Da quella triste notte son passati più di quarantasette anni, ma tuttora l’assassinio di Pier Paolo Pasolini non smette di suscitare accesi dibattiti. Se ne torna a parlare anche perché l’avvocato Stefano Maccioni ha lanciato in rete una raccolta firme per chiedere la riapertura delle indagini sui numerosi aspetti mai chiariti del massacro di Pasolini, tanta è la distanza che ormai separa la “verità” giudiziaria (Pino Pelosi unico responsabile) da quella “storico-giornalistica” (al delitto concorsero più persone). Obbiettivo dichiarato dell’appello erano le cinquecento adesioni; in poche settimane se ne sono avute quasi ottocento. Serviranno a sostenere la nuova istanza inoltrata il 3 marzo scorso alla Procura romana per dare finalmente un nome ai responsabili materiali e ai possibili mandanti di questo barbaro delitto compiuto la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia.
L’esca
Ma c’è chi sembra preferire altre “verità”. Il “Venerdì di Repubblica”, ad esempio, ha da poco dedicato una “controinchiesta” di Marco Cicala – ben due puntate – alla morte violenta di Pasolini e al furto delle pizze del suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma, avvenuto alla Technicolor di Roma nell’agosto 1975 e poi usate come esca per l’agguato allo scrittore. E qui il giornalista ne ha un po’ per tutti, men che per sé stesso.
Riepiloghiamo. Nell’estate 1975 – sono tempi di sequestri di persone – dalle celle frigorifere della Technicolor in via Tiburtina a Roma vengono sottratte quindici bobine del film Salò di Pasolini assieme a nove del Casanova di Federico Fellini e a cinquanta di Un genio, due compari, un pollo di Damiano Damiani, uno “spaghetti-western”. Queste bobine sono tolte dai contenitori metallici e caricate in tutta calma sopra un furgone. La loro restituzione viene in seguito subordinata al versamento di due miliardi di lire ma, Casanova a parte, produttori e autori, d’accordo sulla linea della fermezza, preferiscono potare a buon fine il lavoro avvalendosi di alcune scene di ripiego. Sono così narcotizzate le venalità dei rapitori.
2 maggio 1976: ventiquattro di queste bobine vengono lasciate in un capannone di Cinecittà, ma «di quali film? Non è dato sapere», scrive Cicala.
E dire che ventiquattro è la somma di quindici (il numero delle “pizze” di Salò sottratte) più nove (le “pizze” del Casanova). Sono due film della Pea, la casa di produzione cinematografica di Alberto Grimaldi, più che altro interessata al recupero di alcune scene del costosissimo Casanova (il western di Damiano Damiani era prodotto dalla Rafran di Sergio Leone).
La pur tardiva restituzione dei due film in quota Pea è resa possibile dall’intervento di Nicola Longo, un poliziotto, un ex infiltrato negli ambienti della “mala” romana incaricato, si capisce, del recupero non tanto di Salò quanto del Casanova. E infatti, una volta dissequestrati, i negativi di Salòprenderanno la via del magazzino. Il motivo è semplice: a differenza del Casanova – ancora in lavorazione – il film di Pasolini era ormai uscito nelle sale (per pochi tormentati giorni in Italia; trionfalmente in Francia) con qualche modifica e senza la scena finale, perduta, in cui tutta la troupe, compreso Pasolini, balla il boogie woogie.
I negativi ritrovati di Salò andranno in seguito distrutti. Perché? Un giorno Grimaldi viene aggredito mentre sta rientrando a casa con la moglie e gli aggressori non si limitano a sottrargli il portafogli e l’orologio. Qualcuno poi lo avverte che, dopo i film, ben di peggio a rischio rapimento sono i suoi figli, e allora il produttore porta la famiglia al sicuro negli Stati uniti. Ma prima di andarsene provvede a restituire i magazzini-deposito che aveva in affitto, svuotandoli sbrigativamente. Perduti in questo modo anche due episodi, tagliati, del Decameron di Pasolini.
La banda
Tanto serve a Cicala per concludere che su «Salò e la “pizza connection” resta parecchio da chiarire» (ne conveniamo) e che l’omicidio Pasolini è ormai materia da libri di storia, «non romanzi fantasy».
Ed è davvero fantastico quanto Cicala manda in scena nel primo tempo di questa sua fiction sul “Venerdì” del 10 febbraio scorso (la seconda puntata è uscita il 17 febbraio): i negativi sottratti del Salò? Cicala li certifica «Non più necessari» (e le scene malamente raffazzonate per interpositivo? e la scena finale del ballo collettivo a cui Pasolini tanto teneva?). Quanto alle “pizze” di Salò usate come esca, per Cicala sono «interpretazioni», un modo per trascinare «dentro il caso PPP una nuova congerie di personaggi insondabili: futuri esponenti della banda della Magliana, biscazzieri di borgata, mediatori fantasma, poliziotti infiltrati nel sottobosco criminale…»
“Congerie di personaggi insondabili” o insondati? “Interpretazioni” o fatti collegabili tra loro? Del «mediatore fantasma» vengono indicate le sole iniziali: S.P., ovvero l’arcinoto Sergio Placidi. Sul resto, proviamo a fare ordine dando voce a quanto ha più volte riferito Maurizio Abbatino, una figura apicale della tremenda banda della Magliana, e non di meno uno degli gli autori del furto alla Technicolor.
Poco dopo la visita alla Technicolor qualcuno telefona a Pasolini e nei giorni a seguire, come ricorda Abbatino, lo scrittore si recherà personalmente nella bisca di Franco Conte (il committente del furto; un personaggio vicino alla destra eversiva romana) per negoziare la restituzione dei negativi di Salò. Lo dice Abbatino, lo ha confermato il critico cinematografico Gian Luigi Rondi a Unomattina (Rai 1) il 2 aprile 2016, commentando il film di David Grieco La macchinazione: subito dopo quel contatto, ricorda Rondi, Pasolini «mi telefonò e mi disse “che cosa posso fare? Qui mi parlano della banda…”»
La Magliana? A detta di Cicala, nel 1975 la banda della Magliana «non era ancora costituita». Lo spieghi però ad Abbatino, che ne era stato il fondatore: per l’ex criminale, poi collaboratore di giustizia, la banda della Magliana «c’era fin dai primi anni Settanta e nell’ambiente era già chiamata così». E questo è un fatto. Sempre Abbatino segnala che nella bisca di Conte, proprio lì, la banda teneva le sue riunioni.
Rondi a Pasolini: «Gli ho detto “stai attento, non frequentare quella gente”, e difatti quella gente arrivò di sua iniziativa, senza che lui la chiamasse». Pasolini era disperato, «“ho fatto un lavoro molto impegnativo e ora non ho più nulla”. Gli hanno detto “te lo diamo il primo novembre all’idroscalo di Ostia, tu vieni a tarda sera”». Si aggiunga che in quell’ottobre 1975 Pasolini riferisce all’amico e sodale Sergio Citti di aver raggiunto un accordo e d’avere un appuntamento con loro la sera del primo novembre ad Acilia. Come ricorda Rondi, «lui andò tranquillamente con la sua macchina ed è accaduto quello che è accaduto».
Insomma, Cicala scrive che dei negativi rubati Pasolini «non aveva più bisogno» mentre Rondi, citando Pasolini, afferma l’esatto contrario. Ad ogni buon conto, è indubbio che Pasolini si era speso per tornarne in possesso. Ed è ancora più evidente che l’inferiore qualità delle scene ricavate dall’interpositivo (un nuovo negativo ottenuto per contatto da un positivo) e il possibile recupero delle immagini finali del ballo (quest’ultima definitivamente perduta) potevano giustificare, eccome, quel dannato viaggio ad Acilia o all’idroscalo di Ostia. All’autore di Salò hanno detto che i negativi trafugati glieli avrebbero resi gratuitamente, o quasi: che portasse qualche spicciolo «per il disturbo»; spiccioli come i due milioni in contanti che Pasolini quella notte recava con sé, sotto il tappetino della sua Alfa Romeo GT 2000. Ma è un’imboscata e lo ammazzano.
Al dunque: chi ha ucciso Pasolini? Per Cicala non sono stati i fascisti («elevata a movente dell’omicidio – scrive – la tesi della vendetta fascio-nostalgica appare facilotta») e chissà se è vero, ma negli ambienti post-criminali e in quelli della destra eversiva di allora i nomi si sanno e a volte si fanno. Quanto all’apertura di nuove indagini, annota Cicala, «Evitiamo al poeta questo ennesimo oltraggio».
Oltraggiosa a noi pare invece la cancellazione del “concorso con ignoti” della sentenza d’appello su Pelosi (4 dicembre 1976): una messinscena pensata a tavolino e resa “credibile” da indagini approssimative quando non pilotate. Oltraggioso è semmai il mancato perseguimento della verità sulla morte di Pasolini e di molti altri in quegli anni, dalle vittime di piazza Fontana a Milano nel 1969 a quelle dell’aereo di Ustica nel 1980, in un Paese civilmente fragile. E a dirla tutta, la verità su un delitto impunito dovrebbe interessare a chiunque, anche a Cicala, perché – lo si legge nella petizione di Maccioni – «verità e giustizia non sono una concessione, ma un diritto. Senza scadenza».