di Antonio Salvati
È necessario – per ciascuno di noi – rivedere le proprie idee, le nostre categorie, la nostra interpretazione del passato oltre che del presente. Ancor più vero lo è per chi esercita il mestiere di storico. Necessario e spesso straziante quando «guardare la realtà può essere doloroso. Anche perché si tratta di dichiarare morto il nostro mondo, quello in cui ci siamo formati. E insieme dobbiamo prendere atto che certe categorie interpretative sono sfocate, quindi non più capaci di vedere il nuovo che è sotto i nostri occhi».
È lo spirito dell’ultimo saggio di Andrea Graziosi, Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo, (Bologna, Il Mulino, 2023, pp. 211, € 16,00) – noto e autorevole storico italiano, tra i maggiori esperti dell’Unione Sovietica – che si propone di analizzare il passaggio d’epoca di cui siamo stati distratti protagonisti, mettendoci a disposizione una nuova cassetta degli attrezzi. Il tentativo dell’autore è quello di vedere e far vedere la «crisi del nostro Occidente e del tipo di Moderno che gli è legato, per passare poi a criticare alcuni dei discorsi da esso generati e concludersi con alcune idee su ciò che sarebbe possibile e opportuno fare, specie in Europa». Per Graziosi la storia non può ambire a fare previsioni leggendo, sul lungo periodo, le strutture del passato. È però vero che la massa delle informazioni oggi pressoché immediatamente disponibili è tale da rendere possibile un trattamento storico del presente». Con la consapevolezza dei limiti, «che non sono solo o tanto quelli posti dalla mancanza di archivi ma appunto quelli derivanti dall’impossibilità di prevedere le mutazioni, come ci hanno appena ricordato il Covid o la comparsa del putinismo». Per lo storico Chaunu, che delle Annales fu esponente di punta, è quindi possibile «conquistare la spiaggia della memoria vivente», ossia i 50 anni della chiara memoria adulta, e farne la storia,«colmando – precisa Graziosi – in parte la fossa scavata tra storia e presente dall’allungamento della vita umana. Ma ciò va fatto con la coscienza che così facendo possiamo al massimo riuscire a vedere le mutazioni già in atto, a definire alcuni problemi e a individuare alcune possibili traiettorie».
Secondo Graziosi, Covid e invasione russa dell’Ucraina hanno confermato che diversi idealtipi occidentale vanno abbandonati perché non più utilizzabili, come l’illusione del progresso continuo, il mito del “piano” (vedi URSS). In questo momento decisive questioni meritano di essere considerate priorità, come la presa di coscienza del declino, il decremento e il mutamento demografico che purtroppo stanno costruendo «una nuova identità europea non necessariamente liberale».
Evidentemente quella di «Occidente» è una categoria intellettuale, «e quindi mobile, storicamente e geograficamente», da collegare le sue diverse incarnazioni, «a partire da quella ateniese fino a quella odierna, al valore di una libertà e dignità individuali declinabili in modi diversi e sempre cresciute accanto e insieme a oppressione e ingiustizia».
Il nostro Occidente è quello nato dopo il 1945 da un’associazione tra Stati Uniti ed Europa occidentale che fino agli anni Cinquanta ha dominato il mondo non socialista. Potremmo dire che prima di quest’ultimo vi erano stati quello ateniese, quello cristiano e dello stoicismo imperiale romano, e quelli dei comuni italiani, del Rinascimento e dell’illuminismo anglo-francese. Questo Occidente – come abbiamo detto – era composto da un vittorioso nucleo americano, seppur ancora culturalmente ed etnicamente europeo; «un mondo anglosassone, pure vittorioso, ad esso associato e indeciso nei riguardi delle sue relazioni con l’Europa continentale; e un progetto europeo con diverse anime, composto essenzialmente da Stati etnonazionali sconfitti, e quindi indeboliti, ma fondati su fortissime tradizioni in parte vivificate dall’opposizione al nazismo. La definizione di questo nuovo Occidente – spiega Graziosi – come impero al tempo stesso informale e liberale (specie dopo il crollo degli imperi coloniali) sembra quindi fondata». Esso si dotò molto presto di un’alleanza militare e di forme sofisticate, in parte specifiche e in parte con ambizioni globali più che «internazionali», di collaborazione e integrazione economica, commerciale e finanziaria, come la Banca mondiale o il Fondo monetario internazionale. Il progetto di cooperazione economica europea ne era parte: «esso fu avviato da un piano Marshall fondato sulla decisione americana di tenere in vita, rinnovandola e rafforzandola, la grande macchina di coordinamento e direzione dello sforzo bellico, come i francesi avevano cercato di fare, senza riuscirvi, dopo il 1918».
Si è già accennato quanto Covid e Putin hanno definito ed evidenziato la fragilità delle nostre società e di molte delle nostre idee, rendendo plasticamente quanto le categorie con cui siamo cresciuti e abbiamo interpretato il Novecento, «e le nostre stesse vite», siano ormai logore.
In merito alle questioni demografiche, si rileva che negli anni Settanta la speranza di vita continuò e inaspettatamente a crescere, anche se in maniera diversificata. Se dopo il 1945, grazie ad antibiotici e vaccini, essa aveva raggiunto in un ventennio i 65 anni tanto in Occidente che nel blocco sovietico, a partire dal 1965 la crescita riguardò solo i paesi occidentali, dove quella speranza si avviò rapidamente a superare gli 80 anni. Al primo invecchiamento, legato a una crescita dei cinquanta-sessantenni che aveva costituito in Europa larga parte di quello che è erroneamente noto come baby boom, ne seguì così un secondo. Esso era ed è caratterizzato da una crescita degli ultrasessantacinquenni che poneva e ancora pone problemi nuovi di produttività, quota della popolazione attiva sul totale, e sostenibilità dei neonati sistemi pensionistici e sanitari. Nel 2001 l’età media della popolazione dei 28 paesi che nel 2020 facevano parte dell’Unione Europea era già salita a 38 anni. Essa avrebbe raggiunto nel 2020 i 44, e i 47 in Italia dove il 22,6% degli abitanti aveva ormai più di 65 anni rispetto all’8,1% del 1951.
Il rallentamento e poi l’arresto della crescita demografica hanno portato a una rapida riduzione del peso dell’Europa e del mondo bianco: nel 2020 18 dei 20 paesi con la popolazione in più veloce declino erano europei (Cuba e Giappone erano gli altri due); a causa della pesante eredità del Moderno minore la maggioranza di essi era situata nell’Europa orientale, e l’Italia era al 20o posto, primo dei grandi paesi dopo il Giappone. Gli undici paesi con un tasso di fertilità superiore a cinque figli per donna erano invece tutti in Africa, un continente che al momento della mia nascita aveva meno della metà degli abitanti dell’Europa; ne ha oggi quasi il doppio e dovrebbe averne quasi il triplo al momento della mia morte «statistica» alla fine degli anni Trenta e più del sestuplo alla fine di questo secolo, quando avrà anch’essa raggiunto condizioni quasi stazionarie. Il declino relativo in termini di produzione o reddito pro capite, o nel livello dei consumi, è meno impressionante, ma sempre notevole, e questo mutamento del peso reciproco delle varie parti del mondo è alla radice di quel riemergere di un «mondo multipolare» di cui si parla. Esso può essere visto – spiega Graziosi – «come un altro passaggio in quel lungo declino della supremazia europea cominciato prima della prima guerra mondiale ma accelerato da essa, anche se l’Europa è poi riuscita a riprendersi grazie al sostegno provvisorio di Stati Uniti che a metà del Novecento erano ancora, come sappiamo, una sua parte. Questo declino, presentato come crisi dell’eurocentrismo e della cultura alta europea e inaridimento delle sue radici nel mondo classico e nel Rinascimento, ma anche del «mondo russo», o del secolo americano, ha generato e genera spontaneamente sgradevoli reazioni di rivincita e di rivalsa. Queste ultime sono tanto più forti dove esso è stato più grave e profondo, come nella Russia di Putin che rimpiange la potenza sovietica, o più recente, meno evidente e anche per questo più sorprendente come negli Stati Uniti del Make America Great Again di Trump o nel Regno Unito della Brexit, che è a suo modo l’inseguimento di un sogno di rinnovata grandezza».
Occorre valutare le conseguenze «interne» della nostra crisi scaturite da quella dell’invecchiamento, e in particolare dell’invecchiamento qualitativamente nuovo generato dal movimento verso il figlio unico e da una speranza di vita che arriva a quasi 85 anni. Sono anni che ci ritroviamo a fronteggiare alcuni dei problemi generati dal rapporto tra anemia demografica (l’aumento del benessere e la maggiore libertà non portano a un aumento della popolazione, bensì al suo contrario; raggiunto un certo livello di benessere e di presa di coscienza individuale, finché è loro possibile gli esseri umani preferiscono in maggioranza massimizzare il loro benessere in quanto singoli), invecchiamento della popolazione, rallentamento della crescita, persistenza della disoccupazione, tendenza (in seguito superata) all’abbassamento dell’età pensionistica e paura dell’immigrazione. Le nostre società sono ormai strutturalmente portate a guardare il passato. Pertanto, serve uno sforzo vero per guardare al futuro. Viviamo in società vecchie dove il peso del passato è straordinariamente rilevante, anche nei comportamenti: si vive guardando nel passato. Questo spiega anche perché oggi la destra ha un vantaggio nella vita politica.
Paradossalmente, ma non tanto, visto l’insieme dei sentimenti che crescono col crescere della coscienza della propria finitezza e del proprio declino fisico, un senso di insoddisfazione e di rancore è oggi diffuso anche nella parte più anziana ed economicamente più favorita della popolazione, le cui sensazioni dominano buona parte dello spazio pubblico. Benché sia difficile valutare se sia vero che le popolazioni più anziane differiscono nel carattere da quelle più giovani, sembrano fondate le ipotesi di coloro secondo i quali le società che invecchiano assumono «quei caratteri di assennatezza, di prudenza, di calcolo, di egoismo, di grettezza, che formano i pregi e gli inconvenienti delle età senili». O, per usare le parole dello studioso Sauvy, che esse siano fortemente influenzate «da persone vecchie, che vivono in vecchie case, rimuginando vecchie idee». Il salto dell’invecchiamento rappresentato dalla quota crescente degli ultrasessantacinquenni acutizza questi fenomeni e produce, per dirla ancora con Sauvy, società «più portate alla commemorazione che all’immaginazione e all’innovazione». Viviamo insomma in società in cui non solo il passato pesa più di quanto sia mai accaduto, ma che guardano al passato invece che al futuro, e per di più – almeno in Occidente – a un passato straordinario, quello dei miracoli del secondo dopoguerra, un passato che, come suggerisce lo stesso uso del termine «miracolo», non è ragionevole considerare normale. In tal senso, per Graziosi, «le nostre sono quindi anche società spontaneamente «reazionarie», così come lo sono i nostri tempi per il ruolo che vi svolgono il mito del passato e il rimpianto per esso. È un rimpianto comprensibile alla luce del fatto che quel passato consentiva di realizzare senza troppa fatica ambizioni modeste ma, proprio per questo, ampiamente diffuse e, forse soprattutto, perché esso era anche il tempo della gioventù degli anziani di oggi».
Dopo una lunga stagione in cui è sembrato che il futuro fosse dei giovani, una stagione che ha toccato un nuovo culmine negli anni Sessanta del Novecento dopo più di un secolo dominato dal culto e dalla forza della gioventù, almeno da alcuni decenni, e almeno finora, nel Moderno maggiore maturo le fasce più giovani della popolazione perdono di peso e di ruolo. Esse subiscono in particolare una relativa emarginazione delle loro esigenze già emersa con chiarezza nei dibattiti e nelle scelte in materia di pensioni o nella creazione di doppi standard loro sfavorevoli sui luoghi di lavoro, che le politiche adottate di fronte al Covid hanno reso ancora più evidenti. In società a lungo dominate dal discorso sulla difesa dei «diritti» acquisiti, «la naturale divisione e contrapposizione tra giovani e anziani ha teso insomma ad accentuare i suoi tratti di linea di stratificazione sociale, su cui si addensano conflitti che potrebbero diventare acuti. Il significativo, ancorché relativo, aumento del benessere e delle aspettative ha portato inoltre all’emersione di una linea di faglia che già esisteva e tagliava in profondità, ma era poco visibile e aveva anche per questo un significato e un impatto minori. Penso a quella rappresentata dalle persone affette da disabilità di diverso tipo, un tempo spesso condannate a una vita di emarginazione e isolamento». I dati sul loro numero sono impressionanti, specie se si considerano, come è ragionevole fare, anche le disabilità di tipo psicologico o mentale, meno evidenti ma altrettanto rilevanti, specie nelle nostre «società della conoscenza». Secondo la National Alliance on Mental Illness, negli Stati Uniti quasi un adulto su cinque si confronta ogni anno con questi problemi, che limitano sostanzialmente la capacità di vivere e agire di almeno 10 milioni di individui. Gli adolescenti affetti dagli stessi problemi sono una percentuale simile, circa il 20%, e le persone che convivono con malattie mentali gravi, dalla schizofrenia a episodi depressivi maggiori, costituiscono più del 10% della popolazione. Ad essi vanno aggiunti i milioni di individui colpiti da fobie o stress post-traumatico per i motivi più diversi e gli effetti da dipendenze di vario tipo.
A fronte delle diverse questioni poste dall’autore, sarebbe opportuno ritornare sul significato dell’esperienza europea per il resto del mondo, un mondo che non ci è automaticamente favorevole e per buoni motivi. Farlo e farlo in maniera convincente, o anche trovare nuovi discorsi, richiede élite di grande statura. Speriamo che l’Unione Europea le abbia in sorte. Soprattutto speriamo di essere capaci di mobilitare per il futuro le energie che pure esistono, di individuare nuove e più convincenti soluzioni, e di sfruttare le opportunità che di continuo si producono.