di Antonio Salvati
Pochi mesi prima di morire, nel 2018, lo scrittore Amos Oz tenne una lezione al Cymbalista Jewish Heritage Center presso l’Università di Tel Aviv in cui condensò la sua visione e la sua eredità politica da lasciare ai posteri, soprattutto ai nipoti. Grazie alla moglie e alla figlia, quella lectio è stata riportata in un denso libricino, dal titolo decisamente molto evocativo, Resta ancora tanto da dire. L’ultima lezione (Feltrinelli 2023, pagine 64, euro 9,00). L’autore ritorna su quella che ritiene la piaga più terribile di tutto il Ventesimo e il Ventunesimo secolo, il fanatismo, per poi soffermarsi, seppur succintamente, sull’ebraismo, «non solo in quanto religione, non solo in quanto identità nazionale, ma come civiltà, come millenaria continuità di testi; e anche quel che penso dello Stato d’Israele, di dove stia andando e di dove potrebbe andare, perché davvero resta ancora tanto da dire».
Lo scrittore parte dalla ferita esistente «fra noi e i palestinesi (…) da più di cent’anni».Una ferita aperta,«infetta, piena di pus. Un ascesso, ormai. Non si cura una ferita con un bastone. Non s’è mai vista una cosa del genere». Amos Oz auspica che un giorno i due popoli potranno trovare un accordo per vivere assieme. Tuttavia, precisa di non essere un pacifista bensì un combattente per la pace, un paladino della pace. Perciò non sono di principio contrario a un bel bastone. Se lo Stato d’Israele, se il popolo ebraico non avesse avuto un bel bastone, nessuno di noi sarebbe più qui. Saremmo tutti morti sotterrati o comunque ci avrebbero scacciati da qui brutalmente. Siamo qui perché ce l’abbiamo, un bel bastone». Oz è convinto che serve una forza militare efficiente per tenere a bada quella che ritiene madre di tutte le violenze del mondo, l’aggressività nella sopraffazione. E la sopraffazione non di rado va fermata con la forza. Per questo non ha mai creduto al make love not war, al porgi l’altra guancia, al all you need is love.
Si può vivere insieme? Come vivere insieme tra diversi in un tempo in cui le identità si rafforzano? Occorre, per Oz, trovare la lingua della cura, «che non è quella dell’oppressione, né quella della deterrenza, non è la lingua del “dare una lezione” e neanche quella dell’“una volta per tutte” e del “se le buscheranno di santa ragione”». È la lingua della cura. L’intellettuale israeliano non è convinto sulla soluzione a un solo stato multietnico e – pur dichiarando che non ha mai avuto problemi a vivere con gli arabi – precisa che «il mio problema è che non voglio essere una minoranza». E aggiunge: «non voglio essere una minoranza non solo fra gli arabi, non voglio essere una minoranza in assoluto, da nessuna parte. Non dopo quello che i miei genitori e i genitori dei miei genitori mi hanno raccontato. (…) Non dopo quello che mi porto addosso, che ho nel mio DNA. Non voglio essere una minoranza. Neanche in Svizzera. Figuriamoci nel Medio Oriente musulmano di oggi. Non voglio essere una minoranza non solo fra gli arabi, non voglio essere una minoranza in assoluto, da nessuna parte».
Oz non esita a manifestare il suo forte scetticismo sull’eventualità della condizione di una minoranza ebraica in uno stato arabo islamico. Non rappresenterebbe niente di buono: «perché dico questo? Perché vedo tutto così nero? Ho amici che vedono rosa, loro. Vedono coesistenza, vedono luna di miele, vedono rosa, loro. Vedono coesistenza, vedono luna di miele, vedono gli ebrei nella Spagna musulmana. Mi spiego. Quando ero bambino, quasi il venti per cento, persino il venticinque per cento degli arabi palestinesi erano cristiani. A Ramallah c’era una maggioranza cristiana, così come a Betlemme, a Beit Jalla. A Nazareth erano per lo più cristiani. In molti paesi della Galilea c’era una maggioranza cristiana. Non ci sono più, i cristiani. E non per colpa nostra, di Israele o dell’occupazione, non per colpa dell’oppressione o del sionismo. Non ci sono più». In realtà, vivere insieme è una continua negoziazione, come diceva Umberto Eco parlando di integrazione. Nel conoscere e nel negoziare, nel comporre alterità, nel creare connessioni, nel riconoscere meticciati, nel favorire il dialogo, si esercita l’arte del convivere, frutto di realismo e di speranza. È il realismo della ragione di fronte a una pluralità che impazzisce. Ne è convinto anche Oz che ritiene che nulla è irreversibile, convinto che l’uomo ha un finale aperto. Immaginare certo si può, si può sempre immaginare tutto, parafrasando Oz. Il noto scrittore ignora da dove arriverà la soluzione. Si tratta allora di trovare una soluzione in cui ambedue i popoli hanno gli stessi diritti. Ai leader e ai popoli sta decidere come, senza avere paure delle utopie, come sostiene Wlodek Goldkorn. Né dell’una né dell’altra: che si scelga la confederazione, oppure una separazione, purché si scelga una delle due. Pensando alle vicende politiche di De Gaulle che concesse l’indipendenza agli algerini; a Churchill che sfasciò l’impero sovietico, a Gorbačëv, all’accordo tra Begin e Sadat, a Rabin e Peres che strinsero la mano ad Arafat, Oz rimane convinto che «l’essere umano è una creatura imprevedibile». In tal senso, non esclude sorprese. La storia riserva sempre sorprese agli individui e ai popoli, alle nazioni. Occorre – questo è il problema – una leadership coraggiosa in grado di comprendere quando sarà opportuno operare nel profondo dell’animo degli israeliani, la maggior parte dei quali, falchi o colombe, laici o religiosi, da oltre vent’anni non mettono piede nei territori occupati. Nessuno dei due popoli ha intenzione di andarsene o rinunciare ai propri diritti, come diceva Oz. Certo, è un problema terribilmente difficile da risolvere, però, come ha sempre pensato Oz, tanti restano persuasi che alla fine non c’è soluzione razionale se non quella di arrivare a un accordo che porti al riconoscimento di due popoli in un piccolo pezzetto di terra (non più grande della Toscana). Malgrado il paese è benestante (seppure con grandi disuguaglianze e sacche di povertà) e sul piano internazionale pienamente legittimato (con l’eccezione dell’Iran) in Israele – al di là della presenza di una società viva e in perenne evoluzione – è assai diffusa una sensazione di insicurezza che – secondo Goldkorn – scaturisce anche dal fatto che Israele è in guerra fin dalla sua nascita. Oppure perché c’è la realtà dell’occupazione che dura da decenni, come sottolinea un altro grande scrittore David Grossman e su questo insistevano anche Oz e l’altro grande scrittore Abraham Yehoshua. In merito alle sorprese della storia, Oz ricorda significativamente la vicenda di Eshkol, uomo di pace, gordoniano e tolstojano, che nel 1967 si ritrovò a governare il regno ebraico più esteso dai tempi di re Davide e Salomone. Dieci anni dopo, Begin, esponente di spicco della destra israeliana, smonta questo “impero”, in nome della pace.
Insieme alle considerazioni politiche, in Resta ancora tanto da dire troviamo una profonda riflessione sulla nostalgia. Amos Oz ricorda un suo incontro avvenuto a Parigi con un intellettuale palestinese che gli disse che avrebbe ascoltato gli israeliani quando gli avrebbero restituito la sua casa d’infanzia. Oz critica fortemente tale ideologia che viene etichettata come “ritornismo” oppure nella forma più assoluta e radicale come “nostalgismo”. Uno dei più grandi errori che un uomo possa fare è quello di cercare nello spazio qualcosa che si è perduto nel tempo. La nostalgia però può essere utilizzata come stimolo creativo e cultura. A questo scopo ogni uomo deve sentirsi pienamente libero di sfruttarla. «I nostri malati di “ritornismo” cercano nello spazio qualcosa che hanno perduto nel tempo. Se rivuoi il Tempio, scrivi una poesia. Uri Zvi Greenberg l’ha fatto splendidamente. Scrivi un testo teatrale. Fai un film. Butta giù un romanzo. Sii pure nostalgico. Nessuno deve rinunciare alla propria nostalgia. Nessuna legge al mondo proibisce la nostalgia, né potrebbe mai una legge del genere. Anche se ci sono regimi che cercano di stabilire leggi su quello che è lecito ricordare e quel che è proibito, su cosa è lecito piangere e cosa no. Ma che importa. Se ti va di piangere su qualcosa che non c’è più, fallo pure. Scrivi di lei. Senti che ti manca. Immagina pure di fare con lei tutto quello che ti salta in mente e anche di più. Solo non cercare di andare a riscuotere nulla al bancomat, con la tua nostalgia».
Infine, al termine della lectio Oz riflette sul significato della leadership. Chi è un leader? Un capo è colui che dice alle persone che cosa nel profondo del proprio animo sanno di dover fare, ma non ne hanno voglia. «Ad esempio pagare le tasse. Ad esempio dividere questa terra in due stati. Chi sarà la persona che convincerà gli israeliani a fare una cosa che nel profondo del loro animo sanno che bisogna fare?».