“Ventinove anni dopo il genocidio contro i tutsi, orchestrato dai vertici delle istituzioni, molti ancora si chiedono come sia potuto accadere questo mostruoso crimine, che ha causato circa un milione di morti nel giro di appena 100 giorni”. Parliamo di Rwanda (o come si scrive spesso qui Ruanda).
Parte di qui padre Marcel Uwineza per aiutarci a far sì che l’ormai imminente 30esimo anniversario di questo genocidio non sia solo una ricorrenza, ma un’occasione. Un’occasione per l’Europa, che ha una sua responsabilità storica, un’ occasione per i ruandesi e più in generale gli africani, e un’occasione per la Chiesa universale, che ha avuto enormi responsabilità in questa terribile storia. E per non sprecare l’occasione che il trentesimo anniversario del genocidio il gesuita Marcel Uwineza ha -auspicabilmente- aperto una discussione sul nuovo numero de La Civiltà Cattolica, per porre le basi di una riflessione comune che non rimuova i problemi di fondo e non riduca il prossimo trentesimo anniversario del genocidio a una formale riproduzione di formali buone intenzioni.
Per capire però bisogna partire dai fatti e poi analizzare nelle loro ragioni storiche e i fatti di fondo l’autore li presenta cosi, dopo aver ricordare che le vittime erano tutsi e i carnefici hutu, l’etnia che si identificava con lo Stato e con il potere: “Le vittime dell’Hutu Power erano tutte innocenti. Fossero uomini o donne, adulti o bambini, queste persone inseguite come “prede di caccia” non avevano né il potere né l’intenzione di nuocere”. Secondo fatto: “Gli omicidi sono avvenuti in spazi religiosi e pubblici, come chiese, scuole ed edifici amministrativi: luoghi di conforto e di preghiera che si sono trasformati in mattatoi. Philip Gourevitch usa la sorprendente espressione «genocidio intimo» per descrivere la vicinanza sociale e psicologica che intercorreva tra autori, vittime e spettatori”.
C’è un terzo fatto, rilevantissimo: “ è noto che nel corso del genocidio la violenza sessuale è stata diffusa ed estremamente brutale. Ordinata dai capi, ha preso di mira specificamente le donne tutsi. Le stime riportano che tra 250.000 e 500.000 donne siano state stuprate da miliziani, génocidaires, funzionari governativi e civili, che in molti casi erano vicini di casa o addirittura familiari della vittima-sopravvissuta”.
Possiamo ora accostarci alla ricostruzione storica di ciò che ha portato a questi accadimenti: “ La questione dell’identità si è accentuata e precisata alla fine del XIX secolo. Le élite al potere si consideravano superiori ai ruandesi comuni. La parola “tutsi” […] divenne il termine riferito al gruppo d’élite nel suo insieme, e il termine “hutu” venne identificato con la massa della gente comune. Quando gli europei misero piede per la prima volta in Rwanda, alla fine del XIX secolo, l’identificazione in quanto gruppo dei tutsi come pastori che detenevano il potere e dei coltivatori hutu come sudditi si stava generalizzando […], ma non era ancora definitivamente fissata in tutto il Paese. I clan dirigenti commisero l’errore di abbracciare la teoria della loro superiorità sugli altri gruppi sociali del Rwanda, e di sfruttare questa premessa a proprio vantaggio. Come afferma Ian Linden, «una specifica narrazione del passato elaborata dalla corte tutsi e avallata dal clero cattolico ha influenzato la coscienza politica dei ruandesi e allo stesso modo quella degli europei». La dura verità è che il governo belga ha trasformato delle etichette contestate in identità definite”.
Questa storia comincia già prima che Rwanda e Burundi divennero colonie tedesche a fine Ottocento. I coloni tedeschi comunque si relazionarono con l’aristocrazia tutsi e con i Padri bianchi, presenza missionaria prevalente. La prima guerra mondiale cambiò gli equilibri, i belgi attaccarono e sconfissero i tedeschi e fecero del Paese una loro colonia. Qui emerge la figura di un vescovo, Classe, che fece di tutto per consolidare il rapporto con la dispotica figura del re del tempo e con le elites, sopprimendo la simpatia del clero per gli hutu: “La sua preferenza per i clan guidati dai tutsi e la sua percezione negativa degli hutu ha posto le basi di scelte pastorali errate. Le seguenti parole di Classe sostanziano l’esplicito avallo dell’ingiustizia strutturale: «Approfitto di queste circostanze per esortarvi , con rinnovata urgenza, all’istruzione religiosa, al catecumenato, alla conversione dei giovani mututsi: dei capi e di altri giovani maschi batutsi, senza trascurare di procurare e di favorire anche la conversione e l’istruzione religiosa delle giovani laiche batutsi. Questa è un’assoluta necessità». Sebbene le sue azioni e il suo ministero non possano essere ridotti a questa citazione, essa risulta indicativa per confermare la sua evidente preferenza nei confronti dei tutsi. L’atteggiamento di Classe e quello dei sacerdoti a lui subordinati alimentarono il risentimento hutu nei confronti dei tutsi, e molti seminaristi hutu abbandonarono i loro studi in vista del sacerdozio per formarsi come insegnanti o operatori sanitari”. Nacque così una Chiesa di Stato in uno Stato dominato dai tutsi. Al punto che anche i tutsi poveri si sentivano parte di un mondo privilegiato dal quale gli hutu erano sempre esclusi. In definitiva le diseguaglianze erano per le elites e per i vertici ecclesiali determinate da una differenza di razza: “ Questa accettazione della disuguaglianza è una ferita ecclesiale, un fallimento morale, un atteggiamento compiacente, un guardare passivamente le persone che subiscono soprusi […] pur avendo noi i mezzi per aiutarle”.
Arriviamo così al capovolgimento successivo all’indipendenza. Qui l’autore cita in modo decisivo nuovamente Ian Linden: “Mentre i missionari durante il periodo coloniale erano stati determinanti nel consolidamento del potere tutsi […], dopo l’indipendenza le Chiese hanno svolto un ruolo importante nel consolidamento del potere hutu […]. La Chiesa ha spostato il proprio appoggio dai tutsi agli hutu, ma ha continuato a impegnarsi apertamente nella politica etnica”. E’ qui l’enorme lezione di fondo che emerge dal saggio. Esprimo un giudizio personale: la Chiesa si occupa di un territorio, non di un gruppo etnico. Occupandosi di un territorio avrà cura di tutti i suoi abitanti, se invece ci si chiude in una visione etnica si producono inevitabilmente dei guai. Le Chiese diventano etniche anche quando si occupano esclusivamente del clan o delle tribù che le seguono, le scelgono, identificandosi con esse. O quando, come insegna la tragedia ucraina, scelgono un’ideologia etnica, quale è quella del “mondo russo”.
Riprendendo il filo seguito da padre Marcel Uwineza, spicca la citazione di Thaddée Nsengiyumva, il vescovo che già nel 1991 – cioè prima del genocidio- seppe esporre in una lettera pastorale questi punti chiarissimi: “1) Sebbene la maggioranza della popolazione ruandese si sia convertita al cristianesimo da decenni, la maggior parte delle persone non ha saputo vivere i valori cristiani. 2) I riti che si svolgono nelle chiese ruandesi non rispecchiano le convinzioni intime delle persone. 3) Il rapporto tra la Chiesa e lo Stato ha compromesso la posizione morale della prima all’interno della società. 4) Alcuni partiti politici sono stati formati sulla base dell’opportunismo. 5) Tanto la Chiesa quanto lo Stato sono stati compiacenti rispetto al peccato sociale nel Paese; la discriminazione etnica nelle scuole è stata praticata per decenni, e la condizione dei poveri è stata abitualmente trascurata. Infine, la Chiesa deve schierarsi dalla parte degli svantaggiati della società e porre fine alla sua alleanza con lo Stato. Nsengiyumva rivolgeva alla Chiesa cattolica la critica di essere passiva e complice di fronte alla violenza crescente. Le sue parole descrivono l’innegabile fallimento istituzionale e la complicità della Chiesa ruandese”.
Le conclusione cui giunge l’articolo partono dalla tragedia del Rwanda, ma non possono fermarsi lì. Questo passaggio in particolare colpisce e ci spiega come il discorso ci riguardi direttamente: “ il fallimento della Chiesa e dei teologi nel condannare la discriminazione etnica che ha portato al genocidio conduce tutti noi, secondo il monito di Mario Aguilar, al «compito urgente di costruire una teologia della liberazione che permetta alle vittime e ai teologi di parlare».
I teologi che lavorano al fianco dei popoli indigeni di tutto il mondo affrontano questioni simili quando si confrontano con la memoria degli stermini di massa di milioni di bambini, donne e uomini che hanno avuto e continuano ad avere luogo in quasi tutti i continenti, portando molti popoli sull’orlo dell’estinzione. I teologi operanti tra il popolo armeno devono affrontare tali questioni in memoria del genocidio perpetrato contro quel popolo nell’Impero ottomano e nella Repubblica di Turchia. I teologi che operano in Germania devono continuare a confrontarsi con simili questioni non solo rispetto alla memoria dell’Olocausto, ma anche all’attuale aumento dell’antisemitismo in quel Paese, in Europa e negli Stati Uniti. Avendo a lungo trascurato le accuse di genocidio mosse sia dai popoli indigeni sia dagli afroamericani nel 1951 alle Nazioni Unite per alleviare le conseguenze di tre secoli di schiavitù, oppressione, linciaggio, violenza e brutalità della polizia, i teologi, in particolare i teologi bianchi, non solo devono ascoltare le voci di questi popoli diseredati, ma avviare un esame purificatore attraverso il quale prendere posizione al loro fianco”.