Perché il caso Assange è una vergogna internazionale

l processo a Julian Assange mette ordine in una materia che la macchina del fango dei servizi segreti americani e inglesi ha reso abbondantemente nebulosa

Perché il caso Assange è una vergogna internazionale
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18 Aprile 2023 - 12.29


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di Rock Reynolds

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È una società, la nostra, in cui conta sempre di più la parvenza rispetto alla realtà e si finisce per ribaltare il senso stesso delle priorità, trasformando in un capro espiatorio il giornalista scrupoloso che racconta verità scomode. Il processo di diffamazione e colpevolizzazione di chi illustra al pubblico comportamenti inaccettabili di questo o quello stato apre una voragine buia in paesi che non solo si dichiarano democratici, ma puntano a essere fari di progressismo per il mondo intero. Perché la loro legge dice che certe informazioni sono segrete e che, come tali, nessuno ha il diritto di divulgarle.

Eppure, la libertà di parola e di informazione sono cardini imprescindibili di qualsiasi democrazia occidentale moderna. Dovrebbero esserle in due paesi le cui costituzioni hanno fatto storia: Gran Bretagna e USA.

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Non so esattamente se una campagna di destabilizzazione e di lucida distruzione della reputazione come quella di cui è stato fatto oggetto l’australiano Julian Assange abbia precedenti nella storia contemporanea. Non credo che ce l’abbia per la portata globale che ha avuto, anche se è di stretta attualità una nuova fuga di notizie segrete dagli apparati militari americani che ha creato non poco imbarazzo a Washington e dintorni. Ma, in questo caso, a far circolare dossier e documenti classificati è stato un militare americano sottoposto a un vincolo di segretezza. Julian Assange, invece, non è soggetto a tali restrizioni e ha fatto semplicemente il suo dovere: a partire dalla pubblicazione nel 2010 di un video (Collateral Murder) che testimonia una violenza inaccettabile perpetrata ai danni della popolazione civile in Iraq da un elicottero americano, in spregio a ogni trattato internazionale. Nel video, il personale di bordo spara con riprovevole compiacimento sulla popolazione civile senza la certezza che possa rappresentare una minaccia e, in un secondo momento, oblitera un’automobile che cerca di prestare soccorso ai feriti. È tale video ad aver, di fatto, lanciato la figura di Assange come spauracchio assoluto del governo americano. Julian Assange è, così, diventato una delle figure di riferimento di WikiLeaks, l’organizzazione internazionale senza scopi di lucro – di cui è stato uno dei fondatori – che si prefigge di rendere pubblici, in modo anonimo, documenti che, per qualche ragione, possono mettere in imbarazzo governi che si sforzano di tenerli segreti.

Ecco che un libro come Il processo a Julian Assange (Fazi Editore, traduzione di Alessandro de Lachenal e Viola Savaglio, pagg 467, euro 20) mette ordine in una materia che la macchina del fango dei servizi segreti americani e inglesi ha reso abbondantemente nebulosa, al punto che il cittadino medio fatica a districarvisi, a distinguere i meri fatti dalla bieca propaganda. A scriverlo non è stata una persona qualunque bensì Nils Melzer, esperto e docente universitario di diritto internazionale umanitario, dal 2016 al 2022 relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, una figura di assoluto equilibrio, al di sopra delle parti.

Assange, come si diceva, è stato oggetto di una campagna denigratoria che ha tentato in tutti i modi di minarne la credibilità, ricorrendo addirittura a infamanti accuse di stupro intentategli da due donne svedesi. Tali accuse sono state smontate in toto, in quanto prive di qualsiasi fondamento, ma hanno costretto Assange – dietro la minaccia di una sua estradizione verso la Svezia, in prima battuta, e, in un secondo momento, negli USA – a chiedere asilo presso l’ambasciata dell’Equador a Londra, dove il giornalista ha vissuto per diversi anni, prima di esserne espulso con il cambio del vento politico in Ecuador. Privo di tale protezione diplomatica, Assange ha subito un processo per direttissima in un tribunale inglese che lo ha fatto finire nel 2019 nel carcere di Belmarsh con una condanna alla pena massima per aver violato nel 2012 i termini della libertà su cauzione concessagli nel 2010 per le accuse di stupro presentate in Svezia e in un secondo momento decadute. Solo l’attenzione internazionale dei media ha evitato che la richiesta di estradizione per Assange formulata dal governo americano a quello britannico non abbia ancora avuto seguito. Il capo di accusa a lui contestato negli USA inizialmente era quello di cospirazione e spionaggio.

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Quella per la sicurezza è diventata una vera e propria ossessione per il popolo americano, sempre più turbato dallo spauracchio di essere accerchiato e sotto attacco da parte di un nemico che, se non c’è, va cercato e trovato a ogni costo. Sono la sua stessa classe politica e i suoi vertici militari ad agitargliene davanti lo spettro. È in questo clima malato che la violazione della segretezza e, di conseguenza, della presunta sicurezza nazionale vengono prima della divulgazione di una verità che ne sconfessa le basi, mettendo il paese in cattiva luce. È forse un retaggio della madrepatria originale. La Gran Bretagna, infatti, da cui gli Stati Uniti si sono staccati, senza mai realmente tagliare i ponti, il gusto dell’intrigo lo ha coltivato in secoli di prevaricazioni coloniali. È un paradosso, visto che proprio dal rifiuto del giogo coloniale sono nati gli stessi Stati Uniti d’America.

Secondo Melzer, ci vorrebbe meno segretezza e, magari, più riservatezza, perché la prima «non evita soltanto che certi fatti diventino di dominio pubblico, ma li sottrae anche al controllo giuridico e a possibili sanzioni». Ed è proprio per quello che la segretezza è la parola a cui si appigliano sempre più i governi delle grandi potenze: per non dover dare spiegazioni. Una crepa nella segretezza crea una deflagrazione molto più forte. Eppure, sottraendo certe verità al controllo del pubblico, «si apre la porta agli abusi e si arriva inevitabilmente a occultare i reati, allo sfruttamento e alla corruzione».

Non a caso, il filmato dell’elicottero americano in Iraq divulgato da Assange ha fatto da spartiacque. «È come se ogni secondo… ci gridasse: “Ecco il vero volto della guerra, guardalo bene. Da questo momento non potrai più dire che non sapevi…”.» Perché Assange e altri giornalisti coraggiosi come lui combattono, sì, contro la disinformazione, ma pure contro il nostro «immobilismo e autoinganno», come sostiene lo stesso Melzer.

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È quasi commovente constatare l’iniziale ritrosia di Nils Melzer a occuparsi di un caso mediatico di tale portata. La sua vasta esperienza in scenari di guerra difficili come pure in contesti nazionali in cui la tortura è un’arma politica all’ordine del giorno avrebbe dovuto metterlo al riparo dal timore di essere a sua volta strumentalizzato, eppure Melzer si accosta con una certa titubanza al caso e solo dopo essere riuscito a far visita ad Assange in carcere in Inghilterra inizia a maturare convinzioni che lo portano a sposarne la causa, a farne un paladino quanto mai significativo della sacrosanta crociata contro l’occultamento selettivo della verità. D’altra parte, è l’autore stesso a spiegare perché mai abbia deciso di prendersi a cuore questo caso: «Dopotutto, Assange non è al momento l’unica vittima di torture alla quale non si fa giustizia, né il modo in cui è stato trattato è la forma peggiore di tortura in assoluto…». Però, a questo caso Melzer tiene particolarmente «perché ha ricadute che vanno ben oltre la persona di Assange e persino oltre i singoli stati implicati direttamente. Esso mette in mostra un fallimento del sistema, che mina gravemente l’integrità delle nostre istituzioni democratiche, i nostri diritti fondamentali e, più in generale, lo Stato di diritto».

Melzer la prima visita ad Assange l’ha fatta insieme a due medici, consulenti internazionali di fama e con lunga esperienza in casi eclatanti di tortura. E a sua volta ha sperimentato la strisciante contrarietà e la plateale stizza del governo britannico, non entusiasta di concedergli tale privilegio, al punto da mettergli una serie di bastoni tra le ruote in quella che, come dice l’autore, si configura come una forma di «soft harassment», ovvero una blanda – ma nemmeno troppo – violenza psicologica. Ovviamente, non è bastata a dissuadere Melzer e, semmai, ne ha rafforzato le convinzioni.

Mi sento di aggiungere che, dopo aver letto Il processo a Julian Assange, disporremo di qualche strumento in più per esercitare il nostro sacrosanto diritto di opporci allo strapotere degli stati divenuti potenze planetarie. Sono proprio la mancanza di informazioni chiare e la mistificazione propagandistica delle poche verità a nostra disposizione a renderci deboli di fronte a prevaricazioni come quelle ordite ai danni di Julian Assange. Il suo caso è quello di un uomo che, semplicemente, ha scelto di raccontare una verità inconfessabile e che, per questo, è stato «perseguitato e maltrattato».

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Più volte, negli ultimi anni, qualcuno ha proposto che a lui venisse assegnato il premio Nobel per la pace. In considerazione della dubbia valenza pacifista di parecchie delle figure internazionali a cui è stato attribuito con estrema superficialità, tributarlo ad Assange sarebbe un segnale forte.

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