Tempo fa mio padre ha riesumato dal suo capiente cappello dei ricordi un episodio curioso, risalente agli anni Trenta del secolo scorso, quando era un bimbo di cinque o sei anni e abitava ad Ischia. Durante una scorribanda, insieme al fratello e a qualche amichetto si trovarono davanti a un villone dalle mura alte, bianchissime alla spietata luce del sole isolano, sormontate da una cancellata scura. L’entrata era piantonata dai carabinieri, e nel giardino passeggiava un uomo dalla pelle nerissima, come allora se ne vedevano soltanto al cinema, fasciato da una tunica bianca che scendeva sino ai piedi. Quell’uomo si avvicinò al cancello, gli occhi scintillanti, e fece segno al gruppetto di pargoli di avvicinarsi. Mio padre era tentato, ma non osò: gli avevano detto che i negri mangiavano i bambini. Peppino invece, il fratello maggiore, la cui curiosità superava la paura, si avvicinò. Con grande sorpresa generale, l’alto uomo nero dagli occhi lucenti aprì la bocca in un largo sorriso che rivelò una dentatura smagliante e allungò delle caramelle al piccolo Peppino. Come poi scoprì mio padre, quell’uomo era un ras abissino detenuto nell’isola flegrea dal regime fascista.
Nel rammentare l’episodio, si ragionava sulla straordinaria forza della propaganda, del pregiudizio, una forza in grado di forgiare le menti e indirizzare i comportamenti non solo dei bambini, ma di tutto un popolo. I mezzi d’informazione dell’epoca (radio, giornali, cinematografo) dipingevano infatti i “negri” come dei selvaggi, esseri “naturalmente” inferiori agli uomini civilizzati, conferendo così una giustificazione morale ad una squallida impresa imperialistica quale fu la guerra d’Abissinia.
Questo episodio mi è tornato alla memoria nel leggere i risultati di uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Università di Warwick. Gli studiosi si sono chiesti se i social network abbiano una qualche influenza sugli episodi di violenza e di razzismo, e hanno analizzato 3.335 aggressioni compiute nei confronti dei rifugiati avvenute in Germania nell’arco di due anni. La conclusione a cui è giunta la loro ricerca può apparire sorprendente: esisterebbe un nesso causale tra l’esposizione a contenuti che incitano all’odio razziale su Facebook e gli atti di violenza perpetrati contro gli immigrati. In base ai dati analizzati, questo tipo di crimine aumenta del 50% nelle zone in cui si passa più tempo su Facebook, nello specifico dove l’uso del social supera quello della media nazionale. Secondo i ricercatori la nube di violenza e di odio diffusa su Facebook sarebbe addirittura un indicatore in grado di predire il verificarsi di crimini violenti contro i rifugiati, poiché la sua presenza aumenta la probabilità che questi crimini si verifichino. A conferma della tesi lo studio cita dei casi in cui la popolazione tedesca è rimasta senza Internet, correlandoli ad una sensibile diminuzione degli episodi di razzismo. L’indagine è stata condotta tenendo conto di numerosi fattori socio-demografici: delle comunità locali dove si sono verificate queste aggressioni si sono esaminati il livello di benessere degli abitanti, i dati di vendita dei quotidiani, il sostegno locale a politiche di estrema destra, la storia autoctona dei crimini di matrice razzista, il numero di rifugiati ospitati nelle comunità e il numero di proteste elevate contro di essi.
In effetti, considerando il funzionamento dei social media c’è poco da sorprendersi di questi risultati. L’algoritmo di Facebook è stato creato per promuovere contenuti che massimizzino il coinvolgimento degli utenti, dunque i post e le notizie che solleticano gli istinti e i sentimenti primordiali ottengono i migliori risultati: sono subito condivisi, si diffondono con la rapidità dei virus divenendo, appunto, “virali”. In questa categoria rientrano i post contro gli immigrati e i “diversi”, che fanno leva sulla paura del cambiamento sociale e sulla primitiva contrapposizione del noi-contro-loro.
La pericolosità di un tale atteggiamento è aumentata dal fatto che è sufficiente che una minoranza di utenti esprima opinioni razzistiche perché esse finiscano per dominare il newsfeed anche di persone di opinione più moderata. Si determina cioè il meccanismo psicologico per cui ci si conforma istintivamente alle norme sociali della propria comunità di appartenenza: se esse promuovono e auspicano comportamenti aggressivi, questi finiscono per essere legittimati. Quindi si giustifica il sentimento xenofobo perché lo si percepisce come largamente condiviso, e da ciò a passare all’azione con atti di violenza, proprio in virtù di questo presunto supporto della comunità, il passo è breve. Inoltre influirebbe il meccanismo della “bolla dei filtri” (“filter bubble”, termine coniato dall’attivista internet Eli Pariser), cioè quell’insieme di tecniche utilizzate dalle aziende online e dal sistema pubblicitario per riproporre articoli (ma anche idee) profilati sui nostri gusti e sui nostri comportamenti. È un sistema luciferino, il cui effetto è isolarci da ogni informazione in contrasto con il nostro punto di vista, di confinarci in una bolla culturale o ideologica. Secondo Pariser la ricerca filtrata limita la nostra esposizione a nuove informazioni, restringe la nostra mentalità poiché crea l’impressione che non esista nient’altro al di fuori dei nostri stretti interessi.
Tutto ciò è potenzialmente dannoso per gli individui e per la società, perché in questo modo si indebolisce il discorso civico, si rendono le persone più vulnerabili a manipolazioni e propaganda e ci si ritrova tutti confinati nella stessa angusta visione del mondo. E «un mondo costruito su ciò che ci è familiare è un mondo dove non c’è nulla da imparare» in quanto è all’opera «un’invisibile autopropaganda che ci indottrina con le nostre proprie idee.»
D’altra parte, i risultati della ricerca in questione sono condivisibili anche dal semplice buon senso: è ovvio che la nostra visione del mondo è influenzata oltre che dalle esperienze di vita anche dall’influsso che i media esercitano sulla nostra coscienza. Ed è ovvio che se si viene quotidianamente bombardati da messaggi che incitano all’odio le conseguenze non possono che essere disastrose. Naturalmente gli studiosi dell’Università di Warwick non intendono criminalizzare Facebook in quanto tale. È evidente che il male non risiede nello strumento, ma nell’uso che se ne fa. Il fatto che i nazisti abbiano usato il cinema per convincere il popolo tedesco che gli ebrei incarnavano ogni forma di abiezione ed erano la causa di tutti i mali non significa che esso sia uno strumento diabolico.
Insomma, il problema è come sempre di ordine culturale. Soltanto accettando la diversità, imparando a considerare come pilastri del vivere umano i valori della solidarietà, della comprensione, dell’uguaglianza, in breve dei diritti umani, soltanto così potremo costruire un mondo meno violento, libero dalla paura e dall’angoscia. Se invece continueremo a seminare odio, erigere muri e confinarci nelle nostre squallide gabbie ideologiche regrediremo di ottanta anni, e ci ritroveremo nelle condizioni di quel bambino spaventato dalla vista di un uomo di colore, perché gli avevano detto che i “negri” mangiavano i bambini.
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