E’ scomparso, a 86 anni, Roberto Herlitzka: uno dei più importanti attori contemporanei. Era nato a Torino il 2 ottobre del 1937 da padre ceco di religione ebraica e madre di religione cattolica: durante la dittatura fascista il padre scappò in Argentina per sfuggire alle persecuzioni causate dalle leggi razziali, mentre lui rimasto in Italia, è riuscito a salvarsi usando il cognome della madre.
Diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica è stato diretto dal suo maestro Orazio Costa. Tra le sue interpretazioni più importanti quella di Buongiorno Notte con Marco Bellocchio in cui ha interpretato Aldo Moro. In occasione della presentazione del film al Festival di Venezia lo abbiamo intervistato e come fa sempre il Giornale dello Spettacolo cerchiamo ricordarlo attraverso le sue stesse parole:
Cosa ha significato per lei portare sullo schermo l’icona di una tragedia collettiva?
Sentivo di dovere portare sullo schermo un personaggio che fosse non l’icona politica che tutti conosciamo, ma il protagonista di una tragedia di carattere fortemente personale. Per me era davvero importante immedesimarmi nella condizione di una persona prigioniera, condannata a morte, consapevole di dovere morire, che soffre soprattutto per il dovere lasciare la famiglia. La mia sensazione è che Moro in quei momenti abbia smesso di sentirsi un politico e sia tornato ad essere solo un padre, un marito, un nonno. Pur mantenendo salda l’immagine politica nei confronti dei suoi amici per ‘salvarsi. La mia impressione di attore è che la cosa possibile fosse quella di impersonarlo solo come uomo e non come statista.
Lei ha cercato di imitare Moro in qualcosa? Perché sembrerebbe che lei abbia interpretato più un’emozione che un personaggio…
Minimamente ho cercato di imitarlo in qualcosa. Nelle lunghe pause, nel ritmo delle sue parole…ho ascoltato molte interviste radiofoniche. L’altro giorno, curiosamente, ho rivisto in Televisione uno sketch in cui Alighiero Noschese lo imitava. Non è stato, né voleva essere una ricostruzione storica. E’ stato un ritratto diverso: l’immedesimazione in una condizione.
Forse per la prima volta in maniera tanto drammatica, anche rispetto all’illustre precedente in cui Gian Maria Volontè diede al personaggio un’impronta politica e perfino ironica, lo spettatore è partecipe della dimensione spaziale della prigione di Moro…
La ricostruzione esatta di una realtà eccezionale oltre a costituire un valore per gli spettatori ha aiutato molto noi attori. Dentro quella prigione ho potuto immaginare le emozioni di qualcuno che vi si trovava davvero.
In attesa di un destino incerto…
Da quello che io ho letto, credo che Moro abbia nutrito fino all’ultimo la speranza di essere liberato, ma che non avesse in tal senso alcun genere di sicurezza.
Lei ha svolto sempre un lavoro molto importante portando con grande umiltà sullo schermo o in palcoscenico personaggi che non hanno un impegno sociale evidente e che – al tempo stesso – anche in virtù della sua interpretazione entrano nella coscienza politica e spirituale dello spettatore. Lei non è un attore ideologico, eppure quando ha interpretato un personaggio come quello del Federico Caffè de L’ultima lezione i suoi dialoghi sarebbero potuti finire per l’attualità economica e politica sui quotidiani…
Essere umile non mi fa fatica. E’ una condanna. Quando qualcuno mi fa dei complimenti, onestamente, mi meraviglio sempre e ancora. Quello che faccio non mi soddisfa quasi mai. Mi sembra poco, mi sembra meno di quello di che vorrei fare per certi ruoli come Moro o Caffè, ma anche per altri…qualche volta mi approvo. E’ rarissimo che accada e quindi nutro una grande soddisfazione. Nel caso di Moro mi sono rivisto e mi pare effettivamente di essere riuscito ad avvicinarmi di più a quello che io desideravo portare sullo schermo. Il grande merito è di Bellocchio che è una guida straordinaria. Ti entra dentro.
Anche in personaggi minori lei dimostra di avere un’enorme capacità affabulatoria. In questo film, però, reso forzosamente passivo sulla parola, raggiunge la ‘vittoria ideale’ attraverso la corporeità soprattutto nel gioco molto ironico che il suo simulacro intrattiene con la giovane terrorista…
Mi è sembrato naturale che in quella situazione Moro fosse privato della sua arma ovvero proprio della parola. In questo caso l’uomo perde la funzione pubblica e si riduce ad un prigioniero. Si capisce, però, che è un uomo abituato a parlare.
Nel film lei si confronta con pochissimi interlocutori…
Per una persona prigioniera come Aldo Moro, la comunicazione con l’esterno non significa solo parlare, ma equivale a vivere. L’attenzione alle parole degli altri può significare la morte, oppure la vita. Sono le parole altrui a riempire lo spazio. Gli interrogatori che subisce lasciano spazio solo a caute risposte.
Lei attraverso questo ruolo è entrato nell’immaginario collettivo. Non ha mai pensato al rischio che – soprattutto i giovani – possano confonderla, andando a sostituire lei al vero Moro?
Speriamo di no. Purtroppo, però, devo dire che mi è già successo con Federico Caffè dal quale fisicamente ero molto più distante di quanto io sia con Aldo Moro. Qualcuno mi diceva di essere rimasto deluso dal fatto che il vero Caffè non mi assomigliasse e che – in qualche maniera – mi preferiva, perché più ‘aderente’ all’immagine che aveva di lui attraverso i suoi scritti…E’ presto per dirlo, ma spero proprio di no. Sento molto forte la responsabilità nei confronti di chi Moro lo ha conosciuto davvero. Mi dispiacerebbe molto…