C’è un 11 Settembre che ha segnato una generazione, la mia. L’!1 Settembre 1973. Il giorno in cui il “compagno presidente”, Salvador Alllende, morì con il mitra in mano nel Palacio de La Moneda, preso d’assalto dall’esercito del generale golpista e fascista, Augusto Pinochet. Quel golpe, è bene ricordarlo ai beatificatori del centenario Henry Kissinger, fu ideato, sostenuto, dagli Usa del presidente Richard Nixon e pilotato dall’allora segretario di Stato Henry Kissinger, quello che oggi viene narrato come un “pacificatore” (sic). Mezzo secolo dopo quella ferita non si è rimarginata. Quella storia non va fatta cadere nell’oblio. Senza memoria non c’è futuro. E la memoria del golpe cileno deve essere da monito in un presente dove fascisti di vario genere si ripropongono a livello planetario, e, ahinoi, nel nostro paese.
Ricordare, e ancora ricordare
Encomiabile in tal senso è il lavoro fatto dall’agenzia Dire e dal suo ottimo responsabile esteri, Vincenzo Giardina.
Di seguito due report di grande pregio: “Non sono bastati 50 anni per ricostruire le storie. Una per una, come i corpi dei “desaparecidos” da ritrovare e identificare, per rendere giustizia e verità a loro e a tutti. “E’ lo Stato che ha commesso quei crimini e ora è lo Stato che deve assumersi la responsabilità” sottolinea Tomas Hirsch, deputato cileno, da sempre oppositore della dittatura di Augusto Pinochet. Figlio di genitori ebreo-tedeschi fuggiti dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale, è stato fotografo e poi attivista per i diritti nel momento più difficile. Ora guida un partito che si chiama Accion Humanista ed è di umanità che parla con l’agenzia Dire. Siamo alla vigilia dell’11 settembre, che a Santiago non è quello delle Torri gemelle ma quello del 1973: il giorno del golpe che mise fine al governo democratico di Salvador Allende, suicida nel Palacio de La Moneda bombardato dall’aviazione di Pinochet.
Il generale è invece morto nel 2006, prima che fosse condannato in tribunale per crimini contro l’umanità. Oggi Hirsch parla però anche di un Cile nuovo. Quello rappresentato sul piano politico da Gabriel Boric, uno dei capi di Stato più giovani al mondo, candidato del partito di sinistra Convergencia Social eletto nel 2022, a soli 37 anni, interpretando voglia di cambiamento, mobilitazione e richieste di giustizia popolari. È suo il “Plan Nacional de Búsqueda”: un’iniziativa presentata nei giorni scorsi con la quale lo Stato si assume l’onore delle inchieste e delle ricerche per ritrovare i resti dei “desaperecidos”, le persone fatte scomparire e quasi sempre assassinate durante la dittatura.
“L’obiettivo è far sì che a indagare non debbano essere più i parenti delle vittime ma lo Stato, che mette tutte le sue risorse a disposizione per guarire questa ferita” spiega Hirsch. “Sono ancora più di mille le donne e gli uomini cileni dei quali non sono mai stati trovati i resti”.
C’è allora una storia ancora da scrivere. Un nuovo capitolo da aggiungere ai fatti di 50 anni fa, che furono disumanità e impegno, violenza e solidarietà, cilena e internazionale.
La prima pagina reca la data 11 settembre 1973. Da quasi tre anni in Cile governa Allende, socialista, eletto presidente grazie all’alleanza di Unidad Popular che tiene insieme le anime della sinistra, dai cattolici del Movimiento Unitario de Acción Popular al Partido comunista. Del suo programma di riforme si parla come della “via chilena al socialismo”. Abbastanza perché gli Stati Uniti di Richard Nixon, con gli agenti della Cia già in allerta, appoggino un golpe militare. Documenti declassificati la scorsa settimana confermano che il presidente americano è informato del progetto di golpe già l’8 settembre. Al fianco di Pinochet, allora capo dell’esercito, ci sono il generale Arellano Stark, il viceammiraglio della Marina José Toribio Merino e il comandante dell’Aeronautica militare Gustavo Leigh.
Le ultime ore del compagno presidente
È la mattina dell’11 settembre. Attorno alle 7.30 Allende raggiunge il Palacio de La Moneda informato del tentativo di golpe, partito dalla località di Valparaiso. Passano circa 45 minuti e le forze di terra danno l’attacco al palazzo presidenziale. I carri armati chiudono le strade e su La Moneda cominciano i raid dell’aviazione. Sono stroncati i tentativi di resistenza popolare e ha inizio la caccia all’uomo. I detenuti sono trascinati a forza nello stadio di Santiago: saranno in gran parte torturati e uccisi. Chi può o ha solo fortuna cerca una via di fuga: nel mirino dei militari finisce chiunque abbia avuto un ruolo nel governo o nella vita sindacale e culturale di Unidad Popular.
Queste vicende sono ricostruite in più documentari trasmessi dalle tv del Cile in questi giorni di vigilia. La prospettiva è anche internazionale, come internazionali furono le ripercussioni del golpe, in tempi di Guerra fredda, forti in particolare per i movimenti e i partiti di sinistra anche in Europa: il modello della “via chilena al socialismo” non è possibile, non nell’America Latina “cortile di casa” degli Stati Uniti e nemmeno nell’area della Nato.
Con Hirsch si parla anche del ruolo dell’Italia, già quell’11 settembre. “L’ambasciata del vostro Paese è stata fondamentale nei mesi successivi al golpe” ricorda il deputato: “Permise di salvare centinaia di vite di persone perseguitate dalla dittatura”.
La storia è raccontata anche dal regista Nanni Moretti nel docufilm del 2018 “Santiago, Italia”. Attraverso video d’archivio e nuove interviste ai protagonisti, si ricostruisce ciò che avvenne nella sede dell’ambasciata. A parlare, a 45 anni ormai dai fatti, sono in particolare due diplomatici, Piero De Masi e Roberto Toscano. “Il titolare della sede si trovava in Italia dove era accanto a un figlio in fin di vita e loro si trovarono di fronte a una situazione nuova, con persone che per sfuggire alle persecuzioni scavalcavano il muro dell’ambasciata e chiedevano asilo politico” ricorda Moretti. “A volte la differenza la fanno i singoli e loro, dall’oggi a domani, presero la decisione giusta”. Fu dato rifugio a centinaia di oppositori di Pinochet, marxisti, repubblicani o cattolici: restarono nell’ambasciata per mesi, fino al novembre 1974, e tanti di loro poterono raggiungere l’Italia.
Un impegno e un contributo difficili, anche per via delle alleanze internazionali di Roma, che spingevano per una graduale normalizzazione dei rapporti con il governo “de facto” di Pinochet. Alla fine del 1974 sul muro dell’ambasciata fu messo il filo spinato e i militari di Pinochet inasprirono la sorveglianza. La solidarietà di 50 anni fa però a Santiago non è stata dimenticata. “Ancora oggi”, conferma Hirsch, “per i cileni questa è una storia che ha valore”.
“Furono molti coloro che arrivarono qui saltando il muro di cinta” ricorda Valeria Biagiotti, ambasciatrice in Cile. Con l’agenzia Dire si sofferma su una storia anche italiana, alla vigilia del cinquantesimo anniversario del golpe dell’11 settembre 1973.
E’ l’inizio della dittatura del generale Augusto Pinochet. I bombardamenti dell’aviazione sul Palacio de La Moneda, dove muore suicida il presidente eletto Salvador Allende, segnano anche l’inizio della repressione: nel mirino ci sono dirigenti politici, attivisti sociali e semplici cittadini, colpiti solo perché sospettati di sostenere il governo democratico o di non condividere le motivazioni dei golpisti. Come e più di altri Paesi, l’Italia si ritrova in prima fila. Sono ore e giorni decisivi, ricostruiti nel 2018 anche da un documentario del regista Nanni Moretti. “L’ambasciata ebbe un ruolo molto attivo negli anni immediatamente successivi al golpe” ricorda Biagiotti. “Oltre 700 persone vennero accolte nella residenza dell’ambasciatore dal settembre 1973 al novembre 1974: si trattava inizialmente solo di cittadini di origine italiana, ma l’ospitalità venne successivamente estesa ai non connazionali”. Nel documentario di Moretti, intitolato ‘Santiago, Italia’, si ricostruiscono giorni drammatici e decisioni che si dovettero prendere con rapidità. Nella sede non c’era il capo missione, Tomaso De Vergottini, che era partito tre giorni prima per l’Italia, ed erano invece in servizio Piero De Masi, incaricato d’affari, e Roberto Toscano, un altro diplomatico.
L’ambasciata che ci fa onore
“L’ambasciata accolse famiglie con bambini, donne e uomini giovani e meno giovani, che si organizzarono per vivere nella maniera più dignitosa possibile all’interno degli spazi della residenza” ricostruisce Biagiotti. “Ciò fu dovuto prima di tutto al coraggio e all’eccezionale spirito di solidarietà e di servizio dei diplomatici e di tutto il personale dell’ambasciata di quel tempo”.
Un contributo riconosciuto e sottolineato anche dal presidente Sergio Mattarella, durante una visita in Cile nel luglio scorso: “Al personale dell’ambasciata impegnato in quei difficili anni”, ha affermato il capo dello Stato in quell’occasione, “va la riconoscenza della Repubblica”.
La sede diplomatica a Santiago continuò a essere sempre pienamente operativa, nonostante il non riconoscimento da parte dell’Italia della situazione “de facto” generata dal golpe. Una scelta complessa, in una fase carica di tensione, con Pinochet al potere fino al 1990. “Sotto il segno della memoria va innanzitutto segnalato l’evento tenutosi nel corso della visita del presidente della Repubblica il 5 luglio scorso” riprende Biagiotti. “In quell’occasione, alla presenza di ministri, ex presidenti della repubblica cilena e di una rappresentanza di coloro che vissero in ambasciata o che furono esuli in Italia, Mattarella ha reso omaggio al monumento di Lumi Videla, attivista il cui cadavere venne gettato all’interno dell’ambasciata nel 1974”.
La storia è quella di una ragazza di 26 anni, studentessa di Sociologia ed esponente del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (Mir). Fu arrestata dalla polizia politica il 21 settembre 1974, torturata e uccisa. Il suo corpo fu poi gettato nel giardino dell’ambasciata italiana dove erano rifugiate centinaia di persone, anche per alimentare una campagna stampa di discredito.
Cinquanta anni dopo, con l’avvicinarsi dell’anniversario del golpe, le commemorazioni si sono moltiplicate. “Sono tantissime le iniziative cui stiamo partecipando, organizzate dal mondo istituzionale e accademico cileno, molte delle quali mettono al centro proprio il sostegno della comunità internazionale, da parte sia degli Stati sia delle organizzazioni non governative e singoli cittadini” riferisce Biagiotti. “In molti casi si trattò di un aiuto essenziale per salvare vite umane”.
Un contributo, questo, che il Cile ricorda. “Anche l’ambasciata d’Italia e l’Istituto italiano di cultura stanno organizzando un’iniziativa molto significativa per il mese di novembre” anticipa Biagiotti. “Sarà un’altra occasione per ricordare la solidarietà e la partecipazione dell’Italia in quegli anni, che furono profonde e sincere, come gli amici cileni ancora oggi ci riconoscono”.
E di questo, nostra chiosa finale, ne andiamo orgogliosi. Come dell’aver sostenuto, in quei tempi difficili e al tempo stesso entusiasmanti, la resistenza cilena. Convinti, ieri come oggi, che El pueblo unido jamàs serà vencido.