Petrović: l’epopea del Mozart dei canestri

Dražen Petrović. Il primo uomo sulla luna (66thand2nd, pagg 235, euro 18) di Lorenzo Iervolino è più di una semplice biografia.

Petrović: l’epopea del Mozart dei canestri
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11 Giugno 2023 - 16.20


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di Rock Reynolds

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Dražen Petrović. Il primo uomo sulla luna (66thand2nd, pagg 235, euro 18) di Lorenzo Iervolino è più di una semplice biografia. Non segue un andamento cronologico lineare e scava con passione vera nella psicologia del campione, senza mai scordarsi del clima sociopolitico che ne scandì la vita di ragazzo semplice e poi di campione senza pari.

Quanto mi ha fatto arrabbiare quel ragazzino che, con quella chioma di riccioli ribelli, si muoveva sul parquet con la leggiadria e la disinvoltura di una rondine nel cielo e che sul campo da basket sembrava esserci nato. Sua madre non l’aveva certamente partorito lì, ma lui, già ad altissimi livelli, vi trascorreva buona parte della giornata, sottoponendosi ad allenamenti intensissimi con l’obiettivo – una vera e propria ossessione – di diventare grande. Forse, addirittura, il numero uno. Immagino abbia fatto arrabbiare molti altri: in primis i suoi avversari, che irrideva con pose da sbruffoncello di quartiere ogni volta che metteva a segno un canestro ma spesso pure i suoi compagni di squadra, a cui le smargiassate di quel giovane non andavano particolarmente a genio e che si sentivano giustamente inadeguati alla sua genialità sportiva. Tutti sapevano che Dražen Petrović avrebbe fatto una determinata finta oppure si sarebbe prodotto in un tiro in sospensione cadendo all’indietro, ma nessuno o quasi riusciva ad anticiparlo o neutralizzarlo, veloce e imprevedibile com’era. L’estro pittorico e, soprattutto, il sorriso beffardo di quell’anomalo cestista croato furono croce e delizia delle opposte tifoserie e non di rado furono pure la scintilla di un principio di rissa solitamente sedato dai compagni di squadra se non, addirittura, da suo fratello maggiore Aco, a cui inizialmente il giovane Dražen si era ispirato e con il quale avrebbe mantenuto sempre una sana concorrenza. Di cinque anni più giovane, Dražen per parecchio tempo fu l’ombra del fratello che solo la sua partenza da Sebenico verso Zagabria sgravò di quel fardello che non gli aveva ancora consentito di spiegare le ali.

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E chi avrebbe mai detto che un ragazzino nato e cresciuto a Sebenico, una cittadina costiera della Croazia avrebbe messo quella località praticamente per la prima volta sulle cartine internazionali? E che lo avrebbe fatto attraverso il basket? In fondo, il KK Šibenka, la squadra locale, era giunto nella prima serie del campionato jugoslavo da poco e deve la sua effimera fama a quell’incredibile talento che riuscì a portarla al successo nel campionato del 1983 (successo poi cancellato quasi inspiegabilmente a tavolino in favore dell’altra finalista, il Bosna Sarajevo), e a due finali di Coppa Korac entrambe perse contro il Limoges. Poi, a soli vent’anni, il salto verso una vetrina più degna della sua unicità: il Cibona Zagabria, alla corte del fratello Aco che avrebbe presto detronizzato perché non possono coesistere due re. Due vittorie nella Coppa dei Campioni potrebbero sembrare una bazzecola per un giocatore che aveva altre mire fin dal principio. L’NBA era ancora una chimera per i grandi talenti dell’Est: il campionato pro americano ancora non aveva capito bene quanto fossero forti quei giocatori e quanto la loro presenza avrebbe dato lustro internazionale alla lega. Ecco, dunque, spiegato il passaggio di Dražen al Real Madrid i cui tifosi, dopo averlo odiato per anni, lo elessero a loro assoluto beniamino. Poi, complici partite epiche con la nazionale della Jugoslavia, l’NBA cessò di essere un miraggio, anche perché nel frattempo venne varata una sorta di “legge Dražen Petrović” che tolse gli ultimi vincoli “socialisti” a quel tipo di esperienza.

Dražen Petrović non è mai stato un giocatore normale: il nomignolo di Mozart dei canestri non gli venne affibbiato a caso. Il talento cristallino era davanti agli occhi di tutti, la sua ferocia agonistica era evidente. Meno scontata era la sua voglia di migliorarsi. Come nella cura maniacale in ogni tipo di allenamento, soprattutto nel perfezionamento del tiro in sospensione che per lui, nonostante un enorme talento, non era un movimento naturale e che, soprattutto negli ultimi anni, quelli nell’NBA, con il tiro da tre punti, divenne uno dei suoi massimi punti di forza. In quegli anni, Dražen arrivò a padroneggiarlo con assoluta maestria per poter essere il migliore e svettare su chiunque altro. La tragica fine prematura di Dražen avrebbe lasciato senza risposta alcuni grandi quesiti sulle sue reali potenzialità, sul fatto che con il tempo lui potesse davvero aspirare a un posto nel primo quintetto dell’NBA. In fondo, al secondo quintetto, quello cosiddetto difensivo dell’All Star Game, ci arrivò. Ma, conoscendo la fiducia sfrenata nei propri mezzi e l’ambizione altrettanto smodata che solo un campione assoluto coltiva, Dražen di limiti non se ne poneva. Tutto sommato, non avrebbe sorpreso chi lo conosceva bene se si fosse dato l’obiettivo di avvicinarsi ai livelli della pallacanestro di Michael Jordan, se non addirittura di eguagliarla. Eppure, Dražen dovette sudarsi un posto fisso in squadra più di quanto gli fosse mai accaduto in Europa, nonostante, nel frattempo, avesse sbriciolato ogni record con la maglia della sua nazionale e avesse pure fatto fare qualche figuraccia epocale alle squadre nazionali americane (prima dell’avvento del Dream Team) e avesse quasi fatto il colpaccio pure alle Olimpiadi di Barcellona.

C’è, però, una dicotomia tra il Dražen Petrović idolo delle folle sul campo da gioco, sbruffone e guascone, e quello pacato, timido, quasi dimesso lontano dai canestri. In fondo, rimase un ragazzino talmente concentrato sulla pallacanestro da non avere quasi tempo per le banalità del mondo. Come quando, dopo la vittoria nella prima finale della Coppa dei Campioni da parte del Cibona Zagabria contro il Real Madrid, la squadra si ritrovò in un locale del centro per una festa privata. Il livello alcolico medio salì alquanto, ma Dražen se ne andò quasi subito, praticamente senza bere un goccio: si giustificò dicendo che l’indomani mattina lo attendeva una lunga seduta di allentamento al tiro. Ecco cos’era Dražen: quasi l’archetipo del talento naturale che, per emergere in senso assoluto, si impegna più di chiunque abbia doti nemmeno lontanamente paragonabili alle sue.

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Ma Dražen è pure l’incarnazione del sogno indipendentista della sua nazione. Non mi riferisco alla Jugoslavia voluta da Tuto bensì alla Croazia. Esiste un docufilm molto ben fatto, a tratti persino commovente, che descrive l’amicizia tra Dražen e Vlade Divac, centro serbo di qualche anno più giovane di lui e tra i primi europei ad imporsi nell’NBA, forse ancor più della stella croata. Il film, Once Brothers, del 2010, racconta la forza dell’amicizia ma pure la capacità distruttiva del rancore bellico. Dražen non perdonò mai all’amico non aver assunto una posizione critica nei confronti delle scelte egemoniche serbe.

Ma, facendo un passo indietro, è interessante ciò che Lorenzo Iervolino scrive a proposito dei festeggiamenti per la vittoria del Campionato Europeo a Zagabria nel 1989 da parte della nazionale jugoslava, una compagine che rappresentava un po’ tutte le etnie del paese. «L’inno è cantato con trasporto e leggerezza… Ed è forse l’ultima genuina, credibile rappresentazione della Jugoslavia unita.» Tre giorni dopo, la presa di posizione dei serbi in Kosovo e Vojvodina voluta dal nuovo uomo forte dopo Tito, Slobodan Milošević, portò a un’escalation militare rapida che, di fatto, mise fine al progetto Jugoslavia. Sappiamo tutti che, per mettere davvero in soffitta quel progetto, le repubbliche che lo componevano dovettero passare tra sofferenze, lutti e odi che restano ancor oggi motivo di forti frizioni. «L’ultimo atto della Jugoslavia unita è la vittoria di un campionato europeo», quello del 1991 a Roma, quando quel gruppo di giocatori che aveva vinto tutto festeggiò insieme, due mesi prima del feroce assedio di Vukovar. E quello fu il momento in cui la Jugoslavia cessò di esistere.

La storia di Dražen, la cui famiglia era la quintessenza dell’essere jugoslavi – madre croata, padre serbo di Bosnia Erzegovina – non finisce qui. Prima dei titoli finali ci sono ancora un paio d’anni ad altissimo livello nell’NBA, prima che un maledetto incidente stradale in Germania su un’automobile guidata troppo velocemente dalla sua fidanzata lo sbalzasse fuori dall’abitacolo, facendone una leggenda del basket mondiale e una sorta di icona della neonata Croazia.

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