di Antonio Salvati
L’Albania per molti italiani fino agli anni ottanta è stato un paese sconosciuto e misterioso, seppur situato ad appena 70 km dalle coste italiane. Del resto il paese balcanico era praticamente inaccessibile allo straniero. Nel 1990 era l’ultima nazione stalinista del mondo e si vantava di essere l’unico paese ad aver impiantato la dittatura del proletariato. Difficilissimo avere relazioni con esso. Negli anni novanta l’Albania si impose all’attenzione degli italiani con le sconvolgenti e memorabili ondate migratorie degli albanesi in cerca di libertà e speranza di una vita migliore. E l’Italia era LAMERICA come il regista G. Amelio l’ha ben raffigurata nel suo film.
L’Albania degli anni novanta è ben raccontata dall’allora bambina, divenuta poi ragazza, Lea Ypi, autrice di Libera. Diventare grandi alla fine della storia (Feltrinelli 2022, pp. 304 € 18), volume a metà strada tra un’autobiografia – che narra di un’infanzia tra gli ultimi anni del regime comunista e il caos politico che seguì negli anni successivi – e un saggio che cerca di definire – attraverso la propria storia personale e familiare – il concetto e la pratica di libertà.
Si tratta del punto di vista di una bambina e poi di una ragazza – che diverrà una docente di filosofia politica (esperta del pensiero di Karl Marx) della London School of Economics – la quale vive con profondo disagio una serie di inquietudini di fronte ad una realtà che cerca caparbiamente di comprendere, mentre le sfugge di mano. Infatti, mentre la sua maestra le trasmette pedissequamente la pedagogia comunista ispirata dal feroce dittatore Enver Hoxha, quando nel Novanta, cinque anni dopo la morte dello “zio Enver”, scoppiano in Albania le prime proteste contro il sistema monopartitico, scopre anche che il dissenso politico si agitava da sempre nella sua stessa famiglia, in suo padre, sua madre e sua nonna, senza che lei se ne accorgesse. Le verrà rivelata anche una drammatica storia familiare, taciuta per paura, quella del cosiddetto «l’altro Ypi», l’ex primo ministro vicino al fascismo, suo bisnonno.
Arrivano le elezioni libere, i prigionieri politici vengono liberati. Arrivano anche tanti problemi economici. A questa nuova fase storica è riservata la seconda parte del libro che descrive un paese povero alle prese con le difficoltà di adattamento al capitalismo, mentre molti dei suoi abitanti (compresa parte della famiglia della stessa Ypi) vedono nell’emigrazione l’unico modo per ottenere condizioni di vita migliori. Nella mente di Lea si affollano diversi concetti di libertà: dall’anarchismo del padre («detestava l’autorità in ogni sua forma») al liberismo della madre, divenuta una militante politica del Partito democratico d’Albania (che predicava i seguenti «punti programmatici: lotta alla corruzione, agevolazione della libera impresa, tutela della proprietà privata, promozione dell’iniziativa individuale. In breve: libertà»).
Lea, ormai adolescente, non si sente libera. Spaventata vede la sua Albania svuotarsi di persone, in fuga verso Ovest, mentre variegato mondo di persone provenienti dall’Occidente arrivano in Albania, interessati ed impegnati a guidare il processo di transizione del paese. Arrivano anche i denari della Fondazione Soros e le donazioni degli arabi per la ricostruzione delle moschee. Aprono, soprattutto, nuovi bar e locali, quasi tutti di proprietà di contrabbandieri o trafficanti di migranti, di droga, di prostitute. Attività ormai considerate mestieri normali.
L’autrice si sofferma sul caos politico, economico e sociale dell’Albania esploso a gennaio del 1997 – a causa dell’operato truffaldino di finanziarie private che promettevano rendimenti elevatissimi – quando la nazione fu sull’orlo di una guerra civile, in un periodo consegnato agli annali come “anarchia albanese”. Era come essere tornati al 1990, racconta Ypi: «lo stesso caos, lo stesso senso di incertezza, lo stesso collasso dello stato, lo stesso disastro economico. Ma con una differenza. Nel 1990 ci era rimasta la speranza. Nel 1997 perdemmo anche quella. Il futuro appariva fosco. Eppure io dovevo continuare ad agire come se un futuro ce l’avessi ancora, e prendere decisioni fingendo di credere che ne sarei stata la protagonista: scegliere cosa fare da grande».
A metà degli anni novanta, Lea è alle prese con una serie tormenti, non solo tipicamente giovanili: «vissi l’adolescenza come un’afflizione, tanto più acuta quanto più la mia famiglia negava che ne avessi il diritto. Per loro, era concesso essere infelici solo per motivi concreti: se rischiavi di morire di fame o di freddo, se non avevi un tetto sopra la testa o vivevi sotto la minaccia della violenza. Avevano standard inflessibili. Se avevi accesso a un modo qualsiasi di risolvere i tuoi problemi, ti eri giocato il diritto di protestare, e le tue lagnanze diventavano un insulto a chi era meno fortunato di te. Era un po’ come con le tessere annonarie del socialismo: poiché c’era qualcosa per tutti, la fame non poteva esistere. A sostenere il contrario diventavi un nemico del popolo. In casa mi ripetevano che avrei dovuto essere grata, impegnarmi a essere degna della benedizione della libertà; era arrivata troppo tardi perché i miei genitori potessero goderne, perciò io ero doppiamente tenuta a esercitarla in modo responsabile. Se non mi dimostravo abbastanza solidale con le traversie del loro passato, venivo tacciata di egoismo, di insensibilità per le sofferenze dei miei antenati, di avere vanificato il loro calvario con la leggerezza del mio comportamento. Io però non mi sentivo libera. Soprattutto d’inverno. Il buio calava presto, e io non avevo il permesso di uscire dopo il tramonto. “Ti cacceresti nei guai,” dicevano i miei genitori, senza sentirsi in dovere di precisare a quali guai sarei andata incontro, così come io non sentivo il bisogno di chiedere chiarimenti».
L’Albania era una società in transizione, nella fase di passaggio dal socialismo al liberalismo, dal regime del partito unico al pluralismo politico. E in quella fase, racconta l’autrice, «non erano le opportunità a venire da te: dovevi essere tu ad andare a cercarle, come il mezzo gallo della fiaba tradizionale albanese, che aveva girato il mondo in cerca del suo kismet ed era tornato carico d’oro». Lasciare il paese era un’avventura. C’era chi partiva e non tornava più. Chi partiva e tornava poco dopo. Alcuni avevano trasformato le partenze altrui in un mestiere per sé, trasportando i clandestini in barca. Qualcuno sopravviveva. Magari diventava ricco. Molti continuavano a vivere di stenti. C’era anche chi moriva nel tentativo di superare la frontiera. In passato venivi arrestato anche solo per aver pensato di andartene. Adesso, paradossalmente, «che in patria nessuno cercava di fermarci, dall’altra parte non ci volevano più. Non era cambiato niente, solo le uniformi delle guardie. Rischiavamo di essere arrestati non in nome del nostro governo ma di quello degli altri, gli stessi che prima ci avevano spronati a tagliare i ponti col passato. L’Occidente era stato decenni a criticare l’Est per le sue frontiere chiuse, finanziando campagne per esigere la libertà di movimento, condannando come immorali gli stati che limitavano il diritto di espatrio. I nostri esuli venivano accolti come eroi. Adesso li trattavano come criminali. Ma forse la libertà di movimento non era mai stata il vero obiettivo. Era facile difenderla quando c’era qualcun altro a fare il lavoro sporco del carceriere. Ma che valore può avere il diritto di uscire se non hai quello di entrare? E com’era che i muri e il filo spinato giudicati tanto riprovevoli quando servivano a trattenere la gente all’interno, erano diventati legittimi adesso che lo scopo era tenerla fuori? I soldati schierati sui confini, le guardie costiere, la detenzione e repressione dei migranti, sperimentati per la prima volta in quegli anni, nell’Europa meridionale sarebbero diventati la prassi nei decenni a venire». L’Occidente, inizialmente impreparato all’arrivo di migliaia di persone che aspiravano a un futuro migliore, avrebbe presto perfezionato un sistema per escludere i vulnerabili e accaparrarsi gli abili e i qualificati, sempre continuando a sostenere di difendere i propri confini “per proteggere il nostro stile di vita”. Eppure «era proprio quello stile di vita ad attirare i migranti. Non rappresentavano affatto una minaccia al sistema; erano i suoi più accesi sostenitori».
«Io però non mi sentivo libera», afferma Lea più volte. La sua famiglia abbinava il socialismo alla negazione: «la negazione di ciò che avrebbero voluto essere, del diritto di sbagliare e di imparare dai propri errori, di esplorare il mondo nei loro termini. Io associavo il liberalismo alle promesse infrante, alla distruzione della solidarietà, al diritto di ereditare il privilegio, di chiudere gli occhi davanti all’ingiustizia. In un certo senso si è chiuso un cerchio. Quando assisti alla fine di un sistema, non è più tanto difficile credere che possa cambiare di nuovo». In tal senso, combattere il cinismo e l’apatia politica diventa per Lea diviene un dovere morale, «il debito che sento nei confronti di chi nel passato aveva sacrificato tutto, perché non si era arreso all’apatia e al cinismo, e perché non credeva che tutto si aggiusti semplicemente lasciando che le cose seguano il loro corso. Se non agisco, i loro sforzi saranno andati sprecati, le loro vite perderanno ogni significato». Con una consapevolezza chiara: «la libertà non viene sacrificata solo quando gli altri ci impongono cosa dire, dove andare, come comportarci. Anche le società che pretendono di aiutare gli individui a realizzare il loro pieno potenziale ma si rifiutano di cambiare le strutture che lo rendono impossibile sono oppressive. Eppure, a dispetto di tutte le costrizioni esterne, noi non perdiamo mai la nostra libertà interiore: la libertà di fare ciò che è giusto».