di Rock Reynolds
Un militare britannico imbraccia un mitra e sembra guardare la macchina fotografica con disincanto, come se stesse presagendo il peggio, malgrado il sorriso della donna e la noncuranza dei tre ragazzi alle sue spalle, sulle barricate erette a Belfast nel 1969. Sono i primi focolai dei “Troubles”, la lunga e sanguinosa guerra civile che avrebbe infiammato l’Ulster per decenni.
E la questione irlandese è solo una delle numerose rivendicazioni di quelle che Paolo Perri definisce “nazioni senza stato dell’Europa occidentale”, approfondendo soprattutto i casi di Corsica, Spagna, Scozia e Fiandre, oltre a quello irlandese. Il suo saggio Nazioni in cerca di stato (Donzelli Editore, pagg 258, euro 28), appunto, traccia un quadro lucido di una lotta complessa nella “civilissima” Europa che vede intrecciarsi sacrosante richieste di tutela di diritti umani fondamentali, inquietanti rigurgiti nazionalisti, sfiducia nell’autorità centrale e orgoglio etnico. L’Europa di oggi si trova forse di fronte a un bivio ineludibile: costruire un’identità sovranazionale e tutelare le individualità locali.
Abbiamo fatto una serie di domande a Paolo Perri e la profondità delle sue risposte dimostra quanta strada ancora l’Europa debba fare.
Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro proprio adesso?
Il libro rappresenta la conclusione di una ricerca pluriennale, iniziata durante il dottorato, sull’evoluzione storica e ideologica dei movimenti nazionalisti sub-statali in Europa occidentale. Un’analisi di lungo periodo su un insieme molto eterogeneo di movimenti politici, sindacali, culturali e in alcuni casi anche paramilitari, le cui rivendicazioni, all’inizio del nuovo millennio, venivano considerate ormai quasi del tutto residuali, alla luce del successo della globalizzazione in campo economico e dell’avanzamento dei processi di integrazione comunitaria. Ma oltre alla persistenza di questi fenomeni, e alla rilevanza che hanno assunto in alcuni contesti – si pensi al successo elettorale riscosso dai nazionalisti scozzesi, baschi, catalani e fiamminghi negli ultimi vent’anni, o alla recrudescenza della violenza in Corsica e Irlanda del Nord – ad attirare la mia attenzione è stata la grande differenziazione ideologica che li caratterizza, che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per posizioni social-democratiche, cristiano-democratiche, liberali e conservatrici. Una differenziazione che, inoltre, parrebbe condizionarne le posizioni anche rispetto a una serie di questioni, come la stessa idea di autodeterminazione nazionale (dal moderato autonomismo all’indipendentismo vero e proprio), l’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea (pro o contro) e la definizione dell’identità nazionale (inclusiva o escludente). Mi sono chiesto, allora, come e perché può cambiare il messaggio nazionalista e quali elementi ne abbiano condizionato l’evoluzione ideologica e le rivendicazioni nel corso della storia. In particolare mi sono concentrato su quanto incidano i fattori socio-economici sul livello di radicalità e sulla persistenza del nazionalismo politico, come cambi il messaggio nazionalista (inclusivo/escludente; progressista/conservatore; democratico/autoritario) in rapporto alla composizione sociale dei movimenti e dei partiti che se ne fanno promotori e, poi, sulle ragioni che hanno permesso a queste organizzazioni di sfidare, e in alcuni casi di sostituire, i partiti tradizionali di sinistra, di centro e di destra, assumendone sempre più compiutamente rivendicazioni e modelli di riferimento.
Siamo nel bel mezzo di due conflitti che mettono in discussione l’equilibrio del mondo. Che tipo di riflessione si sente di fare?
Premetto che non sono questioni di cui mi sono occupato nel libro e che sono state studiate e approfondite da colleghi e studiosi molto più competenti di me, ai cui lavori rimando e inviterei a fare riferimento: tra i tanti, sul conflitto israelo-palestinese penso agli studi di Arturo Marzano e Lorenzo Kamel; mentre su quello russo-ucraino ai lavori di Simona Merlo e Andrea Graziosi. Ma per rispondere alla sua domanda credo che sia il conflitto tra Russia e Ucraina – risultato delle mire espansionistiche del regime putiniano, che ha visto al centro della contesa la questione dell’autodeterminazione delle regioni russofone dell’Ucraina orientale – sia il conflitto israelo-palestinese e l’attuale crisi di Gaza, ci dimostrino in maniera inequivocabile, la rilevanza delle cosiddette questioni nazionali irrisolte nel panorama sociopolitico attuale e la loro assoluta centralità nel dibattito scientifico. Si tratta, però, di questioni piuttosto differenti che – nonostante alcune analisi che tendono a presentarle come parti di un più generale scontro tra campi o, ancor peggio, tra culture – sono il risultato di eventi e processi storico-politici diversi (è difficile paragonare, ad esempio, le condizioni dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania con quelle delle regioni a maggioranza russa dell’est ucraino). Quello che, in estrema sintesi, mi sento di dire è che le richieste di autodeterminazione nazionale, per quanto possano essere strumentalizzate anche in chiave geo-politica, debbano sempre trovare una soluzione negoziata e diplomatica. Una via concordata all’esercizio del diritto all’autodeterminazione permetterebbe, infatti, di evitare la radicalizzazione dello scontro, e gli eccessi (ne abbiamo visto anche troppi su tutti i fronti), oltre che, magari, lo scoppio di nuove sanguinose guerre. Le soluzioni concertate, così come quelle che scommettono sulla coesistenza e la convivenza, penso alla proposta curda di confederalismo democratico che sorpassa il concetto stesso di stato-nazione, godono ahimè di uno scarso sostegno. Anzi, dall’estremismo della destra religiosa in Israele all’ultra nazionalismo della Russia di Putin, passando per l’estrema destra ucraina e il fondamentalismo islamico di Hamas, mi pare che gli attori più radicali, che hanno adottato un nazionalismo escludente che non riconosce il diritto ad esistere della controparte, abbiano assunto ormai un ruolo sempre più centrale. Molto si potrebbe dire sulle cause alla base di questa radicalizzazione, e non ne abbiamo certamente qui lo spazio, ma è sotto gli occhi di tutti quali ne siano state le conseguenze: il fallimento di ogni trattativa di pace (che fossero gli accordi di Minsk o di Oslo) e il susseguirsi di azioni unilaterali (l’invasione russa dell’Ucraina o la risposta indiscriminata di Israele agli attacchi del 7 ottobre). In assenza di autorevoli ed efficaci istituzioni sovranazionali – la crisi delle Nazioni Unite è ormai sotto gli occhi di tutti – ogni possibilità di raggiungere una soluzione negoziata, per questi e altri potenziali conflitti, appare sempre più in salita, se non addirittura oggi quasi del tutto impercorribile. Purtroppo mi pare che parlare di pace e di risoluzione delle controversie per via negoziale non sia molto popolare di questi tempi e la cosa mi preoccupa, e non poco.
Che cos’hanno in comune Irlanda, Paesi Baschi e Fiandre?
I casi citati, cui aggiungerei anche quello catalano, sono sicuramente quelli caratterizzati da una maggiore persistenza delle rivendicazioni nazionaliste, anche in senso indipendentista, e che hanno goduto di un più ampio sostegno popolare nel corso dell’ultimo secolo. La stessa indipendenza, però, per quanto questo possa apparire paradossale, non ha sempre rappresentato, e molto spesso non rappresenta nemmeno oggi, l’obiettivo assoluto, principale, di questo tipo di movimenti e la sua rivendicazione, da sola, non sarebbe sufficiente a spiegarne il successo. In comune, in effetti, i nazionalismi non hanno poi molto. Certo possono condividere degli elementi di differenziazione, socialmente e culturalmente rilevanti, come la lingua, la religione, la storia o le tradizioni, che, però, per quanto diffusi e condivisi , da soli non bastano a spiegare come e perché si sia affermato il nazionalismo politico. Ed è proprio questo che cerco di mettere in luce nel libro. Nel caso scozzese, ad esempio, la questione linguistica non ha mai giocato alcun ruolo, e lo stesso potrebbe dirsi anche per quello irlandese per il quale, invece, si è a lungo insistito sulla dimensione quasi esclusivamente religiosa. Una lettura, questa, che ha presentato come endemico, quasi naturale, lo scontro tra cattolici e protestanti, per spiegare la persistente conflittualità anglo-irlandese prima, e poi la recrudescenza del conflitto nelle sei contee del nord, sottostimando o addirittura ignorando il peso di un insieme più complesso di fattori, come ad esempio quelli socio-economici, e l’interazione tra di loro (si pensi al lungo processo di spoliazione della proprietà terriera cui fu sottoposta la popolazione cattolica tra il XV e il XVIII secolo prima, o alla costruzione di un sistema politico ed economico fortemente discriminatorio nell’Irlanda del nord nel corso del XX secolo). È fuor di dubbio che la presenza di forti elementi culturali di differenziazione – come la lingua nelle Fiandre, in Catalogna, e in misura minore anche nei Paesi Baschi, o la religione in Irlanda – abbia permesso al nazionalismo di acquisire una dimensione di massa già nella prima metà del XX secolo, ma nel condizionarne poi l’evoluzione politico-ideologica, e l’eventuale successo in termini di consenso, sembrano aver giocato un ruolo molto più rilevante sia l’impatto dei processi di trasformazione e modernizzazione economica, sia le conseguenze sociali delle diverse crisi che si sono susseguite nell’ultimo secolo e mezzo. Mi sono concentrato proprio su questa differenziazione perché spesso gli storici hanno insistito sull’omogeneità di questi fenomeni, presentando i partiti nazionalisti sub-statali come parte di un’unica grande famiglia politica, quando in realtà si tratta di movimenti che si sono dovuti confrontare, in modi e tempi diversi, con una serie di aspirazioni e rivendicazioni delle comunità che ambivano a rappresentare che andavano, e vanno, ben al di là delle sole questioni culturali (linguistiche, religiose, ecc.). Per acquisire una dimensione di massa, infatti, e per rispondere a istanze di tipo sociale, politico ed economico, queste forze politiche hanno finito per combinare pochi e semplici contenuti di carattere espressamente nazionalista – che si riducono alla divisione del mondo in nazioni, all’importanza dell’identità nazionale nella vita sociale e al diritto alla sovranità politica delle diverse nazioni – con riferimenti ideologici e obiettivi anche molto differenti tra loro.
La Scozia ha chiesto un secondo referendum sulla secessione dal Regno Unito. Secondo il diritto internazionale, considerato che dal primo referendum fallimentare nel frattempo c’è stata la Brexit, sarebbe giusto concederglielo?
Il caso del referendum scozzese del 2014 è estremamente esemplificativo in questo senso, e ci dimostra chiaramente quanto la rivendicazione dell’indipendenza, da sola, non abbia rappresentato la chiave del successo del nazionalismo politico. Basti pensare che a meno di un anno dalla sconfitta referendaria (quando il 55.3% degli scozzesi votò contro la proposta di una Scozia indipendente) lo Scottish National Party ha riscosso il suo più importante e significativo successo elettorale, conquistando il 50% dei voti alle elezioni politiche del maggio 2015. E questo proprio in ragione di una proposta politica che va ben oltre le rivendicazioni indipendentiste ma che, con l’affermarsi della corrente social-democratica alla guida del movimento, si basa sulla redistribuzione del reddito, la difesa del welfare, della sanità pubblica, e la tutela ambientale. Il fallimento del referendum del 2014 viene solitamente attribuito al timore che una Scozia, fuori dal Regno Unito, sarebbe stata necessariamente esclusa anche dall’Unione Europea e dal mercato comune. E proprio su questa paura, in un contesto fortemente europeista, fece leva il variegato fronte unionista per sconfiggere gli indipendentisti nel 2014. Una situazione che ovviamente il referendum sulla Brexit, e la conseguente uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ha completamente stravolto, visto che in Scozia il risultato del voto è stato di segno diametralmente opposto, con il 62% dei contrari all’uscita dall’Unione. Personalmente credo che impedire una consultazione popolare non sia mai la soluzione migliore, e il caso del referendum catalano del 2017 caratterizzato da scontri, violenze e una forte risposta repressiva da parte di Madrid ne sia un perfetto esempio. Al momento, infatti, il governo conservatore di Londra, forte del parere della Corte Suprema, ha espresso parere contrario a una nuova consultazione, mentre a Edimburgo parrebbero intenzionati ad andare avanti con il progetto di un nuovo referendum nel 2024. Di certo, come sostenuto da Jason Sorens, lo strumento più efficace, per depotenziare il rischio di conflittualità e violenza legato alle rivendicazioni indipendentiste, rimane proprio quello di prevedere una via legale e concordata del diritto alla secessione, che faciliterebbe la propensione al compromesso e alla moderazione da parte dei movimenti nazionalisti. Un diritto che mi auguro non venga negato nemmeno questa volta.
In Italia non c’è mai stata una vera spinta secessionista. Lei pensa che dipenda dal fatto che è diventata nazione tardi, senza uno spirito patriottico fortissimo?
Sicuramente il processo di unificazione italiana, data la presenza di una koinè linguistica consolidatasi nei secoli precedenti, ma soprattutto viste le pessime condizioni socio-economiche in cui versava la maggioranza della popolazione all’interno degli stati pre-unitari (si pensi soprattutto alle grandi masse rurali nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato Pontificio), favorirono la nascita di un nuovo stato su basi sostanzialmente condivise da una parte rilevante della popolazione. Bisogna chiarire, però, che ad avere cognizione dell’identità nazionale, all’interno del neonato Regno d’Italia, erano ancora soltanto delle ristrette élites culturali e politiche, ma, nonostante ciò, il sostegno popolare al progetto unitario fu più consistente rispetto ad altri casi di state-building europei. Anche se ciò fu dovuto appunto a un insieme estremamente vario di fattori, che fanno del risorgimento italiano un fenomeno politicamente molto eterogeneo. Questo non vuol dire, però, che non siano emerse, fin dal XIX secolo, forme di resistenza sia ai processi di omogeneizzazione culturale che di assimilazione politica. Ciò vale in un certo senso per le regioni meridionali, ma più ancora per alcune delle comunità alloglotte presenti all’interno dei nuovi confini italiani, come la Sardegna, la Valle d’Aosta, la Sicilia, il Friuli e, dopo la prima guerra mondiale, il Sudtirolo. È bene ricordare, inoltre che, nonostante se ne parli piuttosto poco, sia l’indipendentismo siciliano che quello sudtirolese nel secondo dopoguerra sono stati caratterizzati anche da momenti insurrezionali e da alcune forme di lotta armata. Conflitti di cui si è sempre teso a minimizzare la matrice prettamente politica ,ma che sono costati la vita a più di quaranta persone tra gli anni ’40 e la fine degli anni ’60.
Gli irlandesi sono estremamente solidali verso i palestinesi. Oggi che la Gran Bretagna non fa più parte dell’Europa, che valenza ha tale appoggio?
È vero che il sostegno alla causa palestinese è ampiamente diffuso in tutta l’Irlanda, ed è molto forte tra i repubblicani del nord. Per cinquant’anni, infatti, le organizzazioni repubblicane e quelle palestinesi hanno collaborato, anche a livello militare, in maniera molto stretta, come recentemente confermato anche da una serie di documenti de-secretati dal governo britannico e disponibili oggi presso gli Archivi Nazionali di Londra. Di riflesso, il sostegno ad Israele è molto forte tra gli unionisti e i lealisti delle sei contee. Non è un caso, infatti, che la posizione più nettamente pro-palestinese, a nord e sud del confine, sia quella dello Sinn Féin, e questo, nonostante il processo di istituzionalizzazione del partito abbia spinto i vertici del movimento a smussare le posizioni più nettamente anti-israeliane, per non alienarsi il sostegno di una parte dell’establishment democratico statunitense, che ha giocato un ruolo fondamentale nella normalizzazione delle situazione irlandese a partire dagli anni ’90. L’afflato anticoloniale e la solidarietà ai movimenti di liberazione nazionale non sono però una prerogativa esclusiva del movimento repubblicano e della sinistra nazionalista. Anche i due principali partiti di governo nella repubblica – Fianna Fail e Fine Gael – hanno sempre riconosciuto il diritto all’autodeterminazione della Palestina. La posizione di tutti i governi irlandesi è sempre stata a favore della soluzione dei due stati. Nel 1980, l’Irlanda è stato il primo paese occidentale a riconoscere l’OLP come «unico rappresentante legittimo del popolo palestinese» e nel 2021 il Parlamento di Dublino è stato il primo nell’Ue a condannare all’unanimità il moltiplicarsi degli insediamenti colonici nei territori occupati, esprimendo al contempo grande preoccupazione per le condizioni di vita dei civili a Gaza, a causa del decennale blocco israeliano. Anche la posizione britannica, negli ultimi cinquant’anni, è sempre stata in favore della soluzione dei due stati e su questo non c’è mai stato particolare attrito tra Londra e Dublino, nonostante le relazioni tra l’IRA e l’OLP fossero tenute sotto stretto controllo dai servizi di sicurezza. Una posizione, quella britannica, che è andata però modificandosi negli ultimi anni in senso filo-israeliano, come recentemente confermato anche dal Primo Ministro Rishi Sunak che, nel corso di una visita a Gerusalemme, il 19 ottobre 2023, ha ribadito il sostegno incondizionato al governo di Tel Aviv nella sua guerra contro Hamas.
Le rivendicazioni indipendentiste di Irlanda e Paesi Baschi sono rimaste a lungo dormienti, per esplodere sul finire degli anni Sessanta. È pensabile una recrudescenza di tali spinte oggi?
Tutte le mobilitazioni nazionaliste e indipendentiste a livello sub-statale hanno ciclicamente attraversato fasi di crescita e di riflusso nel corso della loro storia. E questo vale anche per i movimenti che hanno goduto di un più ampio sostegno popolare. Ovviamente la sconfitta del Fronte Popolare nella guerra civile spagnola e l’instaurazione della dittatura franchista assestarono un durissimo colpo a tutti i movimenti indipendentisti e autonomisti presenti nella penisola iberica, soggetti a una durissima repressione e a una nuova ondata di castiglianizzazione forzata. Una crisi che attraversarono, sebbene non nella stessa forma, sia i nazionalisti irlandesi dopo la fine della guerra civile e la sconfitta dello schieramento contrario al trattato anglo-irlandese che quelli fiamminghi dopo la parentesi collaborazionista e l’alleanza con la Germania nazista. Si tratta però, come già sottolineato in precedenza, di movimenti capaci di cambiare pelle, rivendicazioni e modalità di azione in base a una serie di elementi politici, economici e sociali, e al contesto in cui si trovano ad operare. Dalla fine degli anni ’60, e poi con la crisi economica di inizio anni ’70 e l’avvio del processo di deindustrializzazione, in Europa occidentale si aprì un periodo segnato da importanti cicli di lotte sociali e dall’avanzata delle sinistre. Di conseguenza, anche il processo di evoluzione ideologica dei nazionalismi sub-statali subì una brusca accelerata. La dimensione “creativa” delle nuove forme di opposizione sociale permise a una giovane generazione di militanti di superare le pulsioni conservatrici e tradizionaliste del passato, e di attribuire una crescente importanza all’oppressione economica come fattore di disgregazione della comunità nazionale, legando la lotta nazionalista a battaglie sociali di portata generale. Così i partiti e i movimenti politici nazionalisti, oltre alla più tradizionale opera di politicizzazione della dimensione centro-periferia, provarono a farsi interpreti delle rivendicazioni proprie dei movimenti sociali – la protezione dell’ambiente, l’uguaglianza di genere, l’autorealizzazione personale, la libertà sessuale, la solidarietà, la redistribuzione della ricchezza – e a rispondere efficacemente alle questioni sollevate dalla cosiddetta “rivoluzione silenziosa”. Ovviamente non si è trattato di un copione fisso. Nel caso fiammingo, ad esempio, il nazionalismo mantenne un carattere prevalentemente conservatore, quando non apertamente di destra (anche radicale). Nel determinare l’evoluzione politico-ideologica di questi movimenti, infatti, hanno sempre giocato un ruolo molto importante sia il contesto socio-economico sia l’impatto dei processi di trasformazione. Nelle aree industrializzate e sindacalizzate, in presenza di forti legami solidaristici di classe, il nazionalismo ha finito per entrare in contatto con le rivendicazioni del movimento operaio, assumendo un carattere più inclusivo e progressista, quando non apertamente di sinistra; mentre nelle regioni prive di forti legami solidaristici interetnici, ha assunto un carattere prevalentemente conservatore e tradizionalista. Per studiare come e perché siano cambiate nel tempo le rivendicazioni, gli obiettivi, le strategie e, soprattutto, l’orientamento ideologico di un insieme assolutamente eterogeneo di movimenti e organizzazioni politiche, ho deciso di partire proprio dall’analisi delle fasi di crisi, economica e sociale, che hanno ciclicamente investito l’Europa tra il XX e il XXI secolo, e delle conseguenze che sembrerebbero aver avuto sul nazionalismo. E non è un caso che proprio la crisi finanziaria del 2008-2009 abbia rappresentato un ulteriore importante momento congiunturale nella storia delle mobilitazioni indipendentiste, fornendo un nuovo vigore a molte di queste forze politiche. L’attacco ai salari, ai diritti dei lavoratori, la deregulation finanziaria, la denuncia della sopraggiunta inconciliabilità, parafrasando Jacques Le Goff, tra «tempi del profitto» e «tempi della democrazia», hanno infatti spianato la strada a queste formazioni politiche che hanno rivendicato la loro estraneità rispetto alle élites e ai partiti tradizionali, ritenuti responsabili del tracollo economico e dell’aumento dell’instabilità sociale. Un’alterità, vera o presunta che fosse, che si è rivelata un’arma molto efficace. E da partiti sfidanti, spesso marginali, o addirittura da organizzazioni clandestine e/o paramilitari, si sono trasformati in veri protagonisti della scena politica, sostituendosi in molti casi ai partiti tradizionali di sinistra, di centro e di destra.
Come spiega l’appoggio ideale di movimenti politici come la Lega ai movimenti indipendentisti irlandesi e il rifiuto di concederlo da parte della stessa a un movimento come quello per la liberazione della Palestina?
Annoverare la Lega (Nord o Per Salvini Premier, e già questo dualismo dice molto) tre le forze nazionaliste sub-statali, di cui mi occupo nel libro, risulterebbe improprio, se non, probabilmente, soltanto per una breve fase. La caratteristica principale del leghismo italiano è infatti l’assoluta indeterminatezza e la sua estrema volatilità programmatica. Nella fase iniziale della sua storia, alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, quando nacque come collettore dei diversi movimenti autonomisti attivi in alcune regioni dell’Italia settentrionale, la Lega Nord è stata attivamente impegnata nella definizione di un’identità settentrionale. Tra il 1995 e il 1999, quando il partito rivendicò più attivamente l’indipendenza dell’Italia settentrionale (ribattezzata Padania), mobilitò persino un gruppo di intellettuali, raccolti intorno a Gilberto Oneto e alla rivista Quaderni Padani, per elaborare un’identità “padana” esplicitamente opposta a quella italiana. Ma per quanto ogni identità nazionale venga sostanzialmente costruita o rielaborata da ristrette élites intellettuali, nei casi che affronto nel libro questi processi di costruzione avvengono utilizzando una serie di elementi comuni (una lingua, una cultura condivisa, un precedente statutale o proto-statuale, una differenza religiosa, ecc.), che risultano del tutto assenti nel caso padano. Questa ambiguità ha caratterizzato l’intera storia del partito che, a partire dal 1999, ha prima fortemente ridimensionato ogni velleità indipendentista, salvo poi reinventarsi come forza di destra sovranista su scala “statale” e adottare quel nazionalismo italiano formalmente antitetico agli obiettivi iniziali del partito stesso. Questa schizofrenia politico-ideologica ne ha sempre caratterizzato anche i rapporti internazionali che, infatti, ad eccezione forse dell’estrema destra fiamminga, non ha mai visto gli altri movimenti indipendentisti europei solidarizzare o allacciare rapporti ufficiali con il leghismo. Alla luce di ciò, si possono spiegare anche le contraddittorie posizioni leghiste sull’indipendentismo scozzese o su quello catalano (visti ufficialmente con favore, salvo poi criticarne gli aspetti progressisti), o per ultimo la posizione sulla questione palestinese, che invero non ha mai raccolto particolari simpatie tra i militanti leghisti, solitamente molto diffidenti verso il mondo arabo in genere.
Le lotte indipendentiste dell’Irlanda hanno avuto componenti contraddittorie nel corso della storia, con l’appoggio alla Germania (in chiave antibritannica, immagino) e un’ambivalenza tra socialismo e tradizionalismo cattolico. Vede analogie simili in altri paesi europei?
Come accennavo prima, il nazionalismo politico, soprattutto a livello sub-statale, è un fenomeno molto eterogeneo che probabilmente non va considerato nemmeno un’ideologia a tutti gli effetti. Il messaggio nazionalista, infatti, ha continuamente bisogno di essere puntellato e riempito di concetti e significati che finisce irrimediabilmente per mutuare dalle altre ideologie. Se del resto volessimo individuare il minimo comun denominatore tra tutte queste organizzazioni, troveremmo soltanto la rivendicazione, più o meno convinta, del diritto all’autodeterminazione nazionale, declinata per giunta in diverse forme. Ma il nazionalismo in sé, fin dal XIX secolo, non ha mai indicato chiaramente metodi e strategie da impiegare per raggiungere questo obiettivo. Manca, ad esempio, quel corpus di testi fondanti in grado di ispirare una precisa visione del mondo e dei progetti politici unitari, tipici di ogni ideologia strutturata. Ed è proprio questo a renderlo un’ideologia dal nucleo sottile o addirittura una mera categoria discorsiva in grado di modificare le coscienze, perché per ottenere un duraturo successo e per riuscire a trasformare le sole rivendicazioni etno-linguistiche in una proposta politica credibile sul lungo periodo, il nazionalismo ha sempre avuto bisogno di adottare concetti aggiuntivi e modelli ideologici diversi, a seconda delle circostanze e dei contesti in cui si è trovato a operare. Non è quindi strano che, in maniera opportunistica, si possano intessere alleanze funzionali ai propri scopi, anche se apparentemente contraddittorie, o che all’interno dello stesso movimento possano convivere anime diverse e orientamenti differenti, una caratteristica che poi spesso ha portato alla nascita di più partiti e organizzazioni in diretta competizione tra loro, e in alcuni casi a dei veri e propri conflitti intestini. L’Irlanda e la Catalogna – dove forti erano gli elementi culturali di differenziazione fin dall’inizio del XIX secolo – ci offrono in questo senso degli esempi molto interessanti. Già agli albori del ‘900, il nazionalismo politico aveva assunto una dimensione di massa e il campo nazionalista iniziò a dividersi in numerosi partiti e movimenti, diversi per orientamento ideologico, obiettivi e modalità d’azione. All’interno dell’IRA irlandese, ad esempio, lo scoppio della Seconda guerra mondiale finì inevitabilmente per riaccendere il conflitto tra la corrente socialista e quella tradizionalista, che guardava con interesse alla Germania nazista e alla possibilità di sfruttare le eventuali debolezze britanniche. Un’idea che non veniva appoggiata soltanto da quella minoranza conservatrice, che si sentiva vicina al nazismo tedesco. Il destino di due, tra i più celebri repubblicani irlandesi impegnati in Spagna con il fronte anti-fascista, Bob Doyle e Frank Ryan, rivela molte delle ambiguità e degli aspetti controversi che caratterizzarono il repubblicanesimo in questa fase e il nazionalismo più in generale. Il primo, infatti, dopo essere stato arrestato e torturato dalla polizia franchista e dalla Gestapo, una volta rilasciato decise di arruolarsi nella marina britannica pur di tornare a combattere il nazismo. Ryan, invece, due anni dopo la cattura fu consegnato dai franchisti ai tedeschi e trasferito a Berlino, dove fu ospite del regime di Hitler e partecipò alla stesura di un piano per uno sbarco tedesco in Irlanda in chiave anti-britannica. Potrei farle altri esempi di questo tipo in tanti altri contesti, e la storia di questi movimenti, almeno fino agli anni ’60, è ricca di ambiguità e situazioni apparentemente contraddittorie. Molte volte a questa eterogeneità di posizioni e riferimenti ideologici sono seguite scissioni e conflitti intestini, mentre in alcuni casi si è giunti a situazioni di compromesso che, in ragione di un obiettivo comune (il conseguimento dell’indipendenza), hanno portato a lunghe convivenze forzate all’interno di uno stesso movimento e a un costante confronto tra fazioni per prenderne le redini e dettarne l’agenda politica.
Alla luce delle lotte indipendentiste e della insoddisfazione nel modello di stato esistente in Ulster, Paesi Baschi e Fiandre, l’Europa può essere la prima vera palestra di convivenza e un esempio per il mondo intero?
Si tratta in realtà di casi differenti e di stati con ordinamenti istituzionali differenti. In Irlanda del Nord, ad esempio, dopo gli accordi di pace del 1998 è stato adottato un sistema di power-sharing che obbliga il principale partito dello schieramento unionista a governare insieme al corrispettivo nazionalista. Un modello consociativista che sicuramente ha permesso la normalizzazione della situazione politica dopo la fine dei “Troubles”, ma che sul lungo periodo, ha mostrato evidenti limiti dal punto di vista della governabilità. In particolare, dal momento in cui le forze più radicali – Democratic Unionist Party e Sinn Féin – riuscirono a imporsi nelle rispettive comunità, trasformandosi nei due principali partiti nordirlandesi. Da allora la formazione di un esecutivo davvero funzionante è diventata pressoché impossibile e il parlamento di Belfast è stato a lungo paralizzato da interminabili crisi e veti incrociati. Diverso il caso spagnolo che, con l’adozione della costituzione del 1978 e la fine della dittatura franchista, ha adottato una forma ibrida, il cosiddetto “stato delle autonomie”, che ha sicuramente de-centralizzato l’assetto dello stato rispetto al passato, senza però riuscire a depotenziare le spinte centrifughe che, anzi, nel caso catalano e in quello basco, godono oggi di un sostegno molto consistente. Nemmeno la quasi completa federalizzazione del Belgio, del resto, ha risolto la cosiddetta questione fiamminga. I partiti nazionalisti delle Fiandre, infatti, tanto la Nieuw-Vlaamse Alliantie (di orientamento liberal-conservatore) che il Vlaams Belang (di estrema destra), sono diventati le forze di maggioranza relativa a livello statale e soltanto un’ampia convergenza tra tutte le altre forze politiche ha impedito che si formasse un governo composto da due partiti che, paradossalmente, ambiscono alla dissoluzione dello stato stesso. I movimenti nazionalisti, del resto, avanzano rivendicazioni spesso molto diverse e possono proporsi a volte come canali di radicalizzazione democratica, avanzando soluzioni anti-liberiste e redistribuzioniste, come nei casi irlandese, basco, catalano e scozzese; oppure possono agire come forze autoritarie e conservatrici, che declinano il nazionalismo in forme di chiusura neo-comunitarista e xenofoba, come nel caso fiammingo. Molto diverse possono essere, di riflesso, anche le risposte degli stati centrali: da una maggiore inclinazione ad accoglierne le richieste fino alla repressione violenta. Pertanto, il cammino per trasformare l’Europa in un laboratorio di convivenza mi sembra ancora molto lungo, specialmente alla luce della costante crescita delle forze conservatrici e della destra più radicale che declinano il nazionalismo, in questo caso lo stato-nazionalismo, in chiave sempre più escludente e centralista.
La Brexit ha creato i presupposti per una ripresa della lotta armata in Ulster?
Per una ripresa della lotta armata probabilmente no, ma per un innalzamento delle tensioni sociali e intercomunitarie sicuramente si. Il negoziato sulla Brexit, del resto, aveva subito lasciato presagire nefaste conseguenze sulle sei contee. In una prima fase, visto anche il fondamentale appoggio del Democratic Unionist Party al governo conservatore di Theresa May, si pensava alle conseguenze che la hard Brexit caldeggiata dagli unionisti radicali avrebbero avuto sul nazionalismo irlandese e sui gruppi repubblicani dissidenti. La questione del confine, così come il rischio di dover abbandonare la Convenzione Europea sui Diritti Umani – due delle pietre angolari del processo di pace del 1998 – venivano considerati i punti più problematici e potenzialmente esplosivi dell’intero negoziato tra l’esecutivo di Boris Johnson e l’UE. Un periodo, questo, caratterizzato dalla ripresa delle attività militari della New IRA e da un crescente protagonismo del nuovo movimento repubblicano radicale, Saoradh. In pochi però, avevano pensato alle conseguenze che il protocollo adottato per evitare di minare gli accordi di pace avrebbe avuto sulla comunità unionista, o meglio, sulle sue componenti più radicali, visto che in occasione del referendum sull’uscita dall’Unione Europea la maggioranza dei nordirlandesi (56%) si è espressa a favore del “remain”. L’adozione del discusso Protocollo sull’Irlanda del Nord nel dicembre 2020, se da un lato ha evitato il ripristino di un confine fisico tra le due parti dell’isola, dall’altro ha finito per istituire un confine doganale nel Mare d’Irlanda tra le sei contee e il resto del Regno Unito, mettendo così in serio allarme quella parte della comunità unionista che teme, oggi sempre più concretamente, l’ipotesi di una riunificazione irlandese. Paura alimentata anche dall’ascesa elettorale dello Sinn Féin, diventato primo partito sia al Nord, con il 28% dei voti ottenuti nelle storiche elezioni del 2022, sia al Sud, dove nel 2020, con il 24,5%, ha sorpassato i due storici partiti di governo, senza però riuscire a ottenere la maggioranza dei seggi. Un evento che non ha precedenti nella lunga storia del nazionalismo irlandese e che, soprattutto se lo Sinn Féin dovesse andare al governo nella Repubblica, potrebbe rivelarsi gravido di nuove e imprevedibili conseguenze tanto per le sei contee, con il rischio di una ulteriore radicalizzazione dei rapporti intercomunitari, quanto a livello internazionale, per le implicazioni che questo avrebbe anche sui rapporti tra Dublino e Londra. In una società come quella nordirlandese, che rimane ancora una delle più divise dell’occidente europeo, il clima di incertezza e le conseguenze di questa nuova crisi economica possono, infatti, mettere in seria discussione le fondamenta stesse del processo di pace, già profondamente scosse dal voto sulla Brexit, e dare nuovo vigore anche al progetto di riunificazione.
Perché si rischia oggi di fare confusione tra spinte indipendentiste (con una base culturale e antropologica forte) e aneliti sovranisti?
Perché intorno a questi fenomeni c’è ancora una grandissima confusione terminologica e concettuale. Parlavamo prima di quanto diversi siano tra loro i movimenti indipendentisti, delle differenti connotazioni ideologiche che possono assumere, di quanto eterogenee possano essere le soluzioni politiche che propongono e gli obiettivi che si prefiggono. Eppure, persino a livello scientifico, si tende spesso a presentarle ancora oggi come forze sostanzialmente simili, quando non uguali. Così tra la Lega Nord e lo Scottish National Party, tra il Vlaams Belang e lo Sinn Féin, solo per fare qualche esempio, non ci sarebbero poi tante differenze, perché in fondo, la questione si può facilmente ridurre al solito “noi contro loro”. Si tratta, invece, di partiti diversissimi, i quali, molte volte, rivendicano la difesa o la conquista della sovranità nazionale – sebbene in alcuni casi, come quello gallese, la nascita di uno stato nazionale non rientri nemmeno tra le principali rivendicazioni del nazionalismo politico – dandone, però, una definizione molto diversa e spesso antitetica. Per i nazionalisti scozzesi, come anche per la maggioranza di quelli catalani, baschi e galiziani, l’appartenenza alla comunità nazionale si fonda su principi puramente volontaristici (“è scozzese chiunque viva e risieda in Scozia”), senza ricorrere quindi a criteri etnico-culturali o biologico-razziali, che invece sono al centro dell’idea di identità nazionale per i fiamminghi e per tutti i nazionalisti di destra. A tal riguardo, lo stesso discorso, in un certo qual modo, vale anche per il sovranismo, di cui ad esempio oggi si tende a dare per scontata la connotazione di destra, anche radicale. Un’accezione che in realtà mi convince poco e che sono tendenzialmente restio ad utilizzare, se non, appunto, definendone anche in questo caso l’orientamento (di destra, di sinistra, ecc.).