di Enrico Menduni
Nella giornata mondiale della radio istituita dall’UNESCO, 13 febbraio, ci sarà sicuramente spazio per le celebrazioni di un medium che proprio cent’anni fa muoveva i passi di un lungo cammino. Anche in Italia il 1924 è un anno determinante: il 27 agosto nasce l’URI (Unione Radiofonica Italiana, poi EIAR, poi RAI). Primo medium elettronico, diffuso attraverso una rete immateriale, prima sfida ai media scritti (i quotidiani, i settimanali), prima fonte di intrattenimento domestico, senza dover andare a teatro o al cinema.
Noi però non siamo qui per celebrare il passato, ma il presente, in cui la radio, data per spacciata più volte, genera una voce potente che è protagonista del nostro secolo: il sonoro. Non soltanto l’audiovisivo, oggi la principale forma di comunicazione, senza il suono sarebbe solo un cinema muto; ma l’oralità e il sonoro, la voce e la musica, avvolgono il nostro mondo con una pervasività che l’audiovisivo non può raggiungere. Nei media, nella comunicazione privata e nei social sempre più lo scritto è accompagnato o sostituito dal suono. Prima c’era solo il telefono; ora aprite un giornale e vi propongono di ascoltare l’articolo, invece che leggerlo; pensate a una rassegna stampa e vi offrono un podcast che riassume i fatti del giorno o magari fa un inchiesta su un evento di cronaca o racconta una storia di finzione. Perdete il treno, dovete avvertire a casa che farete tardi e la cosa più semplice è mandare un vocale su Whatsapp. Sì, è vero, non riuscite a staccarvi dalla vostra collezione di vinili e CD ingialliti, ma poi la musica la prendete da Spotify. Dovete accendere le luci in giardino, e dite ad Alexa di farlo: quella perfino vi risponde.
Come avrete già inteso, i nipoti della radio a galena degli anni Venti sono due: la rete Internet e lo smartphone. La prima, dal wi-fi in poi, è il proseguimento e il potenziamento di quella circolazione immateriale dei contenuti di informazione e di intrattenimento, captabili ovunque all’interno di un’area ampia di ricezione, che si inaugura negli anni Venti con le onde radio. Il secondo è un oggetto multifunzionale che tutti abbiamo e che ci permette, oltre a tante altre applicazioni, non solo di ricevere ma anche di produrre e diffondere contenuti in qualunque situazione: sulla poltrona del salotto ma anche in mezzo a un bosco, sotto la pioggia, senza una presa di corrente, senza un filo, senza un’ingombrante antenna.
Qui l’oralità si afferma con prepotenza, come un ritorno supertecnologico alle origini della comunicazione. Dire una cosa è più semplice che scriverla. Se non siete Giacomo Leopardi (e ve ne sono pochi in giro) a voce si riescono a spiegare cose che, per iscritto, richiedono una competenza e un’applicazione (qui nel senso tradizionale del termine, non una app) che non tutti hanno e può essere complicata è faticosa, anche per chi a sua volta dovrà leggerla. Lasciatemi dire una cosa un po’ eccessiva, che i bibliotecari potranno non condividere (anche se nelle loro biblioteche ci sono decine di volumi che lo spiegano): l’oralità e il suono fanno parte di una tendenza alla riduzione del ruolo sociale della scrittura, di cui ai più è evidente solo l’aspetto fotografico e video: che appunto, si vede.
La tendenza al contenimento del ruolo della scrittura ha percorso tutto il Novecento, prima lentamente poi in forma torrenziale, così da caratterizzare con prepotenza il nostro secolo. Se posso chiedere ai bibliotecari di prendere dagli scaffali un volume per me, vorrei un libro del 1959, tradotto in Italia nel 1969: Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione; e, già che ci siete, Oralità e scrittura. Tecnologie della parola di Walter J. Ong (1982, tradotto nel 1986). Ovviamente in entrambi non c’è traccia di Internet o degli smartphone:ma la riduzione della cultura alfabetica va di pari passo con la tendenza di ciascuno a crearsi uno storytelling personale in un mondo in cui gli stati, le imprese, le istituzioni più varie emettono a loro volta altrettanti storytelling. L’interazione fra queste rappresentazioni e autorappresentazioni assume sempre più spesso i modi evidenti e spicci dell’immagine e del suono.
Facendo forse storcere il naso a qualche fotografo o regista mi permetto di dire che in questo progressivo contenimento della cultura alfabetica il ruolo del suono è stato più “democratico” dell’immagine. Se imparare la scrittura significava essere, o diventare, parte della classe dirigente (e colta), è anche vero che tutti parlano ed emettono suoni anche quando sono analfabeti, e non sanno disegnare pecore sui sassi, come faceva il giovanissimo Giotto quando lo vide Cimabue. Tutti sanno parlare, spesso in dialetto, magari argutamente come Bertoldo o Chichibio, e dunque la rimozione della scrittura come unica forma lecita della comunicazione può apparire, e forse è davvero, la rimozione di un ostacolo sociale: come dice il proverbio, “sa più il papa e il contadin, che il papa solo”. Cinefili, prima di inorridire ricordate che questa è una battuta dell’ottimo film “Signore e signori” di Pietro Germi (1966), pronunciata dal villico Bepi Cristofoletto [l’attore Piero Bagno, che veniva peraltro dal “Piccolo Teatro” di Giorgio Strehler].
In ossequio alla retorica dei giorni nostri devo concludere parlando dell’intelligenza artificiale. Mi trovavo, qualche mese fa, nel quartiere cinese di Singapore cercando di comprare dei gadget prodotti in Malesia da ditte sudcoreane, da regalare ai parenti rimasti in Italia. La commerciante si è espressa in cinese parlando al suo smartphone che immediatamente mi ha informato, pronunciando un italiano quasi perfetto, su prezzi e caratteristiche della merce. Adesso (sono passati solo quattro mesi) la signora di Singapore potrebbe fare di meglio: cerchiando sul suo smartphone l’immagine del gadget, sarebbe la macchina a trovare, e pronunciare in italiano, tutte le spiegazioni necessarie, e molto di più. Come dice adesso il claim: chi cerchia trova. Tutto può essere trasformato in sonoro, tradotto in ogni lingua con la voce di chiunque, trasformato in dato computabile, modificato a piacere ad ogni passaggio o condivisione.
Ad ovest del sonoro. Avrete perdonato, spero, la citazione di “A sud-Ovest di Sonora” (1966, con un Marlon Brando indimenticabile) e di “Ad ovest di Paperino” (1982, di e con Alessandro Benvenuti). Davvero il sonoro è il nostro West, abitato un tempo solo da pittoreschi indiani e bufali selvaggi, mentre ora le nuove tecnologie – come locomotive a vapore nei western – portano modernità e altre diavolerie, traffico, attori e cantanti, chitarre e dollari, in terre incognite. E c’è sempre qualcuno che tenta The Great Train Robbery, la grande rapina al treno.