Tom Petty: un ribelle americano con la chitarra

Tom Petty, nativo della Florida e californiano d’adozione, è stato uno dei rocker americani più interessanti della scena figlia del rock’n’roll degli anni Cinquanta

Tom Petty: un ribelle americano con la chitarra
Tom Petty
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8 Gennaio 2024 - 23.40


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di Rock Reynolds

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James Grady, il grande scrittore del Montana a cui si deve il fortunato romanzo d’esordio I sei giorni del Condor (divenuti tre nella fantastica trasposizione cinematografica che ne realizzò Sydney Pollack, con la partecipazione di Robert Redford e Faye Dunaway), una volta mi disse che la figura archetipica della star è un’invenzione moderna, tutta americana, e che, come tale, permea da più di un secolo la cultura popolare a stelle e strisce. Ogni individuo ha il potenziale per trasformarvisi, se gli incroci del talento e del destino gli sono propizi. In effetti, nella vita di qualsiasi persona c’è un momento (talvolta più d’uno) di passaggio, un evento epocale che ne orienta il percorso.

Tom Petty tale momento lo visse a circa undici anni di età, quando uno zio lo portò con sé sul set di un film minore di un Elvis che tendeva già a essere la controfigura di se stesso, del ribelle intorno a cui si era catalizzato il nascente rock’n’roll. Gli bastò vederlo spuntare da una Cadillac con la sua capigliatura nera imbrillantinata – talmente scintillante da assumere sfumature bluastre – per capire che quella del cantante non era che una sfaccettatura di una personalità ben più complessa e intrigante.

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Tom Petty, nativo della Florida e californiano d’adozione, è stato uno dei rocker americani più interessanti della scena figlia del rock’n’roll degli anni Cinquanta e, soprattutto, della sua incarnazione artistica susseguente alla “British Invasion” degli anni Sessanta, durante i quali molti adolescenti americani aspirarono a essere come i Beatles che, solo qualche anno prima, avevano aspirato a essere come Elvis.

Oggi, finalmente, al pubblico italiano viene offerto un’interessante ritratto di Tom Petty, un artista ancorato con rispetto quasi religioso alla tradizione eppure niente affatto convenzionale. Tom Petty (Shake Edizioni, pagg 286, euro 20), scritto da due giornalisti musicali di lungo corso come Marco Denti e Mauro Zambellini, è un appassionato racconto che, nel ricostruire la vicenda umana e artistica del biondo rocker di Gainsville, ci regala inevitabilmente uno spaccato della società americana e, soprattutto, del fagocitante mondo dell’intrattenimento. Nel caso di Petty, quel mondo è ancor più preminente e asfissiante in quanto Tom non si sentì mai del tutto a suo agio nella natia Florida (turistica ma, al tempo stesso, fortemente ancorata a certi valori tradizionali e, perché no, retrogradi, del Sud) e si trasferì in cerca di libertà d’espressione, successo e realizzazione personali a Los Angeles, la capitale mondiale dello spettacolo.

Tom si portò appresso la band con cui aveva mosso i primi passi, una rivisitazione dei Mudcrutch che finì per assumere il nome di Heartbreakers e che, con qualche piccola modifica, avrebbe accompagnato il proprio leader fino alla sua fine prematura, con la morte accidentale per un cocktail di antidepressivi e antidolorifici avvenuta nel 2017.

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Amicizia e tradizione furono il collante essenziale di una delle rock band più longeve e più travolgenti nella storia della musica americana. Ma Tom Petty & the Heartbreakers non furono mai un ensemble banale e il classicismo sbandierato con orgoglio – attraverso il rifacimento di numerosi brani dei loro beniamini così come la riproposizione aggiornata di un sound volutamente retrò – fu sempre un elemento di rottura, non di riproposizione stentata. Non a caso, come sottolineano Denti e Zambellini, la stampa faticò alquanto a collocare la loro musica in una casella specifica. Gli Heartbreakers erano rock ed erano pop, certo, ma qualcuno pensava che avessero un nonsoché di ribelle, quasi punk – d’altro canto, il primo disco omonimo uscì nel 1976, in piena esplosione punk – e certe loro melodie suadenti rimandavano ad atmosfere country & western, così come i loro ritmi sincopati erano figli del grande calderone della musica nera. Una patina di geniale psichedelia e un forte spirito autoironico completavano il quadro.

Tom Petty – di fatto The Last DJ, l’ultimo ribelle, ruolo rivendicato a più riprese e, addirittura, titolo di un album del 2002 e di una delle sue ultime grandi canzoni – divenne un punto di riferimento per una generazione di giovani musicisti, come dice lo stesso Mauro Zambellini. « Ai musicisti giovani ha lasciato una lezione musicale, come songwriter versatile capace di unire l’energia del rock e l’appeal del pop: la capacità di coniugare questi due aspetti senza svilire la natura profondamente rock della sua musica. Tom Petty è stato capace di costruire canzoni in grado di entrare nelle radio, nell’immaginario americano e anche nelle classifiche, cosa non trascurabile, con una sequenza di riff, armonie vocali, arrangiamenti e ritmi che grazie a lui e a quella potente macchina da guerra che erano gli Heartbreakers, si sono infiltrati in una miriade di band, dai primi Wilco ai Gin Blossoms, dagli Shelters ai Replacements, dai Dirty Knobs ai Del Fuegos, dagli Whiskeytown a JJ Grey, solo per fare alcuni nomi.» Tutto sommato, è piuttosto commovente cogliere il rispetto che tali band tributarono a lui che, prima di tutto, sarebbe rimasto un fan fino alla fine.

La prima volta che mi capitò di sentirlo fu attraverso il video di “You got lucky”, registrato nel deserto californiano e destinato a fare scuola in quanto, a suo modo, vero e proprio mini-film. L’uso impattante dei sintetizzatori non me lo rese immediatamente gradito. Nessuna sorpresa: nemmeno al tastierista Benmont Tench piacque tanto l’idea di Tom di inserirli, ma, come sempre, la ragione stava dalla parte di Petty. A fare aprire gli occhi al vostro cronista, al tempo giovane musicista in cerca di un sound, fu l’album doppio dal vivo Pack Up the Plantation: Live! (1985): ecco il suono che cercavo! Peccato che ci avesse già pensato qualcun altro.

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Eppure, malgrado negli USA sia diventato presto una star di prima grandezza (al punto da esibirsi nell’halftime show del Superbowl del 2008), qui da noi Petty ha sempre vissuto all’ombra di un coetaneo scomodo, Bruce Springsteen. Lo stesso Petty, in un’intervista di molti anni fa, ebbe a dire al giornalista che lo collocava sul medesimo piano del Boss e di John Mellencamp: «Mi piacciono molto entrambi, ma credo di essere diverso da loro». È per questo, forse, che Denti e Zambellini hanno deciso di scriverne? «Ne abbiamo scritto perché è un artista tra i più intelligenti, coerenti e versatili che il rock abbia conosciuto negli ultimi cinquant’anni, molto popolare in USA, ma poco considerato e chiacchierato in Italia, dove è stato seguito solo da un manipolo di appassionati, ma che con i suoi dischi e con un paio di apparizioni, la prima con Dylan e la seconda, più rappresentativa ed emozionante, solo con gli Heartbreakers, ha comunque lasciato un segno profondo, però, pur sempre limitato a una cerchia di fedeli appassionati. Ci sembrava giusto ampliare, possibilmente, questa cerchia e farlo conoscere a persone che non se ne sono accorte quando era in vita, attraverso un libro che inducesse a riscoprirlo attraverso i suoi dischi e i suoi video, e alimentare l’interesse e la curiosità verso la sua musica.»

Inanellare una serie di brani entrati nell’immaginario collettivo della cultura pop americana come “American girl”, “Even the losers”, “The waiting”, “Free fallin’”, “I won’t back down” e “Runnin’ down a dream”, per citarne alcuni, farebbe di chiunque un’icona. Ma Tom Petty è andato ben al di là di tutto ciò. Per prima cosa, ha condotto per anni una battaglia contro il music biz, finendo per essere agli occhi delle grandi case discografiche l’incarnazione stessa del piantagrane. Ha sposato cause nobili come la battaglia contro l’energia nucleare, partecipando da protagonista ai noti concerti tenutisi al Madison Square Garden di New York sotto il titolo di No Nukes. E ne sarebbe probabilmente uscito da stella incontrastata se le luci della ribalta non se le fosse prese Springsteen con una delle esibizioni più memorabili della sua E Street Band. Tant’è, ma le voci iniziarono a correre e qualcuno di importante se ne accorse, soprattutto dopo il Live Aid e il primo Farm Aid. Quel qualcuno era nientemeno che Bob Dylan, che volle Tom e i suoi Heartbrekers nel “Temples in Flames Tour”. Come ebbe a dire Petty: «Non sono tanti gli artisti a cui saremmo disposti a prestare la nostra opera». Frequentare Dylan gli consentì di conoscere meglio George Harrison, di cui divenne ottimo amico. La storia parla da sé: l’esperienza irripetibile dei Travelin Wilburys, con gli stessi Bob e George, oltre a Jeff Lynne degli ELO e a Roy Orbison. Denti aveva probabilmente in testa un libro su Petty da tempo: «Vent’anni fa, ho scritto Alias Bob Dylan, dedicato ai nuovi Dylan (John Prine, Elliott Murphy, Willie Nile, James Talley, Steve Forbert) e Mauro ha scritto Love & Emotion, l’unico libro al mondo (tradotto anche in inglese) dedicato a Willy DeVille. Per cui condividevamo una certa passione per personaggi capaci di suscitare grandi emozioni ma che, per una serie di motivi in gran parte legati all’industria discografica, non hanno ottenuto, almeno secondo noi, un adeguato riscontro. Poi la scomparsa di Tom Petty, nei modi in cui è avvenuta, alla fine del tour per i quarant’anni degli Heartbreakers, portato a termine in condizioni a dir poco precarie, ci ha colpiti profondamente ed è stata una spinta fortissima a pensare a una forma di riconoscimento verso un artista (e una band) che ci ha dato moltissimo.»

Zambellini, al riguardo, non ha dubbi: «Tom Petty ha lasciato il segno coniugando più epoche, dai Cinquanta di Roy Orbison ai Sessanta di Byrds e Beatles, ai cantautori della stirpe inaugurata da Dylan, con il quale c’è stata la parentesi dei Traveling Wilburys, dal punk alla musica californiana, dalla psichedelia a quegli umori del Sud che stanno nel soul e nel R&B. D’altra parte, veniva dalla Florida. Ma senza riproporli in modo statico o revivalistico, aggiungendo invece una eccentricità tutta sua.»

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Eccentricità. Eppure, di primo acchito, sembrerebbe che la cosa che più a Tom stava a cuore fosse il mantenimento di un canone che, quasi con cura certosina, si prodigava per mondare dalle brutture di chi non aveva capito quale fosse l’ortodossia. Non è strano pensare che dalla passione quasi da fan nutrita da Tom per i suoi maestri sia nato qualcosa di così originale, tutto sommato? Nella sua musica immortale ci sono i Rolling Stones, i Creedence Clearwater Revival, gli Animals, i Grateful Dead, i Count Five, Solomon Burke e Bo Diddley, Sly & the Family Stone, Gram Parsons e Hank Williams. E tanti altri.

Come dice Marco Denti: «Credo si tratti, principalmente, di ribadire un vecchio, ma sempre valido concetto. Il rock’n’roll è soprattutto attitudine e Tom Petty l’ha dimostrato con una coerenza e un’integrità che ha pochi termini di paragone. Il suo approccio, dagli Heartbreakers ai Traveling Wilburys, da Bob Dylan a Johnny Cash, è sempre stato quello dell’appassionato che si emoziona per ogni singola novità, che sia un disco, una chitarra, un concerto. Questo modo di essere è rimasto saldo anche nei processi professionali ed esistenziali più delicati, come se la musica fosse l’unica cosa importante. Questa personalità, forse, è il suo lascito principale».

Come disse più volte, con il classico sorrisino che divenne un suo marchio di fabbrica: «Eravamo l’unica band della Florida a non suonare “Freebird” dei Lynyrd Skynyrd». E dire che il rock sudista gli piaceva un sacco.

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