Trecento anni fa nasceva Adam Smith, il celebrato teorico del liberalismo economico. E’ un’occasione importante per approfondire le idee che hanno guidato il padre di una visione che ci guida da moltissimo tempo. Ma è anche l’occasione per riflettere sul fatto che Adam Smith non era soltanto un economista, ma un filosofo, autore di assoluto rilievo per la filosofia morale. E’ di qui che parte padre Giovanni Cucci nel suo saggio su La Civiltà Cattolica per spiegarci chi fosse, cosa, alla fin dei conti, davvero pensasse Adam Smith. Le sue due opere di rilievo si dividono tra filosofia morale ed economia: La teoria dei sentimenti morali e La ricchezza delle nazioni. Smith parte dallo scetticismo di Hume, ma lo riformula. Condivide la centralità dei sentimenti nella valutazione dell’agire umano.
Per lui, scrive l’autore “sentimenti e immaginazione consentono di dare unità all’esperienza, la cui garanzia è posta in una nozione (Dio) capace di dare risposta all’insidia del dubbio e del caos, ben avvertite da David Hume, e porre rimedio all’esito finale di disperazione per non poter mai sapere come stiano le cose”. La credenza in Dio dunque ci spiega l’esigenza di giustizia che vuole il bene premiato e il male punito. Per Smith non c’è come in Cartesio solipsismo, né dualismo tra ragione ed emozioni: “ entrambe invece sono di aiuto per riconoscere la possibile rettitudine dell’agire morale. Infatti l’analisi dell’esperienza mostra l’importanza dei sentimenti nella morale: si può essere felici solo «nella coscienza di essere amati», contribuendo a realizzare il bene altrui. La ragione non può offrire indicazioni ineccepibili all’agire umano; può elaborare il concetto di una cosa, ma non la sua caratteristica di gradevolezza o sgradevolezza”.
Così sono i sentimenti a consentirci il confronto con l’altro, per capirci. I giudizi morali, sostiene Smith, dipendono dalla simpatia. Qui padre Cucci cita testualmente Smith: “ Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace […]. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è del tutto privo […]. Pietà e compassione sono parole appropriate per significare il nostro sentimento di partecipazione per la sofferenza altrui. La parola simpatia, nonostante il suo significato fosse forse originariamente lo stesso, ora tuttavia può, senza eccessiva improprietà, essere usata per denotare il nostro sentimento di partecipazione per qualunque passione”. Siamo in presenza di due parole assai importanti per il pontificato di Francesco: immaginazione e compassione. A mio avviso colpisce che il padre del liberalismo esponga categorie fondamentali nel pensiero di Francesco. E non sono le sole. Come Francesco, anche Smith afferma che l’uomo è un essere relazionale, e questo rende impossibile il relativismo, essendo una verità non discutibile per entrambi, in tutti i diversi contenuti umani. Se è relazionale è aperto all’altro.
Un altro passaggio dello Smith filosofo è fondamentale: come mai allora l’uomo è portato non solo a soddisfare i propri bisogni, ovviamente, ma a ricercare successo, accumulazione, potere? Viene in mente, leggendo la risposta di Smith, il pensiero del grande antropologo francese di recente scomparsa, René Girard: è per via dell’importanza dell’imitazione, diceva Girard, un qualcosa non molto lontano dalla tesi di Smith: “È la vanità che ci interessa, non il benessere o il piacere”. Si imita qualcosa, riassume padre Cucci, solo perché lo si vede praticato da altri. Non c’è dubbio però che si può sbagliare, nel campo degli oggetti fisici come in quello della morale. La soluzione che offre Smith è una correzione della spontaneità: “Per il filosofo scozzese questa correzione della spontaneità è possibile e alla portata di tutti grazie all’apporto di quello che egli chiama, con una espressione divenuta celebre, «lo spettatore imparziale», «una persona del tutto franca ed equa, che non ha nessuna relazione particolare con noi». E’ la mano invisibile, che “ si forma dalla riflessione e confronto dei diversi punti di vista, e rende capace di fornire una corretta valutazione della situazione, giungendo a uno sguardo distaccato su sé e sugli altri”. La possiamo chiamare Provvidenza benevola, capace di condurre tutto a ordine.
A questo punto si può osservare come questa concezione filosofica porti al liberalismo economico Adam Smith. La sua idea non è, spiega padre Cucci, che ognuno deve pensare solo a sé stesso. Certo, l’egoismo c’è, a volte prorompente, ma una mano invisibile (di nuovo!) ci guida al di noi stessi, del nostro gretto fine: “ Il sarto non cerca di farsi le scarpe, ma le compra dal calzolaio. Il calzolaio non cerca di farsi i vestiti, ma si serve da un sarto. Ognuno ha interesse a impiegare tutta la propria attività in modo che gli dia vantaggio sui vicini, e ad acquistare con una parte del suo prodotto o, ciò che è lo stesso, con il prezzo di una sua parte, qualunque altra cosa di cui abbia bisogno”. Stiamo arrivando a un punto di estremo interesse: “ Egli ritiene anche che ogni intervento istituzionale, tendente a regolamentare il mercato, possa comprometterne l’equilibrio, perché limiterebbe la libertà di commercio e di conseguenza il progresso”.
Questo non sembra del tutto conseguente con quanto letto in precedenza: sebbene padre Cucci ci dica che Smith è convinto che il valore delle merci può essere precisamente valutato, avrà valutato che nel “lasciar fare” ci sarebbero potuti essere abusi o storture, posizioni di dominio moralmente non accettabili. Scrive l’autore: “ Smith vedeva il governo del suo tempo del tutto schierato con gli interessi dei più ricchi, e soprattutto al fatto che esso privilegiava una precisa classe, l’aristocrazia, a scapito della borghesia imprenditoriale, che invece costituiva per il filosofo il vero motore propulsore dello sviluppo della società. In questo quadro, il ruolo del sovrano deve limitarsi a tre compiti: 1) proteggere la società dalla violenza e dall’invasione; 2) proteggere ogni individuo dall’oppressione di altri; 3) creare e mantenere opere pubbliche, che non esisterebbero se lasciate al gioco degli interessi dei singoli”. E’ un quadro molto diverso da quello che abbiamo conosciuto nel nostro tempo, quasi l’opposto della visione politica di base in tanta cultura politica che si richiama al capitalismo.
Stiamo arrivando alla conclusione sulle idee esposte e quindi alla comparazione tra il primo e il secondo pensiero: “ A prima vista, esse sembrano delineare orizzonti molto differenti: la Teoria dei sentimenti morali è all’insegna della simpatia e dell’interesse per l’altro, La ricchezza delle nazioni mostra una società retta da leggi impersonali e meccaniche (il calcolo del valore delle merci, il saggio di profitto, l’andamento della domanda e dell’offerta), rigidamente dirette dalla «mano invisibile». Eppure è significativo che questa espressione ricorra in entrambe le opere, e in un’altra, pubblicata postuma, La storia dell’astronomia: scritti differenti ma concordi nel mostrare la relazione con questa dimensione più grande dell’uomo in termini piuttosto impersonali e svalutanti. La «mano invisibile», in astronomia, indica la superstizione dei popoli primitivi che attribuiscono all’azione di Giove la spiegazione dei fenomeni naturali, invece di ricorrere alla ragione; in economia e morale, mostra invece «l’inganno» compiuto dalla natura nei confronti dell’agire umano, che nel perseguire i propri interessi contribuisce invece al bene comune. Una natura meccanicista, in linea con la visione del mondo e dell’uomo propria del meccanicismo newtoniano”.
Siamo arrivati al cuore del saggio: “Smith è un eloquente rappresentante dell’ottimismo illuminista: convinto di aver ormai trovato nella scienza newtoniana la possibile soluzione alla gran parte dei problemi del suo tempo, cerca di stabilire dei criteri, su base pragmatica ed empirica, per sfuggire alle derive scettiche nelle quali era caduta la filosofia di Hume, suo collega, amico e anche maestro. Per giustificarla, ricorre alla nozione, discussa ma fondamentale, della mano invisibile, una sorta di Provvidenza nella storia, capace di conciliare le passioni egoistiche con la felicità, da una parte, e di dare un fondamento scientifico all’economia di mercato dall’altra”. Ha ragione padre Cucci a mio avviso a concludere così: “ Come ha confermato la storia successiva, senza un controllo istituzionale il libero mercato non rivela la presenza della mano invisibile, ma dà luogo a crisi economiche gravissime. L’impossibilità di conciliare questi molteplici aspetti emerge con evidenza dall’assenza di una teoria politica in Smith, rimasta sempre allo stato di abbozzo, eppure indispensabile per garantire quella libertà naturale in grado di porre un freno all’avidità e alla sopraffazione di coloro che hanno nelle proprie mani la fetta più grande del mercato”. Aggiungerei a conclusione che il punto importante per noi oggi è valutare quanto la scomparsa di compassione e immaginazione nella seconda opera rendano questo pensiero meno avvincente, “umano”, di quello esposto nella precedente.