di Rock Reynolds
Giornalista, pittore, critico d’arte, scrittore. L’inglese John Berger viene così definito nelle note biografiche sul risvolto della copertina del suo libro Un uomo fortunato (Il Saggiatore, traduzione di Maria Nadotti, pagg 204, euro 22), corredato delle splendide foto in bianco e nero scattate dal suo sodale Jean Mohr. Berger non sapevo nemmeno chi fosse fino a qualche anno fa, quando il suo connazionale Geoff Dyer, a sua volta pubblicato in Italia da Il Saggiatore, me ne magnificò le virtù a più riprese, spingendosi a dichiarare che era un suo grande cruccio non averlo mai incontrato in vita. Berger, infatti, era scomparso da poco, all’età di novant’anni. Chissà che questa grande fascinazione per Berger non dipendesse dal fatto che anche Dyer fosse un intellettuale di difficile collocazione, a metà tra il critico d’arte, il giornalista, lo scrittore e pure, in un certo senso, il filosofo.
Se avrete la curiosità di leggere Un uomo fortunato, capirete cosa intendo: il sottotitolo dell’edizione italiana, “Storia di un medico di campagna”, aiuta a collocare meglio ciò che questo grande autore ha scritto, che altrimenti sfuggirebbe a un’impalpabile classificazione. La mia mente ha cercato di sua iniziativa un legame con Diario di un curato di campagna del francese Georges Bernanos, trovando forse l’unica assonanza nel racconto dei travagli (predominanti) e delle gioie (più rare ma comunque vissute) di un medico tra le primitive campagne inglesi degli anni Cinquanta e Sessanta, rispetto a quelli del giovane prete di Bernanos, in una comunità rurale dell’Alta Francia.
Protagonista assoluto di Un uomo fortunato è il dottor John Sassall che, come scrive lo stesso Berger in una postfazione a una ristampa del 1999, al tempo in cui aveva raccontato le sua storia non sapeva che, quindici anni dopo, si sarebbe tolto la vita, lui che la vita aveva sempre cercato di preservarla e che aveva contribuito a compierla, assistendo centinaia di partorienti nelle campagne del Gloustershire.
Dicendo che John Berger è anche un po’ filosofo, non cercavo un’iperbole. Per la verità, andrebbe pure aggiunto che Berger è stato una sorta di attivista per i diritti civili, uno strenuo oppositore delle ramificazioni distorte del potere costituito, optando per l’esilio volontario già negli anni Sessanta, disgustato dalla politica britannica. Non a caso, Berger è morto nel 2017 nei sobborghi di Parigi. Per comprendere meglio la forza delle sue convinzioni politiche, basta ricordare che, quando nel 1972 si guadagnò il Booker Prize per il romanzo G., decise di donare metà della cifra ricevuta alle Pantere Nere inglesi e di utilizzare l’altra metà per finanziare un ambizioso progetto sui lavoratori migranti, diventato poi il libro A Seventh Man, a sua volta impreziosito dalle foto del documentarista svizzero Jean Mohr.
Ed è proprio il connubio parole-foto a rappresentare uno dei tratti distintivi dell’opera di Berger. Grazie agli scatti in bianco e nero di Mohr, è più semplice cogliere un mondo che oggi non c’è più, una professione – quella medica – che ha assunto cadenze completamente diverse, staccandosi almeno in parte da quella relazione simbiotica fra dottore e paziente che tanto ha impattato sulla salute di quest’ultimo. Il suicidio del dottor Sassall, comunicato nella stringata postfazione di Berger, potrebbe apparire la più beffarda delle tragedie. Berger, come sempre controcorrente, ci dice che “ha cambiato la storia della sua [di Sassall] vita. L’ha resa più misteriosa. Non più cupa. Ci vedo più luce che mai”. Certo, osservando Sassall in azione nelle foto di Mohr e cogliendone la personalità nelle parole di Berger, si fa fatica a trarne un quadro complessivo luminoso e qualcuno ha criticato l’autore inglese per la mancanza totale di umorismo. Un sorriso lo si può cogliere ovunque, naturalmente, ma sfido chiunque a sostenere che, nella pratica medica, le luci predominino sulle ombre. Dunque, concludere un libro come questo con una nota di positività da parte dell’autore non era scontato. Anche perché Sassall, da buon medico condotto, fa il possibile per curare “certe forme di infelicità”. Quale medico di famiglia che si rispetti non cerca una buona parola per infondere serenità e scacciare i fantasmi che prima o poi turbano ogni essere umano? E Sassall considera un autentico fallimento, anzi, “una forma di abbandono”, che qualcuno finisca all’ospedale psichiatrico.
Dicevamo del Berger filosofo. Non era sua intenzione esserlo, ma la profondità delle sue parole lo colloca in un nobilissimo limbo letterario. “Il paziente infelice va dal medico per offrirgli una malattia – nella speranza che almeno questa parte di lui (la malattia) possa essere riconoscibile… Agli occhi del mondo lui non è nessuno; ai suoi occhi il mondo non è niente. Evidentemente il compito del dottore… è riconoscere l’uomo.”
Il mondo in cui si muove Sassall, lo stesso in cui per un certo periodo ha abitato e scritto Berger, oggi non esiste più. L’incedere della modernità ha almeno in parte condizionato persino gli angoli più remoti del paese, tendendo ad appiattire le peculiarità del territorio e le stranezze delle verdi campagne inglesi. Sassall deve aver incontrato ogni contadino, ogni casalinga, ogni studente e ogni vecchio della zona, finendo per conoscerne la condizione fisica, ma, prima ancora, il contesto familiare e pure segreti, vizi e virtù. Non fosse per il senso di tragedia incombente che annienta fin dalle prime pagine la serenità dell’ambiente agreste, ci sarebbe più di una somiglianza con le peregrinazioni del veterinario di campagna inglese per eccellenza, quel James Herriot che, negli anni Settanta, raccontò con garbo e simpatia le sue vicissitudini professionali tra i colli dello Yorkshire, a partire dal best seller Creature Gradi e Piccole. Anche il Sassall di John Berger va al pub dopo una lunga giornata di lavoro e, come Herriot, talvolta viene pagato in natura con latte, uova e via dicendo. Ma la malattia e, magari, la morte di un animale, per quanto caro, non rabbuiano come quelle di un congiunto. Inoltre, come scrive Berger, “Gli animali sono liberi di essere se stessi… Gli esseri umani sono trattenuti e timorosi. Gli animali celebrano il presente. Gli umani sono tutti in attesa”. Sassall “‘diventa’ ogni paziente per ‘migliorare’ quel paziente”. Lo diventa “offrendogli in cambio il proprio esempio”.
Dalla prima pagina di Un uomo fortunato emergono con forza due concetti trainanti: il tempo e la caducità umana. Nonostante le critiche mosse a Berger, figura comunque sempre controversa e ribelle, e malgrado l’assenza palpabile di sorrisi – nemmeno nelle rare foto le labbra increspate di un soggetto riescono realmente a fare capolino – la lettura di questo libro è a suo modo terapeutica. Quasi salvifica. L’ombra della morte si annida, ovviamente, tra le righe, ma non pesa sul lettore. Proprio in questo sta la grandezza di Berger, che pare aver metabolizzato più del suo amico Sassall l’ineluttabilità della condizione umana. Molti suoi pazienti gli fanno la domanda fatidica: “Quanto tempo ci vorrà prima…?” Il medico non può fare promesse perché non controlla il tempo, “come in certe occasioni, il navigatore sembra governare il mare. Ma tanto il medico quanto l’uomo di mare sanno che si tratta di un’illusione”.