di Alessia de Antoniis
Love Film Festival – intervista AVATI
Si è conclusa domenica 30 giugno, con una serata concerto al Palazzo dei Priori di Perugia, la decima edizione del Love Film Festival, primo festival cinematografico in Italia incentrato sul tema dell’amore, diretto da Daniele Corvi.
Un prestigioso parterre di registi, attrici e attori, produttori nazionali e internazionali, ha partecipato al concorso che assegna il Grifone d’oro alle migliori produzioni nazionali e internazionali. Due premi del film Festival di Perugia sono andati al film Dante: Miglior Regia “Fondazione Perugia” a Pupi Avati e Miglior Produzione “Associazione dei Mestieri del Cinema umbri” al produttore Antonio Avati.
Girato in ben 26 comuni, Dante valorizza l’Umbria come mai prima d’ora. Soprattutto valorizza Dante, uno dei più famosi scrittori al mondo che è anche, secondo il maestro Pupi Avati, “uno dei personaggi più trascurati della storia del cinema e della televisione mondiale. Solo all’inizio degli anni ‘50, si dedicò a Dante una cosa malfatta, con un Dante improbabile interpretato da Albertazzi, girato in studio, con scenografie di cartone. Una cosa imbarazzante.
Dopo quel goffo tentativo – continua Pupi Avati – Dante non ha mai avuto nessun tipo di attenzione.
Ci si avvicina a Dante attraverso l’Inferno, la Divina Comedia, le solite cose. C’è un altro Dante nella Vita nova: il diario d’amore di un giovane ventenne che, all’indomani della morte di Beatrice, riassume in modo cronologico, puntiglioso, quello che accadde dal momento che la incontrò a nove anni e per tutti gli anni che le andò dietro. Allora si usava così.
Oggi se gli uomini vengono dietro a voi donne, chiamate i carabinieri. Una volta,, invece la ragazze dovevano avere uno che andava loro dietro. Noi ragazzi ci dicevamo tra di noi: tu a chi vai dietro? Io a Paola Zuccotti, tu? Io alla Piretti. Poi a un certo punto, dopo due anni che andavo dietro alla Paola Zuccotti, mi accorsi che veniva dall’altra parte questa Annalisa Sotterini, e io dissi: cacchio, ma l’Annalisa Sotterini è più bella. Allora mi girai, e andai dietro a lei.
Raccontai questa storia, che fa parte del mio repertorio, una sera, un anno fa, a Santarcangelo di Romagna. Uno si alzò in piedi e disse: lo so! E io: come fai a saperlo? Perché Paola Zuccotti era mia zia! Come era tua zia? È morta? Sì, è morta. E come fai a sapere che le andavo dietro? Perché prima di morire ci ha detto: “a me mi veniva dietro Pupi Avati”. E pensare che non me l’aveva mai fatto notare che si era accorta che le andavo dietro, non si era mai girata.
Perché ha voluto parlare di Dante che andava dietro a Beatrice?
Dante è andato dietro a Beatrice Cortinari per nove anni. Mi è sembrata una storia meravigliosa: una ragazza che sposa un altro e che poi muore, ma che rimarrà per sempre nelle parole di chi l’ha amata. Ho preferito l’aspetto più spirituale, il meno politico della vita di Dante, per far capire come sia il dolore a dare origine alla poesia.
Il tema del Love Film Festival è la passione: cos’è la passione per Pupi Avati?
La passione è ingannatrice, perché ti fa innamorare di un ruolo, anche professionale. Io per esempio mi innamorai, forse per necessità, per trovare il modo di essere notato nella Bologna degli anni ’50. Ero molto timido, non particolarmente attraente, avevo tutte quelle inibizioni tipiche degli adolescenti, quelli un po’ emarginati. E allora mi innamorai di questi personaggi, jazzisti, la cui musica straordinaria era arrivata insieme alle truppe di liberazione americane. E immaginai che, attraverso il jazz, avrei potuto raggiungere il successo.
Desiderava raggiungere il successo?
Il successo è una forma di infantilismo: vuol dire pretendere di essere amati un po’ di più degli altri. Con Lucio Dalla parlavamo spesso, quando lui non era ancora famoso, di questa tensione, questa preoccupazione, questa smania.
E la passione ti fa immaginare che tu, attraverso un ruolo di jazzista affermato, possa conquistare le donne. Perché il tema centrale, allora, erano le ragazze: la quantità di ragazze che riuscivi a conquistare dava la misura del tuo successo. Parlavamo solo di donne e, per piacere alle donne, dovevi avere un sassofono al collo. Tra uno senza sassofono e uno con sassofono, la donna sceglie quello con sassofono. E allora mi illusi, attraverso la passione, di poter diventare un grande jazzista, senza fare i conti con la mia mancanza di talento musicale.
Quindi la passione confonde. Molte persone arrivano a 50, 60 anni, che hanno inseguito un sogno per tutta la vita, senza rendersi conto che, se non si è realizzato, è perché non hanno fatto i conti con il loro talento, ma solo con la loro passione.
Io ho avuto la fortuna, dolorosissima, di avere accanto dei musicisti talentuosi, che mi hanno dimostrato la differenza che c’era fra me e loro. Quando li ho chiamati e ho detto “ragazzi, smetto di suonare”, nessuno di loro ha detto no.
Il suo film che ha nel cuore?
Il primo. Il primo è come il primo bacio, è come la prima volta che hai una cosa, che fai una cosa: è indimenticabile. È indimenticabile soprattutto perché è accaduto.
Il mio primo tentativo di fare un film lo misi in atto dopo aver abbandonato la musica, dopo aver tentato di fare una vita normale, vendendo pesce surgelato della Findus per quattro anni. Sposandomi, facendo due figli, cercando di normalizzarmi il più possibile. Ma non ero felice perché volevo un sogno, un nuovo sogno, un secondo sogno. Lo cercavo e, quando vedi il film di Fellini 8 1/2, rimasi folgorato dall’idea di cinema che c’era dietro. Era un cinema che andava oltre la realtà, entrava nell’intimo, nei sogni, nella psicologia, nella parte più segreta dell’essere umano. Rimasi così folgorato da convincere i miei amici ad andarlo a vedere. Ne rimasero incantati. E, nonostante fossero persone lontanissime dal mondo del cinema – erano un antennista, un commercialista, un fruttivendolo, un guardiano dei musei e un amministratore di condomini – riuscii a convincerli che avremmo potuto fare un film.
Non avevamo la minima idea di come sarebbe stato, eppure ce la feci. Mi chiesero: ma come facciamo? Chiesi:Tu cosa sai fare? Spostare i mobili. Allora fai la scenografia. Giuliano, cosa sai fare? Ma, vedi, sono molto elegante. Allora fai il costumista. Ero un Gesù con gli apostoli, che faceva la squadra per la grande battaglia della vita. Così, quando vado nelle scuole, la prima cosa che insegno è quella di avere grandi sogni. I ragazzi adesso hanno una gran paura di progettare cose grandi. Sono vittime di una ragione che è tossica, che li ha castrati, li ha ridotti ad essere totalmente concreti, pratici. Io vendevo bastoncini di pesce e ho fatto più di cinquanta film. Domani ne comincio un altro. Se tu non ci credi, le cose impossibili non ti accadranno mai.
Domani inizia a girare il 56mo film. Di cosa parla?
È una docu-fiction per Rai per celebrare il centenario della prima trasmissione radio. Il 6 ottobre del 1924 andò in onda la prima trasmissione radio da Palazzo Corradi, vicino a Piazza del Popolo a Roma. C’erano 5.000 radio che ascoltavano in tutta Italia. Il 6 ottobre di cento anni dopo andrà in onda il nostro film.
Siamo in attesa di vedere in sala L’Orto Americano. Un film in bianco e nero…
Per la prima volta ho girato un film in bianco e nero, scoprendo quanto sia più cinematografico del colore. Il bianco e nero ha la capacità di portarti in una realtà improbabile, perché la realtà non è mai bianca e nera, siamo circondati dai colori. Invece il bianco e nero è proprio del cinema, è la fotografia, ha un potere evocativo. Tu vedi bianco e nero, vedi una sagoma scura, e puoi pensare che sia rosso o blu: la tua immaginazione è chiamata ad avere un ruolo maggiore rispetto al film a colori, che oggi può arrivare a un grado di definizione assoluta. D’ora in poi piacerebbe fare solo cose in bianco e nero, perché veramente ho avuto la sensazione di fare cinema per la prima volta.
Esiste l’aggettivo “avatiano”. Che cosa significa per lei?
Sfigato. Ho la sensazione, in prossimità dei titoli di coda della mia vita, che “avatiano” abbia a che fare con la memoria. Tutte le sere, prima di addormentarmi, leggo sul mio computer 250 nomi di persone che non ci sono più e che mi sono state vicine durante la loro vita. Ha un effetto terapeutico, come una preghiera: nel senso che mi rasserena, mi toglie la paura, fa sì che io mi addormenti. Questo evocare tutte le persone che nella mia vita hanno avuto un ruolo, viene dalla cultura contadina, dove si aveva un grande rispetto per i defunti. Mia madre aveva in camera sua le foto di tutti i parenti. Dobbiamo recuperare queste cose, non dobbiamo farcele portare via da queste nuove generazioni che pensano solo al presente, neanche al futuro. Ed è grave.
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