Il silenzio del coro: il baratro dell’umanità in movimento

Distinguere oggi fra chi emigra per ragioni economiche e chi lo fa per scappare da una guerra è pericoloso ed è pure fuorviante, per non dire ipocrita

Il silenzio del coro: il baratro dell’umanità in movimento
Lo scrittore senegalese Mohamed Mbougar Sarr
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16 Maggio 2023 - 21.59


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di Rock Reynolds

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Quello dell’immigrazione è un tema spinoso, lo sappiamo tutti. Talmente spinoso che su di esso e sulla promessa di risolverlo muscolarmente una volta per tutte la Destra ha in larga parte costruito il suo recente successo elettorale. Agitando lo spettro della sostituzione etnica – di inesistente rilevanza scientifica e di quantomeno dubbia fondatezza socio-antropologica – la Destra è riuscita a trasformarlo in una dirimente questione politica. Naturalmente, il problema degli sbarchi clandestini non è minimamente cambiato e, semmai, i recenti incontri tra i vertici del nostro governo e la controparte libica indicano una scelta che non tiene conto della posizione di totale inferiorità dei migranti, trasformandoli da entità di poco conto a numeri di nessuna rilevanza, de-umanizzando completamente le loro storie drammatiche, rischiando addirittura di ripetere un errore abusato e imperdonabile: regalare fondi a un governo fantoccio che ha già dato prova di non essere in grado di gestire la contingenza e, addirittura, di non aver nessuna intenzione di volerlo fare. Insomma, l’ennesima boutade elettorale, una presa in giro che assume contorni tragici più che farseschi.

Ecco che un romanzo come Il silenzio del coro (Edizioni e/o, pagg 400, euro 18,50) del senegalese Mohamed Mbougar Sarr, vincitore del premio Goncourt nel 2021 con il libro La più recondita memoria degli uomini, può restituire dignità al processo stesso del migrare e, soprattutto, ai milioni di persone che sono costretti a farlo. Distinguere oggi fra chi emigra per ragioni economiche e chi lo fa per scappare da una guerra – peraltro, in larga parte sfaccettature diverse, non contrapposte, del medesimo fenomeno – è pericoloso ed è pure fuorviante, per non dire ipocrita. Chi decide di imbarcarsi in viaggi lunghi, costosi e faticosi sfida l’ignoto peggio di una nave che, prima che Colombo dimostrasse che la terra è rotonda, avesse deciso di varcare le Colonne d’Ercole.

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Settantadue africani approdano sulle coste della Sicilia, ad Altino, dove l’associazione di stampo cattolico Santa Marta se ne prende cura. Naturalmente, non tutta la popolazione vede di buon occhio tanta generosità cristiana, malgrado il parroco sia in prima fila nel processo di accoglienza. In questo, Il silenzio del coro è davvero un romanzo corale, raccontato da più punti di vista: quello di svariati cittadini di Altino e quello di diversi migranti con le loro storie personali che, immancabilmente, condividono il punto di partenza e quello di approdo, sia sul piano concreto che metaforico. L’Africa è la grande patria adorata che, però, non riesce a dare una speranza di vita accettabile ai suoi figli, malgrado la sua vastità e malgrado le sue enormi ricchezze. L’Europa, nella fattispecie l’Italia, è il dover essere che, a sua volta, non è in grado di fornire le risposte che i migranti cercano.

C’è una Sicilia che finisce per essere il punto di arrivo fisico dei barconi provenienti da quella Libia che è una sorta di inferno in terra d’Africa. C’è la paura di chi sopravvive a un naufragio e viene soccorso e inserito in una comunità d’accoglienza. C’è lo straniamento di chi deve sottostare a vincoli e privazioni burocratiche di quella libertà che dovrebbe appartenere a ogni essere umano, indipendentemente dalla sua provenienza. E c’è la frustrazione nel veder procrastinata, se non definitivamente cassata, la richiesta di documenti di asilo e di permessi di soggiorno, una frustrazione che si trasforma in acredine, prima, e violenza vera e propria poi.

Non manca, naturalmente, la rappresentazione di alcuni dei cliché a cui l’annosa questione dell’immigrazione clandestina ci ha assuefatti, da un lato come dall’altro della barricata: l’immigrato spaventa, rappresenta l’ignoto per noi tanto quanto il nostro continente rappresenta le Colonne d’Ercole per esso; la società europea, ovvero il mondo dell’uomo bianco, anche quando accoglie viene vista con diffidenza dall’immigrato che le imputa la colpa coloniale del sottosviluppo dell’Africa. Questa incapacità quasi atavica di far incontrare su un terreno di dignità umana chi è in fuga e chi accoglie finisce quasi inevitabilmente per esplodere in violenze e sopraffazioni, dall’una e dall’altra parte, di debordare in piccole, meschine miserie quotidiane.

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Non a caso, ne Il silenzio del coro, c’è chi, come il nigeriano Salomon, è in Europa solo per attuare un folle progetto di vendetta, arrogandosi un diritto divino di rappresaglia che nemmeno la generosità di chi lo ha accolto riesce a fargli abbandonare. E c’è pure chi, come Maurizio Mangialepre, ha una sua agenda che confligge apertamente con qualsiasi sforzo di accogliere e integrare: per lui e per chi, come lui, ha la convinzione della superiorità dell’uomo bianco su ogni altra etnia e dell’equità della superiorità economica dell’Europa sugli altri continenti, i migranti devono tornarsene a casa loro e le loro difficoltà in patria non possono essere un problema italiano ed europeo.

Questo è il romanzo della delusione, del fallimento. Del fallimento di tutti i suoi protagonisti: dal prete e dall’associazione che si prodigano per accogliere i migranti ai migranti stessi che non riescono del tutto ad assimilarsi, dai politici che strizzano l’occhio buonista alla generosità verso i deboli e che, con quello più acuto, non perdono di vista l’umore dell’elettorato ai cittadini facinorosi che rimestano il fango torbido dell’odio e del respingimento. Si percepisce che la violenza potrebbe esplodere.

Se questo romanzo ha un limite, forse è la sovrabbondanza: Il silenzio del coro è un torrente in piena, raccontato su più piani narrativi, ma di certo scava nel concetto stesso di accoglienza, qualcosa di ben più sfaccettato della sua definizione da vocabolario. Come dice un migrante giunto ad Altino da parecchio e ormai integrato e impegnato nel fornire aiuto ai suoi conterranei in arrivo, «Mangiare e avere un tetto sopra la testa sono due cose importanti, vitali, ma non fondamentali. Non bastano. Gli uomini, tutti gli uomini, hanno bisogno di ragioni più profonde per vivere». E Mohamed Mbougar Sarr addirittura ci fa riflettere su aspetti della catena dell’accoglienza che talvolta diamo per scontati e che meritano di essere ponderati. Per bocca di uno dei personaggi del suo romanzo, Mohamed Mbougar Sarr usa parole forti: «E la Chiesa… Accoglie per grazia di Dio mentre invece dovrebbe accogliere per la salvezza degli uomini… La carità della Chiesa è un dogma, non un moto che viene dal cuore». Una frase impietosa, con più di una sfumatura di ingratitudine, ma chissà che fra chi viene accolto da una delle numerose e benemerite associazioni cristiane non ci sia chi si fa quell’idea, il che dà ulteriormente la dimensione della complessità del problema.

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Leggendo Il silenzio del coro si ha davvero la percezione di come la condizione del migrante paradossalmente sia la meno adeguata a favorirne l’accoglienza. Chi è in fuga da se stesso e da una società dalla quale ha deciso dolorosamente di prendere le distanze si porta appresso un fardello emotivo talmente pesante da pregiudicarne spesso il futuro. Perché chi in patria non si sente del tutto a casa prova una vergogna profonda, un’alienazione totalizzante che ne sgretola ogni certezza. Ecco che «Partire, scappare dalla vergogna, realizzare il Sogno, poi tornare e uccidere la vergogna, poterla finalmente guardare negli occhi» è l’estrema ratio.

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