di Rock Reynolds
Non sono passati tanti anni e non si tratta di un evento verificatosi in un luogo esotico, in un continente lontano. Pochi giorni fa, per la precisione il 25 aprile, si è consumato il cinquantennale di una delle rivoluzioni meno cruente e destinate a lasciare semi duraturi di rivalsa in un terreno gravido di voglia di libertà. Parliamo della “rivoluzione dei garofani”, avvenuta nel 1974 in quel Portogallo che, forse, in effetti, al tempo nell’immaginario collettivo italiano era remoto quanto una delle sue colonie sparse per il mondo.
Se, infatti, la Spagna non ha mai avuto particolari segreti per noi, diverso è il discorso per l’estrema propaggine occidentale della Penisola Iberica e dell’Europa.
In quel fatidico giorno, una giunta militare sostenuta dalle frange più progressiste delle forze armate lusitane pose fine al potere di António Salazar, che nel 1933 aveva instaurato un regime dittatoriale chiamato Estado Novo. Le lotte politiche successive alla morte di Salazar, avvenuta nel 1970, si erano cristallizzate intorno a idee di sinistra solitamente aliene alle forze armate.
A portarle in primo piano era stato l’incipiente dibattito sul futuro delle colonie che, secondo molti giovani ufficiali, soprattutto capitani, avrebbe dovuto essere autonomo dalla madrepatria. Quegli stessi ufficiali premevano per una transizione verso un governo più democratico, con una partecipazione popolare che fino a quel momento non era stata minimamente pensabile. Certo, sullo sviluppo di quegli slanci libertari davvero rari in qualsiasi ambiente militare deve aver pesato la forza dirompente del movimento studentesco e di quello per i diritti civili, attivi in buona parte del mondo occidentale dalla seconda metà degli anni Sessanta.
Il colpo di stato, andato in porto agevolmente il 25 aprile 1974, resta un’anomalia perché, di fatto, non venne sparato praticamente un solo colpo e il passaggio di potere avvenne in modo incruento. La spaccatura in seno alle forze armate era evidente e la vecchia giunta militare di destra, insieme agli alti ufficiali a essa fedeli, probabilmente fecero affidamento su un appoggio internazionale ideologico quanto militare che in realtà non ci fu. La tempistica fu a sua volta essenziale, sotto quell’aspetto. La convinzione che gli USA in qualche modo si mettessero di traverso per restaurare lo status quo e per scongiurare l’instaurazione di un governo di sinistra nella fidata Europa Occidentale per una volta fu malriposta: Washington era alle prese con i giorni finali dello scandalo Watergate che avrebbe costretto il presidente Richard Nixon alle dimissioni. E il nascituro e apparentemente improbabile governo di stampo socialista pensato dalla nuova giunta militare – che, va detto, fin dal principio optò per la partecipazione al governo anche di elementi non appartenenti alle forze armate, proprio per segnare una discontinuità che fosse prodromo di ulteriori cambiamenti – si dimostrò tutto sommato poco “pericoloso” nel quadro globale dell’egemonia statunitense.
La rivoluzione dei garofani in Portogallo – 25 aprile 1974 (MIMESIS, traduzione di Francesco Ambrosini, pagg 281, euro 22) della docente portoghese di storia politica contemporanea Maria Inácia Rezola è la cronistoria minuziosa di quei giorni, ma, soprattutto, è la lucida analisi politica del quadro in cui quella sollevazione si svolse. A partire dalla riunione di 136 capitani il 9 settembre 1973 che pare «abbia segnato l’inizio simbolico della cospirazione».
Se è vero che quasi tutti i golpe militari dichiarano di voler portare rapidamente a una transizione democratica, a un governo eletto legittimamente dal popolo che prenda il posto della giunta militare d’emergenza, la rivoluzione dei garofani davvero fu un’anomalia in quanto proiettata fin dal principio a quello sviluppo. L’obiettivo era sancito dal “Programma delle tre D” (descolonizar, democratizar, desenvolver) con misure immediate come tutela delle libertà fondamentali, smantellamento del vecchio regime, amnistia per i prigionieri politici e convocazione di un’assemblea costituente entro dodici mesi. Ovviamente, di resistenze in un paese tradizionalmente assoggettato ai diktat dei militari ce ne furono parecchie, ma il fatto stesso che sia stata proprio una cospicua frangia riottosa dell’apparato militare a propugnare quella sollevazione la dice lunga.
Il primo presidente della repubblica del nuovo Portogallo fu il generale António de Spínola che nominò come suo primo ministro in sostituzione di un elemento effimero il colonnello Vasco Gonçalves, di note simpatie comuniste. Fu proprio tale nomina a ritorcersi contro Spínola, le cui posizioni erano conservatrici e che fu costretto a dimettersi in favore Costa Gomes, che invece confermò Gonçalves nel ruolo di primo ministro. La caduta in disgrazia di Spínola fu in larga parte dovuta alla sua pervicace convinzione nel mantenimento delle colonie portoghesi, seppur concedendo loro maggiore autonomia e democrazia. Come si è detto, i nuovi venti libertari internazionali soffiavano nella direzione opposta. Con il rimpasto di governo, Angola, Mozambico, Guinea-Bissau e Capo Verde ottennero quasi subito l’indipendenza. A distanza di poco meno di un anno dalla rivoluzione dei garofani, ci fu un fallimentare tentativo di restaurazione militare messo in atto dalle frange delle forze armate fedeli all’ex-presidente Spínola. Il fallito golpe, nonostante ripetuti appelli a una fantomatica “maggioranza silenziosa”, diede ulteriore vigore alle spinte riformiste del primo ministro Gonçalves. La strada verso il Portogallo democratico che oggi conosciamo era tracciata. La vera transazione, dunque, si materializzò soprattutto a partire dall’estate del 1975, pochi mesi dopo l’abortito colpo di stato, quando, «una volta compromessa la capacità di leadership dei militari, i partiti e i movimenti sociali conquistarono posizioni e spazio sulla scena politica».
Come spesso accade in contesti di forte conflittualità socioeconomica, vennero a galla le «contraddizioni presenti nella società portoghese, divisa tra le aspettative degli operai e gli interessi dei detentori del capitale, un mondo rurale in disgregazione e le emergenti classi medie urbane, il conservatorismo di ampi settori della popolazione e lo spirito progressista delle nuove generazioni». Ma il fermento più che presente nella società portoghese diede al suo popolo la possibilità di rivendicare un ruolo attivo nella vita politica del paese, dopo decenni di oscurantismo e, ancor più, di passività, soffocato com’era dalla dittatura militare.