Gas station, una storia americana

Gas Station trasuda amore per un mondo che gli stessi americani più giovani oggi faticherebbero a riconoscere, schiacciato com’è da uno stile di vita sempre più frenetico ed egoista

Gas station, una storia americana
Paolo Del Conte
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15 Giugno 2024 - 23.22


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di Rock Reynolds

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1971, catena degli Adirondacks, parte settentrionale dello stato di New York. Un territorio selvaggio e romantico al tempo stesso, abitato da rudi montanari ma pure da qualche intellettuale alla ricerca di un buon ritiro e, soprattutto, da gente di città che aspira a uno stile di vita più in armonia con i ritmi delle stagioni e della natura. Un ragazzo e due ragazze si ritrovano a vivere insieme in una casa che fa da guscio protettivo alle storture di una società perbenista, da bozzolo in cui lentamente si insinuano turbamenti del cuore e incertezze esistenziali. È in questo contesto che la loro vicenda prende corpo tra le pagine di Gas Station (Corsiero Editore, pagg 332, euro 18) di Paolo Del Conte, professore di lettere in pensione e musicista di vaglia.

Nel momento di massima drammaticità della guerra del Vietnam, tra gli slanci agonizzanti del flower power, quella società mostra tutte le sue crepe.  Il Vietnam sembra lontanissimo. La preoccupazione di una famiglia per il proprio figliolo spedito controvoglia a combattere l’avanzata delle forze del male, invece, è presente e come. La propaganda di Washington non ha fatto bene i conti. E le notizie viaggiano più veloci che nel corso della Seconda guerra. Le prime informazioni sui massacri inutili e le prime indiscrezioni sui rovesci militari fanno il paio con il ritorno in patria di un numero crescente di ragazzi in bare di zinco patriotticamente avvolte nella Old Glory. Anche quella è una notizia che si diffonde a macchia d’olio. Ed è benzina su fuoco di una contestazione che inizia a trascendere confini geografici e barriere ideologiche e anagrafiche.

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Eppure è un’America in cui il sogno a stelle e strisce era ancora un progetto attuabile per molte delle persone che vi si accostavano e non solo una chimera annebbiata dalla società dei consumi. Ed è un’America in cui «l’estate indiana aveva spruzzato di colori bellissimi la natura circostante», ma in cui l’ingenuità della giovinezza dovrà fare i conti con un mondo meno innocente di quanto si vorrebbe.

Gas Station trasuda amore per un mondo che gli stessi americani più giovani oggi faticherebbero a riconoscere, schiacciato com’è da uno stile di vita sempre più frenetico ed egoista e sempre più assuefatto alle richieste omologanti del mercato. Per una scelta voluta, Paolo Del Conte lascia in inglesi parecchi termini di uso comune, a partire dal titolo. E la stessa immagine di copertina, una stazione di servizio con un bosco alle spalle, come ce ne sono a migliaia negli USA, è più che una dichiarazione di intenti. Del Conte è figlio di abbondanti letture e ascolti e quel paese lo ha visitato a più riprese, soprattutto con l’anima. Gli stessi personaggi principali, un ragazzo e due ragazze, tutti e tre fondamentalmente in fuga da qualcosa ma pure attaccati a qualcosa, appaiono una proiezione dell’autore da giovane e il ritratto di una società diversa dalla nostra che, nonostante la globalizzazione crescente e l’imposizione dei modelli consumistici a stelle e strisce, ancor oggi è distante anni luce. Ma, se l’autore ha sognato la sua “California”, – ovvero i monti Adirondacks – non l’ha del tutto idealizzata. Però, l’amore resta e Del Conte ce lo dice apertamente.

Com’è nata la sua passione per gli Stati Uniti?

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«Quando ho iniziato a scrivere le prime pagine del mio ultimo romanzo, avevo solo una vaga idea del personaggio principale. Non sapevo cosa avrebbe fatto, quali incontri sarebbero stati importanti per lui e per gli altri eventuali protagonisti. Mi sono detto “scrivi e basta, in fondo hai già fatto così anche con i primi due libri”. Però questa volta sentivo che sarebbe stata diversa. L’unica certezza che avevo era il titolo, Gas Station e, di conseguenza, il luogo. Gli Stati Uniti, quelli che ho conosciuto meglio io e amato per ciò che erano e in parte sono ancora. La “small town America”, come era titolato un servizio su National Geographic di molti anni fa, mi ha sempre affascinato. Non ne conosco il motivo con precisione, so soltanto che ho spesso faticato a spiegare questo mio sentimento, perché di questo si tratta, alle persone che vedevano e vedono ancora quel Paese solo sotto l’aspetto politico, militare, capitalistico, ecc. Ma di certo non ho viaggiato, guidando per circa 90.000 km nell’arco di trent’anni, per un interesse verso Nixon, Reagan, le varie guerre in cui erano impegnati i soldati americani o Wall Street. Poi, con l’età, mi sono stufato di dare spiegazioni inutili: un amore non si può spiegare. Non crede? Comunque questa mia passione, come la definisce lei, probabilmente ha origini molto lontane: io bambino che guardo il telefilm Lassie, quello ambientato in una fattoria del Midwest nel dopoguerra; lo trasmetteva la TV dei ragazzi una volta a settimana. Mi ha conquistato. È l’unico ricordo limpido che ho.»

A distanza di una cinquantina d’anni, cosa resta di quella stagione?

«Il racconto si svolge tra il 1971 e il 1972. I protagonisti principali sono tre, ma anche un quarto personaggio, una ragazza, svolge un ruolo importante durante la vicenda. Tutti amano la musica pur non parlandone, tutti la ascoltano continuamente, in casa sul giradischi o alla radio, in auto o sul furgone. Da noi era molto raro avere un’autoradio in quegli anni, ma in America era la norma e nei supermarket si sentivano in sottofondo canzoni meravigliose in continuazione. Ricordo nel 1974 un viaggio di due mesi e mezzo accompagnato pressoché ovunque da “Help me” di Joni Mitchell. Pertanto, i brani che ho inserito, senza citarli apertamente, fanno parte del tessuto del racconto, come il cibo, le strade, gli alberi, vivono con i ragazzi stessi e, in qualche caso, attraverso una breve parte di testo che nel libro è stata tradotta in italiano, interpretano un ruolo ben preciso riguardo a quanto sta avvenendo durante la storia, insomma quelle canzoni sono personaggi del libro a tutti gli effetti. Riguardo alla parte finale della sua domanda, per me la musica degli anni Sessanta e Settanta è La Musica! Penso rimarrà nei secoli a venire come uno dei periodi più creativi e meravigliosi di sempre. Non credo di essere il solo ad affermare che è valsa la pena nascere negli anni Cinquanta solo per aver visto, vissuto, ascoltato in tempo reale, artisti che hanno letteralmente cambiato il modo di fare musica, di scrivere i testi, di proporsi come modelli alternativi a quelli fino ad allora conosciuti e noi ragazzi siamo cambiati insieme a loro. È stata una vera rivoluzione. Il regalo che ho ricevuto per la buona pagella dopo gli esami di Terza Media è stato Sgt Pepper’s Lonley Hearts Club Band dei Beatles, 1967 (naturalmente avevo già tutti gli altri LP e 45 del gruppo). Credo sia sufficiente.»

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Cos’è che da ragazzo l’ha affascinata maggiormente di quel mondo? La musica? La natura? Il senso intrinseco di libertà?

«Ritengo che i tre elementi siano strettamente interconnessi. Riguardo la mia esperienza, che immagino si legga tra le righe del romanzo anche quando non espressa esplicitamente, quel Paese con i suoi spazi immensi non poteva che trasmettermi – addirittura contagiandomi – un senso di libertà che si può provare ovunque, intendiamoci, ma che io ritengo possibile soprattutto in luoghi in cui la natura è dominante. I giovani protagonisti di Gas Station non scelgono la città per trovare rifugio, per cercare una via alternativa, ma si ritrovano in un piccolo centro, circondato da una natura preponderante e selvaggia. Forse perché è in posti come quelli che io ho imparato ad accettarla per quello che rappresenta nella sua essenza e non secondo regole che abbiamo applicato noi esseri umani ad essa. Nel mio racconto spesso ci sono fenomeni atmosferici avversi: forti nevicate, freddo intenso, gelo, pioggia continua, ma i personaggi non se ne lamentano, sono abituati a quel clima degli Adirondacks, nel nord dello stato di New York, un posto bellissimo che, pur con un cielo non sempre clemente, riesce ad infondere un’atmosfera di libertà in cui l’uomo può trovare il suo posto, appartato, silenzioso, lontano dai ritmi dei grandi centri urbani. E la mia storia è ambientata cinquant’anni fa, figuriamoci… anche se credo non sia cambiato molto lassù da allora. Sicuramente sono stato influenzato da quelle esperienze poco più che adolescenziali, infatti da oltre trent’anni ho lasciato la grande città per vivere in collina, in un posto abbastanza appartato. Infine la musica: può rientrare tra questi elementi, ma bisogna fare uno “sforzo”, un passaggio culturale. Il suo fascino è quello di trasmettere emozioni e quella americana (ma ovviamente anche quella inglese, irlandese ecc.), per me ci è riuscita con la forza espressiva della musica in quanto tale: dei testi conoscevamo poco o niente. Le parole delle canzoni sono state inserite negli album di allora solo in un secondo tempo, eppure tutti noi ragazzi sapevamo che a partire dai primi Sessanta, molti autori folk, blues e non solo, cantavano la libertà, la difesa dei diritti civili, l’uguaglianza, il rifiuto di una società che idolatrava il dio denaro. I protagonisti di Gas Station sono tutti accomunati da questo sentire, forse non hanno ben chiaro nella mente quale sarà il loro futuro, ma sanno molto bene quello che non vogliono diventare. Inoltre proprio la musica di quel periodo aveva una posizione inequivocabile sulla guerra in Vietnam e sono certo che, insieme alle proteste e ai cosiddetti “Rallies” contro le politiche governative, abbia dato un contributo sostanziale per far terminare il conflitto prima di quanto chi guidava il Paese avrebbe voluto. ».

Passare dalla forma breve, il racconto, a quella del romanzo non sempre è agevole. Lei come ci è riuscito?

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«Ci tengo a fare presente che Gas Station per me è stato molto coinvolgente. Sicuramente i luoghi in cui si svolge il racconto hanno avuto un’importanza fondamentale, infatti durante la stesura ero lì a viaggiare su quelle strade, tra quelle foreste, nelle Main Street delle cittadine e dei villaggi ma, per quanto mi fosse già successo durante la scrittura dei primi due libri, questa volta i personaggi mi hanno preso in modo sorprendente, riuscendo ad emozionarmi, a farmi sentire molto vicino a loro durante lo sviluppo della vicenda, in un crescendo lento ma costante, al punto che in un certo momento ho capito che stavano vivendo di vita propria, si muovevano in modo autonomo ed io ero solo un osservatore delle loro azioni, pensieri, sentimenti… È stato allora che sono riuscito a comprendere quello che varie volte avevo appreso dai grandi scrittori: i protagonisti di un romanzo, di un racconto, di un’opera, sono a tutti gli effetti individui indipendenti, con carattere, personalità, modi di essere propri, ai quali l’autore dà solo l’opportunità di esprimersi tra le pagine di un libro. Quando la storia si stava avviando verso la conclusione, un pomeriggio mi è piovuta letteralmente dal cielo la frase finale. “Ecco” ho pensato, “è tutto finito”, e sono stato pervaso subito da un senso di sgomento. Poi la tristezza ha preso il sopravvento. Sì, in un attimo avevo realizzato che non avrei più rivisto i miei amici. I miei compagni di viaggio.»

L’isolamento nella natura è un topos della letteratura americana. Cosa ci lasciano Walden di Thoreau e il naturalismo nella cultura a stelle e strisce?

«Nel mio caso è stata l’America a portarmi da Thoreau e non viceversa. Mi spiego. A vent’anni un ragazzo come me aveva incontrato una certa quantità di grandi scrittori, prevalentemente italiani, quelli che ci suggeriva di leggere il professore del liceo, nel mio caso un grandissimo docente. Parliamo di Pavese, Bassani, Fenoglio, Morante e via dicendo, ma anche di Steinbeck, Hemingway, Melville, addirittura Kerouac. Ma di Thoreau no, proprio non se ne parlava. È stata un’amica di mia madre che un giorno mi ha regalato la sua copia di Walden, ovvero Vita nei boschi, penso dopo aver colto il mio entusiasmo per la natura americana che avevo scoperto durante il mio primo viaggio. E sì, quella lettura è stata molto formativa, anche difficile e noiosa, a tratti, ma importante per le scelte che ho fatto nella vita. Molto significative anche alcune opere di Louise Dickinson Rich, autrice conosciuta negli Stati Uniti a partire dagli anni Quaranta, quando il suo libro We took to the woods ebbe un’accoglienza straordinaria, fino a raggiungere già nei primi tempi dopo la pubblicazione oltre 250.000 copie vendute, molte delle quali in prevendita, spesso inviate dalle famiglie ai soldati americani impegnati nella guerra in Europa o nel Pacifico. Una scelta di vita radicale quella dell’autrice che, insieme all’uomo che diventerà suo marito, lascia il suo lavoro di insegnante in una città del Massachusetts per ritirarsi nelle foreste del Maine nordoccidentale e vivere immersa nella natura, quella vera… Ancora oggi i suoi libri sono molto letti dagli americani. In Italia non è mai stato tradotto. Quello che ho potuto vedere io al riguardo è che il desiderio della ricerca di solitudine a stretto contatto con gli elementi naturali è molto diffuso un po’ ovunque negli Stati Uniti e in alcune zone la cultura minimalista si coglie proprio come una scelta etica, salvifica.».

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Ci sono tre luoghi primari nel suo romanzo: la stazione di servizio, la casa e la libreria in cui una delle due ragazze trova un impiego. Mancano solo il supermercato e la chiesa e sembra che il paesino americano per eccellenza ci sia. Cosa c’è di tanto affascinante in quel mondo?

«Nel mio romanzo lei ha individuato tre luoghi primari: la stazione di servizio, la grande casa bianca degli anni Trenta, la libreria, e osserva che mancano solo il supermercato e la chiesa per completare il “quadretto” della cittadina americana per eccellenza. In realtà tra le pagine del libro si incontrano più volte cenni ai grocery stores, quelli che noi chiamiamo negozi di alimentari e che in quegli anni erano molto diffusi nei piccoli centri prima di essere sostituiti dai supermarket che allora si trovavano solo in zone fuori dall’abitato, in aree conosciute come shopping center. Una protagonista nelle grocery ci lavora per brevi periodi, poi trova un impiego migliore in un hardware, ovvero il ferramenta, che era ed è un immancabile esercizio commerciale nella tipica cittadina americana. Nel romanzo viene scritto con la lettera maiuscola, tanta era l’importanza che un negozio del genere aveva. Vendeva di tutto, dagli attrezzi, agli accessori più disparati per gli artigiani, fino agli indumenti da lavoro. È ancora così e credo che rimarrà tale negli anni a venire. Certo, le grandi catene oggi hanno avuto il sopravvento sui piccoli rivenditori, ma non bisogna dimenticare le distanze che in America, pur non rappresentando un vero e proprio ostacolo, una certa incidenza sulla scelta degli acquirenti ce l’hanno. La chiesa viene menzionata solo in un capitolo verso la fine del libro: «… la chiesa metodista di legno bianco…», tanto per dare un’idea della forma dell’edificio che connota in modo essenziale i luoghi di culto tipici del New England o, in questo caso, dello stato di New York. Comunque i ragazzi che animano le pagine del romanzo non erano particolarmente praticanti… Il fascino che questi piccoli centri, villaggi o cittadine hanno sempre avuto per me è quello di farti sentire a casa. Sì, da subito, quando giovanissimo ho cominciato a viaggiare in quel Paese, la sensazione che ho provato più volte è stata quella. Mi piaceva gironzolare sui marciapiedi di legno davanti alle vetrine di negozi di libri, spesso usati, Thriftbook store, oppure entrare a dare un’occhiata in un Hardware, fermarmi per un hamburger in un Diner (tavola calda), dove li sanno fare per davvero… oppure visitare negozi di oggetti usati e Antiques. E la gente poi, così diversa dall’ Europa, subito amichevole, gentile, curiosa di come mai dei giovani italiani fossero capitati lì, in quel posto dimenticato, perché i turisti vanno da altre parti, lo sappiamo… Insomma, ho sempre trovato in quei piccoli centri un ambiente familiare e accogliente, spesso accompagnato da inviti a casa o consigli per visitare luoghi nelle vicinanze davvero poco conosciuti e magari splendidi.»

Quanto le prime rivendicazioni studentesche americane hanno impattato sulla formazione di un giovane studente come lei? E che sensazioni ha provato, da ex-studente ma soprattutto da ex-docente, quando ha visto giovani studenti italiani occupare università e altre scuole?

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«A quest’ultima domanda vorrei rispondere in modo abbastanza sintetico. È indubbio che per i giovani della mia generazione le rivendicazioni studentesche abbiano avuto un’influenza formativa molto forte, tanto più per un adolescente che come me viveva e frequentava il primo anno di liceo a Milano, nel 1968. Ma non vorrei mescolare troppo la politica con il racconto dei quattro ragazzi del romanzo, prima di tutto perché la loro posizione e, ovviamente la mia, è estremamente chiara, in secondo luogo in quanto da noi la politica, i partiti, le organizzazioni sindacali, hanno, a mio modo di vedere, ammazzato il nostro spirito di rinnovamento. Poco importa se i giovani si consideravano extraparlamentari, ma certe prese di posizione che hanno diviso in gruppi e indebolito il Movimento, quegli schematismi, l’apparato, il coordinamento, ecc., si rifacevano a modelli ideologici e politici che io reputo, e già allora ritenevo, obsoleti, non più adatti all’epoca della contestazione giovanile. Per me quel legame, così come è stato interpretato, non rappresentava più le richieste originarie di una generazione, ne ha stravolto lo slancio volto al cambiamento. Purtroppo sappiamo come è andata a finire. Riguardo alle occupazioni degli ultimi anni non so davvero cosa dire, se non che le richieste degli studenti vanno sempre prese in seria considerazione perché esprimono il desiderio di cambiamento che è insito nell’essere giovani, portano con sé elementi che vanno vagliati con attenzione e sincera disponibilità, ma questi ultimi due sostantivi e soprattutto l’aggettivo che ho utilizzato, non fanno parte del mondo di coloro che, ahimè, ci governano. Da quando ho memoria.»

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