di Margherita Degani
Nell’ultimo anno è tristemente ritornato alla ribalta il concetto di genocidio. Così molti giornalisti e capi di Stato si riferiscono all’insieme di operazioni che Israele sta portando a termine nella Striscia di Gaza; allo stesso modo, dallo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, il presidente Vladimir Putin viene continuamente accusato di compiere lo stesso crimine. Insomma, è ormai una pratica comune gridare al genocidio in occasione di ingenti morti e massacri. Ma è realmente una definizione calzante ed adeguata per questo genere di operazioni militari? Qualche dubbio sorge.
Dobbiamo riavvolgere il nastro e immergerci nelle atmosfere polverose dell’antichità per assistere alle prime forme di stermino sistematico e consapevole di uno specifico gruppo. Come la distruzione romana di Cartagine nel 146 a.C. rasa al suolo o al massacro di Melo per opera degli Ateniesi nel 416 a.C., durante il quale tutti gli uomini in età militare furono uccisi, mentre donne e bambini vennero ancora una volta schiavizzati. I genocidi sono una costante della storia umana, sebbene siamo abituati a considerarli fenomeni contemporanei nati in seno al secolo autoritario. Non si può del resto negare che durante il Novecento questo fenomeno abbia raggiunto una dimensione quantitativa mai vista prima e con sfumature qualitative nuove, legate al nazionalismo dei Regimi fascisti e nazisti o alla carica ideologica connaturata a programmi rivoluzionari comunisti.
Il termine venne introdotto, nel 1944, da un giurista tedesco di origini polacche, Raphael Lemkin, per indicare la politica di sterminio adottata dai nazisti. Unendo il prefisso di origine greca genos – che rimanda a “razza” o “tribù”- con il suffisso latino cidio – che riprende il verbo “cadere” o“uccidere”- intendeva sottolineare con specifica veemenza l’insieme di azioni progettate e coordinate per la distruzione degli aspetti essenziali della vita di determinati gruppi etnici, allo scopo di annientare i gruppi stessi. Era infatti convinto che le leggi esistenti non fossero più sufficienti a gestire le nuove forme di violenza, capaci di perseguitare gli individui non a causa delle loro azioni, bensì per ragioni di appartenenza culturale, religiosa, etnica.
Il suo prima tentativo di modificare il diritto bellico, risaliva già al 1933, dieci mesi dopo l’ascesa politica di Adolf Hitler. Scrisse alla Lega delle Nazioni, fondata nel tentativo di garantire la pace, chiedendo di mettere al bando le barbariche leggi repressive del cancelliere tedesco. Inutile dire che l’intento fallì.
Nel corso del 1945 gli Alleati non conoscevano ancora la portata dello sterminio ed i mezzi impiegati per perpetrarlo, fu quindi soprattutto grazie alle pressioni dello stesso giurista polacco, segnato dalla perdita di ben 49 membri della sua famiglia, che la parola si fece largo all’interno dei processi di Norimberga, perfino tra i documenti dell’atto di accusa. Durante la prima sessione delle Nazioni Unite dell’11 Novembre 1946, il genocidio venne riconosciuto come delitto contro il diritto delle genti. Il 9 Dicembre 1948, con l’approvazione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del genocidio, si definì e delimitò tale crimine, riconosciuto come internazionale, nell’articolo 2: si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale; (A) uccisione di membri del gruppo; (B) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; (C) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; (D) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (E) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. L’articolo 3 stabiliva poi che dovessero essere puniti per il reato la cospirazione avente come fine il genocidio, il genocidio stesso, l’incitamento diretto e pubblico a commetterlo, anche solo il suo tentativo e, infine, la complicità nell’atto. L’articolo 5 impegnava gli Stati aderenti a trasferirne le disposizioni nel proprio ordinamento giuridico, stabilendo sanzioni penali efficaci per chiunque si rendesse colpevole di una delle azioni sopra enunciate. In Italia, il Governo sottoscrisse la Convenzione l’11 Marzo 1952, individuando il genocidio come una categoria a sé.
Si possono riconoscere due fasi di sviluppo della parola in questione. La prima si estende dal momento della sua invenzione all’ingresso nel Diritto Internazionale (1944-1948); la seconda copre gli anni in cui furono istituiti diversi tribunali per il perseguimento dell’atto criminoso, facilitando l’ingresso vero e proprio del termine nella pratica legale e nel discorso comune (anni Novanta). Anche in seguito al suo primo riconoscimento, infatti, trascorsero decenni prima che la comunità internazionale riuscisse ad accusare i colpevoli. Dopo l’istituzione di vari Tribunali speciali per singole esigenze, lo Statuto di Roma stabilì solo nel 1998 la nascita di una Corte penale internazionale e del Tribunale permanente per i crimini internazionali con sede all’Aia, operativi dal 2022 e distinti dalle Nazioni Unite. Il documento prevede inoltre che la Corte abbia competenza in materia di crimini contro l’umanità, crimini di guerra, crimini di aggressione e di genocidio, dedicando l’articolo 6 alla sua definizione, ripresa direttamente dalla Convenzione del 1948.
Il diritto internazionale tende a classificare all’interno della denominazione in questione un numero molto ridotto di questi casi. Come sostiene l’ONU, infatti, l’intento è qualcosa di problematico da dimostrare; la distruzione o la discriminazione culturale non è sufficiente, così come non lo è la volontà di disperdere un gruppo. La parte accusata, sia essa un numero ristretto di individui oppure uno Stato, per essere perseguita deve mostrare di aver messo in atto una delle crudeltà stabilite dagli articoli già citati, accanto ovviamente alla consapevolezza ed all’intenzione specifica. Si tratta inoltre di crimini rivolti ad altrettanti specifici gruppi nel tentativo di distruggerli del tutto o in parte, che sono messi in atto tanto in tempo di pace, quanto in tempo di guerra, e che prevedono omicidi, schiavitù, sfruttamento, persecuzioni sulla base di fattori quali genere, religione o etnia. Non devono perciò essere confusi con i crimini di guerra, perpetrati solo durante un conflitto armato ai fini di provocare traumi nell’avversario. Per fare un po’ di chiarezza, oggi, sono considerati genocidi lo sterminio dei Nativi Americani (XV-XIV sec), quello nel Congo belga sempre ad opera dei colonizzatori europei (1879-1908), i fatti accaduti in Sudan per mano inglese (1882-1903) ed in Namibia per mano tedesca (1904-1906), le persecuzioni nel corso del XX secolo nei confronti degli Armeni (1915-16), degli Ebrei (1941-45), degli Zingari (1941-45) e dei Tutsi (1994). In numerose altre situazioni, invece, la materia è ancora discussa e divide coloro che vi rintracciano le caratteristiche necessarie a definirla tale e quanti evidenziano delle riserve.
Non possono pertanto essere incluse nella definizione le fin troppo spiacevoli circostanze legate alla cronaca odierna; non vi è infatti la volontà da parte di Israele di eliminare tutti i Palestinesi, né è desiderio di Putin radere al suolo l’Ucraina. Non si rintracciano nemmeno particolari motivi di odio su base etnico-culturale. Al massimo sarà necessario valutare se all’interno dei conflitti siano stati messi in atto crimini di guerra.
Superando il legame con i significati originari e legali del termine, il concetto di genocidio è ormai spesso impiegato quale sinonimo di grande massacro, di violenza estrema, come se questa accusa fosse totale, mentre quella nei confronti di altri crimini barbarici o antitetici ai diritti umani si rivelasse in qualche modo inferiore, più leggera – dice Marcello Flores. Il richiamo alla parola, di fatto, serve spesso ad attirare partecipazione emotiva, intensificando il legame tra sensibilità contemporanea e fatti di cronaca; altre volte ancora, viene sfruttata per fini di propaganda politica, intrecciando sempre di più valore giuridico, dimensione pubblica ed esercizio del potere, con una conseguente perdita di significato del termine originario. Inevitabile sottolineare il peso che ha, all’interno di questa scacchiera, l’uso che ne fanno i mass media.
Il genocidio resta uno dei crimini peggiori, il più grave ed efferato tra i delitti internazionali. Per questo non si può pensare di dismettere riflessioni e studi sulla natura e le implicazioni dello stesso. D’altra parte, però, è bene ricordarsi di non cedere alle banalizzazioni ed alla propaganda che riducono a mero strumento emotivo e politico un termine tanto denso di dolore, tragedia e significato.