di Marcello Cecconi e Marialaura Baldino
C’è ancora domani, il film dell’esordio di Paola Cortellesi alla regia, ha riportato nelle sale italiane il grande pubblico, registrando, in poco più di dieci giorni, un incasso che supera i 7 milioni di euro, il più alto dopo la pandemia. La nostra redazione lo racconta attraverso due punti di vista differenti, quello di genere e quello di generazione.
Marcello Cecconi, che del contesto sociale raccontato nel film ne è stato testimone quasi diretto, non ha potuto fare a meno di pensare la pellicola in assonanza al cinema neorealista di quegli anni
Marialaura Baldino, giovane studentessa in materie sociali, ha invece colto il sorprendente collegamento all’attualità delle violenze di genere che la regista ha saputo raccontare con straordinaria dolcezza e modernità.
Quel delicato richiamo neorealista
Ho da poco visto C’è ancora domani, la pellicola firmata da Paola Cortellesi. C’è una Roma nella primavera del ’46 con ancora per le strade militari americani che si fanno perdonare i bombardamenti regalando confezioni di cioccolata. Le famiglie si arrabattano per arrivare a sera e portare qualcosa in tavola. Paola Cortellesi è Delia, tre figli, un suocero rozzo e malato e un marito, Ivano (Valerio Mastrandrea), violento e autoritario.
Delia, come molte donne, cerca di sbarcare il lunario con diversi lavoretti anche quando sono umilianti. Deve aiutare la famiglia che sta crescendo e prova a tenere tutto in equilibrio fra il turpe rapporto con il marito, l’innamoramento spirituale con il meccanico e quel grande sogno di un domani migliore che sarà la sorpresa finale.
Appena alzato dalla poltrona mi sono chiesto subito quale regista avesse voluto imitare Paola Cortellesi, con questa commedia all’italiana. Il bianco e nero e quello schermo formato più stretto che riflette una Roma del primo dopoguerra, con tutta gente comune che si muove in esterni brevi e ripetuti, profuma di neorealismo tanto che invita gli spettatori, almeno quelli più stagionati, a rovistare nella memoria alla ricerca di somiglianze in registi del passato.
Ho scorso velocemente scene e dialoghi dei primi classici che mi venivano in mente, come Roma città aperta di Rossellini e Ladri di biciclette e Umberto D. di De Sica, che offrono simili immagini e simili spaccati linguistici della Roma popolana e di quella piccolo-borghese degli stessi anni di questo film. Ma ho desistito dalle similitudini appena ho realizzato che il focus di C’è ancora domani, la differenza di genere, non era stato mai centrale nel neorealismo che puntava invece sulla differenza di generazione.
E allora, liberatomi dagli orpelli, compreso quello della scena dei lenzuoli stesi ad asciugare sulla terrazza che mi riportava a Loren e Mastroianni di un più recente Una giornata particolare di Ettore Scola, devo ammettere di essermi lasciato convincere dalla potente forza narrativa del film d’esordio di Cortellesi. Prima che alla regia, alle interpretazioni e a tutti gli altri meccanismi di produzione del film, il plauso va alla sceneggiatura a sei mani con l’aggiunta, a quelle di Paola, di quelle di Furio Andreotti e Cinzia Calenda.
L’impianto narrativo scorre come un torrente di montagna che ti sorprende mano a mano che scende fra mulinelli, cascate e piccoli tonfi che ne rallentano il ritmo, fino allo stupore finale della congiunzione con il lago (la sorpresa finale della speranza). La storia, raccontata dal punto di vista femminile, è piena di valori universalmente riconosciuti ma ancora non sempre praticati e scorre infatti quasi naturale, con semplicità, e ha il merito di spingere lentamente la molla della tensione emotiva fino all’esplosione finale che mette i brividi di piacere e, perché no, anche di freddo al punto di vista maschile per il carico di responsabilità di genere che ha avuto e, pur ridimensionato, continua ad avere.
Un risultato eccellente dovuto certo alla guida di Cortellesi ma, come dicevo, raggiunto grazie all’affiatamento, che si percepisce nettamente, fra chi lo ha scritto, chi lo ha diretto, chi lo ha interpretato. Un prodotto di squadra ma che non toglie il privilegio del successo personale di una Paola Cortellesi che, dopo aver lasciato il segno nella commedia all’italiana come attrice, lo sta facendo e lo farà ancora, anche come regista’.
(a cura di Marcello Cecconi)
Un film sulle donne e per le donne
Paola Cortellessi è riuscita in una grande impresa: ha raccontato una storia di vita drammatica in un modo talmente equilibrato, corretto e consapevole, con un linguaggio che non soppesa le parole, ma che diretto colpisce al cuore degli spettatori. Ci sono lacrime, sorrisi, smorfie e litigi, gli ingredienti principali di una buona commedia all’italiana, ma c’è anche tanta riflessione su quello che è stato per tanto tempo il ruolo della donna.
Alla regia per la prima volta, ha fatto un film sulle donne e per le donne; per tutte coloro che sono riuscite a ribellarsi ma solo in silenzio, che hanno sopportato, quasi come un’abitudine, tutte le violenze fisiche e verbali che hanno subito. Attraverso il personaggio di Delia ha dato voce a tutte coloro che ancora oggi si ritrovano in casa un marito o un compagno come Ivano, interpretato magistralmente da Valerio Mastandrea. Talmente ben strutturato questo suo personaggio che anche da spettatrice l’ho mal sopportato.
Non c’è retorica in questo film, il linguaggio scelto – il dialetto romanesco – non lo permette e questo cancella anche ogni forma di perbenismo che molti hanno usato in altri film per mettere in scena o per raccontare violenze simili a quelle subite da Delia. La Cortellesi sceglie solo un modo più moderno, ma adeguato, per inscenare calci, pugni e schiaffi che il suo personaggio sopporta, senza lasciare posto all’immaginazione. Perché non serve nascondere questi gesti nell’ombra della camera da ripresa: una violenza è una violenza e va chiamata e mostrata per quello che è.
Nonostante tutto, Delia non demorde, mette in atto una resistenza che non si arresta nemmeno di fronte alla morte, o in presenza di facili vie di fuga; lei combatte, pensa al bene dei figli, all’eredità che potrebbe lasciare loro, che va ben al di là delle cose materiali o dei soldi che racimola di nascosto dal marito. Con semplice calma e senza rassegnazione agisce per lasciare, soprattutto alla figlia maggiore Marcella (Romana Maggiora Vergano), un paese migliore, una società migliore, dove nessun uomo deve arrogarsi il diritto di intimare ad una donna di starsene a bocca chiusa.
‘Dice la sua’ attraverso il voto, lo fa nascondendo le sue intenzioni ad Ivano perché, parafrasando la canzone posta al finale, lei sa bene di non avere scudi per proteggersi, né armi per difendersi, ma ha solo questa lingua in bocca e mezzo sogno in tasca.
Sa che la libertà è partecipazione, ma che bisogna anche resistere e che c’è ancora domani per poterla conquistare.
Ed è proprio la scelta di andare a votare che crea il cortocircuito narrativo che più mi ha colpito e che la Cortellessi ha saputo magistralmente generare. A Delia si presenta la possibilità di fuggire via con Nino (Valerio Marchioni), l’uomo che l’ha sempre amata. Lo saluta promettendogli che ci avrebbe pensato.
Le viene recapitata una lettera che lei custodisce gelosamente nel cassetto della sua Singer, lontano dagli occhi del marito. Arriva la data della partenza di Nino e Delia si prepara, mette il rossetto rosso e la camicetta nuova comprata di nascosto con le poche lire raccattate.
Non si fa bella per lui però: la lettera tenuta segreta per tutto il film non è un messaggio d’amore, bensì la tanto agognata chiamata al voto per il Referendum istituzionale. Una scheda molto più preziosa della tessera del pane, come ha scritto la giornalista Anna Garofalo.
A pochi minuti dalla fine Delia corre incontro al futuro, distruggendo il mondo di soprusi e violenze che l’aveva tenuta in ostaggio e scardinando il ruolo che le era stato imposto: non starà più a bocca chiusa.
Tina Anselmi ha detto che ‘’quando le donne si sono impegnate nelle battaglie, le vittorie sono state vittoria per tutta la società’’. E credo che mai vittoria fu più grande di quella conquistata da tante donne in quei due fatidici giorni del 1946. La libertà di porter scegliere che, ancora oggi, data per scontata, non è una libertà di tutte.
(a cura di Marialaura Baldino)