ho nelle tonsille si è dissociato dal suo compito ramingo, limitato a razzolare l’anima di chi non ha le palle, quando il Cristo che ho nella faringe ha dichiarato che con me, autore infame perché razionale, non voleva nulla a che spartire, mi son sentito raggelare. Mentre il mio corpo se la dava a gambe, la riflessione, fatta di calcolo e miseria, si incaprettava con i fili del discorso ragionevole.
Non so cosa sia questo Cristo di immagine forte, scortato dall’altrui Madonna che stavolta è anche la sua, inchiodato dalla sua Madonna che gira le spalle e si fa la Madonna del popolo. Non so cosa voglia da me questo corpo di Cristo che per privilegio estetico mi rassomiglia, questo ammasso di ossa e nervi con le papille in agonia.
Ma se il Cristo di ogni religione ha inculcato la misericordia, il mio ha insegnato a me, autore del trabocchetto infernale, che se l’ansia è nella pelle anche il cervello più incallito fa la figura del maggiordomo servitore, del ministero incappellato con la lingua a propiziare. La lingua del Cristo che mi scivolerà nelle budella, non modula neppure il suono della corda. La lingua mia è lingua morta perché incapace a divenire biforcuta. Io con la lingua mi ci medico la voce. Io non ho rosario, ho vocali e me le sgrano nella gola fino a raschiarla nel suo fondo lercio. Il mio Cristo scava nel fondo dell’addome alla ricerca della vocale madre, genesi del lamento ineccepibile.
L’approccio alla figura del Nazareno è estremamente rispettoso. Il mio figlio di Dio non dice una parola, non si rapporta all’uomo che gli è inferiore, comunica solamente attraverso urla devastanti, perdizione dell’orecchio umano. Il mio Cristo porta le orecchie dell’uomo alla dannazione eterna.
Il film è filologico fin quando lo dirigo: Maria che partorisce, Giuseppe che sonnecchia, l’Arcangelo proclama, Erode manomette, Battista che sciacquetta. Ma quando mi dirigo mi scappa dalle mani perché io, oltre a quella di Dio, non riconosco neppure la parola mia.
“Il Cristo in gola” è un film che non ha ricevuto finanziamenti.
Fare un film su Cristo senza alcun ausilio produttivo, senza la sicurezza che il film esca in sala, senza pagare nessuno e soprattutto senza ricevere soldi in compenso è un’esperienza che ogni ateo praticante dovrebbe imporsi.
La figura di Maria.
Un ruolo centrale e mai applicato dalla cristologia corrente è affidato alla Madonna, che segue il figlio durante la sofferenza terrena. Lo accudisce nei frequenti mancamenti che lo portano ad accasciarsi su di lei emulando la Pietà di Michelangelo, opera postuma rispetto alla vita di Cristo ma in questo caso anteriore alla deposizione dalla croce.
Il Nazareno ci appare spesso urlante e trasversale, riverso sulle ginocchia di Maria che lo sostiene malinconica. Un Cristo iconograficamente già morto, che assale la vita e si smarrisce, che fa miracoli con la sola forza della disperazione: abbiamo l’uomo comune che si contorce sotto il peso della deformazione fisica e della tradizione è un Cristo che lo guarisce senza toccarlo, con appena l’assillo delle urla rivolte al Padre Eterno che gravita nei cieli.
La vita del mio figlio di Dio si alterna tra pianti, strilli, incontri con un demonio fuori da ogni schema e sacrifici con il martello in mano, con la sega e con la pialla. Il lavoro del mio Cristo è farsi la croce da solo poiché ogni uomo va a finire sulla croce sua. Nessuno fa la croce agli altri quando ha la sua da trascinare. Un Salvatore egoista che ristabilisce il profondo distacco tra divinità e uomo comune: se Dio esistesse non si curerebbe dell’uomo, ma sarebbe troppo felice di esser Dio.
Come autore involontario devo sottolineare la precisa esattezza filologica del racconto nella parte iniziale. Il film è narrativo fino al battesimo del Cristo da me interpretato. Poi deriva verso luoghi ignoti, mi sfugge di mano, e come se il mio corpo, facendo irruzione nel racconto, strappi l’opera all’autore pezzente che l’opera controlla. Io ho un corpo instabile che si rifiuta di seguire le direttive che la mente imporrebbe. Ho il corpo dolente che mi sfila il potere dal pensiero. Il Cristo autentico la penserebbe come me.
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