Quando Alain Delon si raccontava: "Sono un attore non un commediante, i miei sentimenti sono estremi"

Una intervista all'attore francese di molti anni fa. Alain Delon raccontava la sua vita e non solo

Quando Alain Delon si raccontava: "Sono un attore non un commediante, i miei sentimenti sono estremi"
Alain Delon
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Marco Spagnoli Modifica articolo

18 Agosto 2024 - 09.59


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Per 17 anni di attività l’Associazione Philip Morris Progetto Cinema ha restaurato 17 film e 12 cortometraggi classici del cinema italiano.   E’ stata “Il segno di Venere” di Dino Risi l’ultima pellicola restaurata, mentre La prima notte di quiete di Valerio Zurlini fu riportata all’antico splendore nel 2000. In quell’anno, abbiamo incontrato Alain Delon che ricordiamo tramite questa intervista. 

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E’ stato un monumento vivente all’immaginario e al cinema europei. Attore di centinaia di film in Francia, in Italia e nel resto del mondo Alain Delon è stato un interprete che a più di sessanta anni aveva deciso di lasciare il cinema, per sempre. Il suo ultimo film Uno dei due al fianco di Jean Paul Belmondo è stato un omaggio e una citazione di tanto cinema fatto nel corso degli anni seguito da due breve apparizioni in Actors di Bertrand Blier (2000) e da Asterix alle Olimpiadi (2008). Da allora, però, Delon è apparso solo in televisione fino a quando la malattia lo ha recluso a lungo in casa. 

La sua è stata una carriera straordinaria: da Rocco e i suoi fratelli a Il Gattopardo, da Zorro a Il ritorno di Casanova, da Delitto in pieno sole a Borsalino Delon ha incarnato il sex symbol europeo con la capacità di riuscire spesso a problematizzare il contesto esistenziale in cui si trova. Un elemento non secondario quest’ultimo molto evidente ne L’ultima notte di quiete (1972)di Valerio Zurlini. Il film ambientato in una Rimini livida e spettrale lo vede nei panni di Daniele Dominici un supplente di lettere che ha fatto alcuni anni di galera, quindi ha deciso di esiliarsi a Rimini insieme alla moglie (Massari), per la quale non prova più amore, ma i due restano legati da tristi abitudini e da una comune crisi esistenziale. Il liceo del preside tradizionalista (Salvo Randone) lo accoglie come un professore dai metodi strani, permissivo e moderno, che assegna compiti introspettivi e lascia gli studenti liberi di studiare o meno. Daniele finisce per legarsi a Vanina (Sonia Petrova), una bella studentessa fidanzata con un ricco playboy (Maurizio Merli) che la madre (Alida Valli) vorrebbe farle sposare per risolvere ogni problema economico. Vita di provincia, partite a carte, serate in discoteca, notti brave in una villa signorile, Daniele sogna la fuga insieme alla sua studentessa, nonostante le minacce e le accuse del fidanzato; il rimorso per la compagna abbandonata e il dubbio che possa suicidarsi lo fa tornare indietro, incontrando un destino crudele. 

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Si dice che lei abbia avuto dei pessimi rapporti con il regista de La prima notte di quiete Valerio Zurlini…

Francamente non mi ricordo queste presunte polemiche, del resto i rapporti sono difficili con tutti i grandi. Crede che con Antonioni e Visconti sia stato un idillio di rose e fiori? Sono rapporti con personalità forti e quindi complessi di per sé.

Io sono un attore, non un commediante. Ho sempre messo la mia forte personalità al servizio per cinema e niente altro. Noi attori siamo fatti di sentimenti estremi: di pudori. Certi attori come me, Gassman, Mastroianni non avrebbero potuto avere le carriere che hanno avuto se non avessero avuto questa sensibilità estrema. Il mio rapporto con Zurlini era come quello che si ha con una donna: amore, passione, odio, rabbia. Certe volte andava bene altre male, come in una vita di coppia. Ma in un matrimonio cos’è che conta davvero? Il tempo che si passa insieme: dieci, venti, trenta anni. Qui con Zurlini quello che importa davvero è il risultato: un film meravoglioso che si chiama La prima notte di quiete. Un capolavoro. Solo questo che conta. Come ci si è arrivati a realizzarlo, non importa più a nessuno. Questo film ha contato molto nella mia vita e io sono legato a tutti i momenti della sua realizzazione. 

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E’ stato difficile interpretare in questo ruolo?

No, nessuno. Gli stessi che ho avuto per tutti i miei personaggi. La cosa che è più difficile per me è diventare un italiano. Come parigino mi stupisce sempre essere scelto per diventare un italiano. Dopo Rocco e i suoi fratelli la gente per strada mi fermava chiamandomi Rocco. Certo è vero che anche il doppiaggio aiuta.

Per anni ha incarnato il duro dall’animo fragile e sensibile…

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Sono questioni da rotocalchi. Fortunatamente l’uomo era fragile e duro al tempo stesso anche molto prima di me. E – grazie a Dio – lo sarà anche dopo, qualsiasi cosa io faccia.

Ha sempre detto di essere nato come attore in Italia…

E’ vero e lo ripeto. Quaranta anni fa ho iniziato a lavorare in Italia e tutto quello che ho fatto in Francia è stata solo una conseguenza. Qui io ho le mie basi. Come mi diceva Luchino Visconti una carriera si costruisce come un palazzo: su solide basi.

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Il cinema che ho fatto in Italia era il ‘mio’ cinema. Adesso sebbene la mia vita non sia ancora finita, la mia carriera certamente lo è. Il cinema di oggi non mi interessa più. Preferisco vivere con la mia immagine e i miei amici quasi tutti scomparsi a parte solo pochi nomi. Mi basta così…

Ma davvero non c’è nessuno con cui le interesserebbe lavorare oggi?

No, in tutto il mondo no. Forse una cosa mi manca ancora. Lavorare con Marlon Brando. Chessò facendo il cameriere in una scena e dicendogli: “Il signore è servito, questo è il suo caffè.” 

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Cosa non le piace del cinema di oggi?

Questo è il millennio della televisione. I film oggi sono sempre e comunque pensati per arrivare sul piccolo schermo. Ci sono effetti speciali, animali, elementi fantastici. Non ci sono più le storie vere che raccontava il mio cinema. Credo che il cinema morirà pian piano per colpa nostra che per anni ci siamo inginocchiati nei confronti degli americani, facendo loro da zerbino. Non ci saranno più i nostri film italiani, francesi e spagnoli. Tutto sparirà e rimarrà solo l’America con la sua industria che delle nostre piccole storie non sa cosa farsene.

Davvero non sente l’esigenza di comunicare la sua arte se non addirittura il suo mestiere alle nuove generazioni di cineasti e di attori?

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No, affatto. Le generazioni cambiano e così il cinema. E’ tutto diverso oggi. Credo che bisogna essere lucidi. Dopo quarantaquattro anni di cinema posso smettere o no? Ho altre cose da fare.  Io appartengo al passato. 

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