di Antonio Salvati
La guerra in Ucraina avviene in un tempo in cui ovunque domina un pensiero incapace di concepire la complessità dei fenomeni, che frammenta ciò che nella realtà è strettamente connesso. Un pensiero incapace di concepire l’inatteso, gli effetti perversi e imprevisti delle nostre intenzioni. E soprattutto un pensiero troppo spesso non in grado di riconoscere il carattere inedito della condizione umana nel nostro tempo, emerso inatteso e deflagrante nel 1945 a Hiroshima, con l’esplosione della prima arma nucleare, che ha reso l’umanità capace di autosoppressione. Per questo Edgar Morin, malgrado la sua veneranda età, non smette di ammonirci – attraverso il suo ultimo apprezzabile volume Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa (Raffaello Cortina Editore 2023 pp. 112, € 12,00) – che questa minaccia di morte per l’umanità intera«si è oggi potenziata con la diffusione e la sofisticazione delle armi nucleari in un contesto planetario sempre più interconnesso ma non solidale», elevando un accorato appello contro la guerra e le sue devastazioni fisiche e morali sempre più irrevocabili. In virtù di questo simultaneo aumento di potenza e di interdipendenza il nostro mondo si espone pericolosamente alla possibilità di una catastrofe.
Edgar Morin ripercorrendo la sua lunga vita (101 anni compiuti), ricorda i modi in cui sono accadute le radicalizzazioni dei conflitti, e soprattutto individua nelle radicalizzazioni il trait d’union delle guerre del suo secolo, citando alcuni casi esemplari come la Guerra d’Algeria e quella di Iugoslavia. Ci mette in guardia affermando che corriamo il rischio di ritrovarci nello stesso tipo di sonnambulismo che accompagnò la discesa verso l’abisso del secondo conflitto mondiale. Oggi è sensibilmente cresciuta la possibilità di derive verso un abisso catastrofico, «possibilità alimentata da errori e illusioni, da capillari e sofisticate propagande mediatiche unilaterali se non menzognere».
Sembra di rileggere le parole di Stefan Zweig sul 28 giugno 1914 quando, a Sarajevo, si distrusse in un solo istante «il mondo della sicurezza e della ragione creatrice in cui eravamo nati, cresciuti e che sentivamo come nostro, sfracellandolo in mille pezzi come un vaso di argilla vuoto». […] «Inerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell’anti-umanità». Zweig visse con notevole forza di partecipazione i due conflitti mondiali – «mai ho avvertito, in un popolo o addirittura in me stesso, una volontà di vivere così intensa come in quegli anni, perché la posta in gioco era altissima: la nostra stessa esistenza, la sopravvivenza» – e seppe individuarne le differenze. La guerra del 1939 aveva una motivazione spirituale: «si combatteva per la libertà, per preservare il bene morale; e lottare per un ideale rende un uomo duro e deciso». La guerra del 1914, al contrario, «non sapeva nulla della realtà, si limitava ancora a servire un’illusione, il sogno di un mondo migliore. E soltanto l’illusione, non la conoscenza, rende felici. Perciò le vittime andarono al macello cantando e inneggiando, gli elmi cinti di fiori e foglie di quercia, l’ebrezza nel cuore, mentre le strade luccicavano e riecheggiavano in festa». Un’altra differenza cruciale distinse chiaramente la prima dalla seconda guerra mondiale: «in quei primi anni del secolo la parola aveva ancora potere. Ancora non era stata condannata a morte dalla menzogna organizzata della “propaganda”: gli uomini vi prestavano ancora ascolto pieni di aspettativa».
Si pensa che la guerra sia questione di altri, anche se poi gli altri non sono poi così lontani. L’accettazione di questo strumento è una novità lentamente – spiega Andrea Riccardi – «insinuatasi durante gli ultimi decenni nella mentalità corrente, dopo che – al tempo della guerra fredda si era temuta invece una grave deflagrazione tra le due superpotenze, con conseguenze devastanti. In quell’epoca era ancora forte la generazione che aveva conosciuto la seconda guerra mondiale, non solo l’orrore dei combattimenti e delle distruzioni, ma la Shoah (possibile, come molti genocidi, nell’isolamento paradossale dei combattimenti), gli effetti perversi del conflitto, come quello finale consistito nell’abbandono di una parte consistente dell’Europa alla dittatura comunista». La generazione che ha vissuto tutto questo è ormai in larga parte scomparsa o poco influente. Governano e orientano l’opinione pubblica donne e uomini nati in un mondo di pace, che sentono meno la responsabilità di testimoniare l’orrore e ricordare il dramma del secondo conflitto mondiale.
Forse oggi la guerra sembra meno pericolosa e i tanti discorsi sulla pace appaiono una retorica politicamente corretta. L’impegno di Riccardi per la pace – apprezzato da Morin nel suo volume snello e denso – si caratterizza nell’esprimere la ferma convinzione che è possibile per ciascuno lavorare per la pace, perché – anche in situazioni molto difficili – «la pace è possibile e rappresenta la scelta più saggia, seppure non sempre comoda. Il lavoro e l’interesse per la pace possono essere motivati da posizioni e storie differenti». Le pagine di Morin sono la forte testimonianza lucida e appassionata di un eccezionale secolo di vita. Un testo prezioso ed illuminante per orientarci in questo momento delicato per la nostra umanità, scritto «affinché queste lezioni di ottant’anni di storia possano servirci ad affrontare il presente in tutta lucidità, a comprendere l’urgenza di lavorare per la pace, ed evitare la peggiore tragedia di una nuova guerra mondiale».
Morin si sofferma sulla menzogna di guerra, «degli aspetti più odiosi della propaganda di guerra, e la peggior menzogna è quella di attribuire al nemico i propri i crimini». Di fatto, ogni guerra, compresa quella ucraina, «favorisce menzogne di guerra più o meno enormi». Non a caso ogni guerra è preceduta da una fase di forte isterismo. L’isteria di guerra – spiega Morin – si manifesta soprattutto nello scatenarsi dell’odio, che trasforma il nemico in criminale e invoca la responsabilità collettiva, «cioè la criminalità collettiva – non solo quella dell’insieme degli eserciti nemici, anche quando si tratta di un crimine individuale o di qualche unità, bensì quella dell’insieme del popolo nemico, giudicato colpevole dei crimini dei suoi dirigenti». Com’è avvenuto con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Non sappiamo ancora a sufficienza sulle conseguenze che l’odio di guerra ha suscitato in Ucraina, ma la proibizione della letteratura russa, Puškin, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov, anche Solženicyn, e della musica dei compositori russi, è un segno molto allarmante di un odio di guerra non solo contro un popolo, ma anche contro la sua cultura.
Ogni guerra provoca una crisi considerevole. Certamente quella ucraina aggraverà tutte le altre «enormi crisi del secolo subite dall’umanità, come la crisi ecologica, la crisi della civiltà, la crisi del pensiero. Che a loro volta aggravano e aggraveranno la crisi e i mali nati da questa guerra. […] Più la pace si aggrava, più la pace è difficile e più è urgente. Evitiamo una guerra mondiale, Sarebbe peggio della precedente».
Evidentemente una delle più enormi caratteristiche della guerra della Germania nazista è stato l’odio stesso per la cultura dei popoli nemici. Tuttavia, ci sono guerre più criminali di altre, come quella condotta dalla Germania nazista contro l’URSS, o l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ma – avverte Morini – «ogni guerra, per sua natura, per l’isteria alimentata dai governanti e dai media, per la propaganda unilaterale e spesso menzognera, comporta una criminalità che va al di là dell’azione strettamente militare». Per questo Morin sottolinea che le terribili distruzioni e dei massacri «commessi dai nostri, soprattutto dagli americani». Il tribunale di Norimberga (1945-1946) ha condannato l’hitlerismo e istituito la nozione giuridicamente nuova di “crimine di guerra”. David van Reybrouck ha precisato la nozione di crimine di guerra (violazioni del diritto internazionale umanitario – instaurato per trattato o diritto consuetudinario – i cui autori incorrono in una responsabilità penale personale ai sensi del diritto internazionale), indicando tre criteri: occasionale, strutturale o sistemico. I crimini di guerra occasionali sono le ferite sotto tortura, gli omicidi commessi da individui o gruppi militari senza istruzioni dal comando. I crimini di guerra strutturali sono i crimini e le violenze decisi da ufficiali o generali. I crimini di guerra sistemici fanno parte della strategia militare di un governo in guerra, il quale ne è il decisore iniziale. Tutti questi tipi di crimini hanno come vittime civili o militari disarmati.
In tal senso, non ci si può impedire di pensare che i massicci bombardamenti di città tedesche e della loro popolazione civile fuori da obiettivi militari precisi costituiscano retrospettivamente dei crimini di guerra sistemici. Certamente, il «nazismo fu criminale per la sua natura razzista e dispotica» – anche nei confronti dei suoi oppositori e dello stesso popolo tedesco –, «quello che non fu il caso delle democrazie alleate, benché queste, durante le loro conquiste coloniali e nelle repressioni contro i loro colonizzati, abbiano commesso ciò che, a posteriori, bisogna definire “crimini di guerra”». L’URSS fu senza dubbio un regime tessuto di menzogne, di gulag e di assassinii, ma contribuì in modo decisivo a liberare l’Europa dal nazismo; è per questo che Vasilij Grossman ha detto giustamente che Stalingrado fu «la più grande vittoria e la più grande disfatta dell’umanità».
Dunque insieme ai massacri razzisti nazisti di milioni di ebrei, e molti altri crimini, ci fu anche il cieco annientamento di centinaia di migliaia di civili da parte delle aviazioni alleate, da 3000 metri di altitudine. In Italia furono commessi innumerevoli stupri e uccisioni di civili dal corpo di spedizione del generale Juin. Pertanto, ogni guerra comporta criminalità più o meno grande, secondo la natura dei combattenti. Ecco perché risultano essenziali queste considerazioni nel nostro sguardo sulla guerra attuale, quella ucraina, nella quale – secondo Morin – ci sono tre guerre in una: «la continuazione della guerra interna fra potere ucraino e provincia separatista, la guerra russo-ucraina e una guerra politico-economica internazionalizzata antirussa dell’Occidente animata dagli Stati Uniti. […] Di fatto siamo entrati ormai in una congiuntura mondiale più grave».
La soluzione non è mai improvvisa e meccanica. Mario Giro ha scritto che questo nostro tempo è abitato da “trame di guerra”, ma anche da “intrecci di pace”, per cui «la guerra non è mai ineluttabile, ma è sempre una scelta politica dei leader, che può essere invertita»
Sarebbe già fondamentale raccogliere ed ascoltare il grido di pace – sottolinea Riccardi – per mettere in movimento le persone e le coscienze, fa maturare idee, sentimenti e speranze. ««Non siamo consegnati a un destino ignoto, su cui non si può esercitare nessuna influenza. Si può ascoltare, comprendere, discutere: i processi messi in moto, talvolta, travolgono le resistenze e mettono in atto movimenti che vanno ben aldilà dei singoli. C’è anche una forza della ragionevolezza della pace, risposta all’anelito di tanti: molte volte è un’energia sottovalutata». La storia non è uno spartito già scritto. La storia è piena di sorprese. E la più grande sorpresa è la pace. Il XXI secolo non può e non deve essere destinato alla guerra.