Dario quando si sposò con Franca, oltre a una donna meravigliosa e intelligente, ereditò anche una brava attrice che portava in dote casse piene di copioni frutto del lavoro di generazioni di teatranti, guitti marionettisti e burattinai, che portavano il nome dei Rame. Dario fece tesoro di quei copioni, soprattutto delle farse , che era anticamente considerato il genere minore.
Dopo la rappresentazione pesante, magari di un drammone storico a fosche tinte, gli attori, per ricreare lo spirito degli spettatori e magari anche il loro, rappresentavano una farsa, una breve commedia, di solito un atto unico tutto da ridere. Di quel teatro alla antica italiana non sono rimasti i drammoni ma le farse. E fu subito chiaro che Dario di quelle rappresentazioni popolari si nutrì abbondantemente, rileggendo quella comicità in maniera moderna e spesso surreale. Farse moderne dal titolo sorprendente e strampalato come “Chi ruba un piede è fortunato in amore” o “Gli arcangeli non giocano a flipper” sono figlie delle farse dei Rame.
Dopo un inizio con due riviste, in ditta con Franco Parenti e Giustino Durano, fuori dagli schemi anche nel titolo (Il dito nell’occhio e Sani da legare) Dario Fo fa ditta da solo (sempre con Franca) con le sue commedie con le quali frequenta i teatri maggiori, a Roma addirittura il Sistina e a Milano il Manzoni. Quindi la televisione, alla cui direzione è approdato Ettore Bernabei che vuole modernizzarla e rivoluzionarla. Bernabei prima chiama Enzo Biagi a dirigere il telegiornale poi la sua rivoluzione prova a riproporla nello spettacolo, con Dario Fo che aveva iniziato una collaborazione, con Chi l’ha visto, con il neonato secondo canale che non vedeva nessuno perché la maggior parte dei televisori erano monocanale. Bernabei vuole dare uno scossone anche allo spettacolo popolare e chiama Dario Fo e Franca Rame a condurre Canzonissima, lo spettacolo più popolare della televisione degli anni Sessanta. Lo fecero alla loro maniera proponendo sketch basati sulla loro ironia graffiante che tocca temi sociali.
Ogni settimana il loro lavoro suscitava polemiche e indignazione fra i benpensanti, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando Dario non accettò la censura su una scenetta comica che parlava di muratori che si buttavano giù dalle impalcature, dove lavoravano senza nessuna forma di sicurezza, per fare dispetto al padrone. Per questo Dario e Franca furono cacciati. Il licenziamento di Fo e Rame divise l’Italia con interrogazioni parlamentari e polemiche feroci fra i partiti di sinistra e la Democrazia Cristiana e finirono per giovare allo stesso Fo che trovò la sua strada in un circuito alternativo per il suo teatro diverso per dare vita ad un teatro alternativo, fuori dagli schemi e dai luoghi deputati, in sintonia con i fermenti ed i malesseri che accompagneranno gli anni che seguirono il Sessantotto.
Da quel momento la loro vita non fu più la stessa: niente più televisione, ma soprattutto niente più teatro Sistina o teatro Manzoni ma soltanto case del popolo, circoli culturali, persino camere del lavoro, a contatto con un pubblico alternativo che scopriva il teatro e nello stesso tempo dava a Dario autore linfa vitale. Il suo, anche se prendeva spunto dal momento attuale, finì ben presto per essere un teatro che resiste al tempo perché si astrae dal momento contingente per diventare teatro di archetipi. Il suo teatro è basato sulla contrapposizione fra il Potere, quello del Capitale ma anche quello Ecclesiastico, e il Popolo. Dario raggiunse l’acme della sua arte con il Mistero buffo in cui racconta le sacre scritture con la lingua dei giullari, il gramlot, un lingua inventata mischiando tutti i dialetti italiani.
E fu proprio questo che lo portò al Nobel.
Nel 1976 Massimo Fichera, dopo la riforma del servizio pubblicò divento direttore della Seconda Rete e la prima cosa che fece riparò al torno subito da Dario e Franca 15 anni prima. Li riportò in televisione e fece loro realizzare tutto il teatro che avevano prodotto in questi anni di assenza.
Un personaggio poliedrico Dario Fo, “impegnato” anche nella vita sociale. Grande scrittore e anche grande interprete di se stesso. Uno che ha fatto una rivoluzione i cui frutti si sentiranno per sempre.